E la tecnologia cambiò il lavoro

-di MARTINO LONGO-

Il futuro del lavoro appare oggi sempre più incerto, soprattutto nei grandi paesi Europei che hanno raggiunto un’industrializzazione matura, per tecnologia e qualità, ma che si trovano in ritardo nei settori più avanzati dell’alta tecnologia, dove a primeggiare sono Inghilterra e USA. Infatti paesi come Germania, Italia e Francia non sono stati protagonisti, bensì hanno subito la rivoluzione informatica che dalla fine del XX secolo sta cambiando radicalmente la concezione del lavoro, che si sta evolvendo e trasformando alla stessa velocità con cui si trasforma la tecnologia

Il centro propulsore dell’innovazione tecnologica sono sicuramente gli Stati Uniti, che sono stati capaci di sfruttare al meglio la loro posizione dominante in questa nuova rivoluzione tecnico-scientifica, per recuperare l’occupazione persa a causa della crisi e convertire processi come la deindustrializzazione in nuove forze lavorative nel campo della tecnologia. Un altro dato indicativo della trasformazione del mondo del lavoro, può essere riscontrato nell’incidenza lavorativa dell’occupazione manifatturiera che negli Stati Uniti va sempre più diminuendo, passando dal 22.5% del 1980 all’attuale 10% e che si ridurrà sempre di più nei prossimi anni. Gli Usa quindi grazie alla spinta propulsiva data dalle tecnologie e dalla nuova trazione finanziaria, hanno saputo per primi recuperare quanto perso nella crisi del 2008 sia in termini di reddito che di occupazione, la quale attualmente si è ridotta fino al 5,5% mentre in Europa si attesta intorno al 9%. Anche il Regno Unito ha avuto la capacità di cavalcare la rivoluzione tecnologica e telematica e le sue attività di servizio, per prime già dagli anni Novanta si sono innovate, crescendo in valore ed efficenza, arrivando ad essere le migliori al mondo. Grazie a questa intuizione la Gran Bretagna, nonostante essa stessa sia stata colpita dalla crisi e dalle politiche di austerity, rappresenta oggi il polo d’innovazione tecnologico Europeo.

Il resto dell’Europa ha vissuto in modo passivo la rivoluzione informatica, subendo oltre agli effetti della crisi finanziaria, anche l’effetto dell’automazione nel settore manifatturiero, nell’industria e nei servizi, che hanno sempre più perso occupazione. Le nuove tecnologie passando dagli smartphone alle stampanti 3-4 D hanno dotato i consumatori di protesi in grado di potenziare se stessi e allo stesso tempo essere mezzo della nuova rivoluzione tecnologica, che non riguarda più come le passate rivoluzioni, solo un settore come poteva essere quello manifatturiero o industriale, ma riguarda ognuno di noi in prima persona. Per l’economia europea metabolizzare le nuove tecnologie nei settori tradizionali ha portato a due conseguenze: da un lato ha migliorato la produttività ed elevato enormemente la potenziale crescita, dall’altro lato ha colpito e ridotto l’occupazione. Infatti la UE non ha saputo innovare in modo organico  le nuove professionalità non riuscendo a sfruttare al meglio tutte le opportunità che la rivoluzione tecnologica ha in essere. Tutto ciò avviene anche perché, nell’ambito della comunità Europea, è difficile immaginare una congiunta attività intergovernativa che possa coinvolgere in modo organicistico ogni stato membro, basta guardare alla disastrosa politica migratoria o all’inefficacia delle politiche economiche, che risultano fortemente condizionate dalle asimmetrie economiche dei vari paesi. La disoccupazione tecnologica in Europa conosce diverse intensità e sfumature a seconda dei contesti regionali o nazionali, ma ad essere colpiti maggiormente sono quelle zone in cui la crisi finanziaria ha recato più danni e che ancora non sembra essere superata definitivamente; la fase di stallo in cui si trovano questi paesi, compresa l’Italia, non fa che aumentare il gap tecnologico.

In Europa si aggiunge, al problema della disoccupazione, un altro fattore critico e cioè il veloce invecchiamento della sua popolazione. Infatti Il numero di anziani, pensionati che hanno bisogno di assistenza e percepiscono una pensione, sta crescendo velocemente rispetto al numero dei giovani che entrano nel mondo del lavoro. Secondo un rapporto della commissione Europea sull’invecchiamento, l’UE passerà entro il 2060  da avere quattro persone in età lavorativa per ogni persona di età superiore ai 65 anni a circa due persone in età lavorativa per ogni anziano. Le proiezioni di bilancio a lungo termine mostrano che l’invecchiamento della popolazione costituisce una sfida per le finanze pubbliche dell’UE, con ricadute certe in un enorme incremento della spesa pubblica. I modi con cui si sta cercando di rispondere a questa sfida sono plurimi ma la gran parte impraticabili, come ad esempio l’aumento dell’età pensionabile (sempre più vicina all’età di morte), una soluzione che si sta dimostrando disastrosa in quanto blocca l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro. Perciò l’unica soluzione possibile e sostenibile sembra  essere quella di allargare la platea della forza lavoro, in modo da poter pagare i contributi e sostenere la spesa pensionistica nazionale.        Questo allargamento va sostenuto con due procedimenti da attuare in modo parallelo: favorire l’incremento del tasso di natalità, con incentivi alle famiglie soprattutto sotto forma di miglioramento dei servizi, e accogliere quegli immigrati che tanto spaventano l’Europa ma che potrebbero rappresentare una grande risorsa. Anche perché ad esempio in Italia soltanto il 15% dei posti di lavoro ad alto sviluppo è stato occupato da un immigrato, mentre nei settori in declino la maggioranza dei lavoratori sono stranieri. Ciò significa che gli immigrati se integrati, non risultano essere un peso sulle tasche dei contribuenti bensì, in quanto andrebbero ad occupare dei settori lavorativi che in Europa risultano scoperti, contribuirebbero al sostenimento della popolazione europea. Infine verrebbe permesso anche al sistema lavorativo di spostarsi sempre più velocemente verso il settore tecnologico.

Di fondamentale importanza è infatti superare questo stallo tecnologico ed economico dell’Europa, in quanto l’asticella dell’high tech va sempre più innalzandosi e presto si giungerà ad una nuova rivoluzione con protagonista l’intelligenza artificiale e l’automazione che coinvolgerà anche la biologia e la biomedica e che avrà un impatto maggiormente diffusivo nella vita quotidiana dell’uomo. Questo significa che sempre più il lavoro umano potrà essere sostituito da robot e da intelligenza artificiale e ci si chiede non solo nell’Europa in crisi, ma a livello mondiale, come e quanto nel medio-lungo termine il lavoro umano dovrà reinventarsi. Infatti secondo la Banca mondiale, entro il 2030 il Pianeta perderà 2 miliardi di posti di lavoro, mentre nei prossimi dieci anni entreranno nel mercato del lavoro 1 miliardo di persone. Se si avverassero questi fenomeni, se si realizzasse l’ipotesi di una diminuzione d’incidenza dell’occupazione, che farà il resto della popolazione per vivere? Che fare sulle disuguaglianze che si verrebbero a creare fra un minoritario settore tecnologico produttivo e la grande maggioranza di lavoratori sottoccupati o disoccupati?        L’Occidente potrebbe correre ai ripari sviluppando, con crescenti aiuti, i settori high tec; una scelta che diffonderebbe la rivoluzione informatica stimolando nuovo potenziale lavorativo, che dalla tecnologia si propagherebbe ad altri settori, soprattutto nei servizi, nella logistica… creando nuova occupazione in rinnovati settori e stimolerebbe in particolar modo il lavoro autonomo. La tecnologia creerà una nuova imprenditorialità che coinvolgerebbe diverse dimensioni, come il tempo libero, la cultura, la sostenibilità ambientale, nuove fonti di energia… Tuttavia anche in questo scenario positivo rimangono delle criticità. Una di queste è l’incremento del gap di reddito fra una piccola minoranza e il resto dei lavoratori; in tal modo i benefici e le ricchezze, derivanti dalla crescita di produttività, gioverebbero solo ad una ristretta cerchia di lavoratori già ricchi; scenario che trova riscontro nella storia degli States di questi anni dove ad arricchirsi, sulla rivoluzione tecnologica, è stata una piccola cerchia di già miliardari.

Perciò anche nella prospettiva in cui la rivoluzione informatica riesca a propagarsi a livello mondiale, creando e non sottraendo posti di lavoro, questa va sicuramente affiancata ad un ricentraggio delle politiche lavorative e di welfare. Inoltre nelle agende governative andrebbero inserite politiche che mirino ad un’ incentivazione del lavoro vocazionale, stimolato e finanziato dallo stesso stato, così che chiunque abbia la possibilità di dedicarsi a realizzare un lavoro più affine alle proprie predisposizioni e vocazioni. Ma vanno soprattutto modificate le politiche economiche perché quelle sino ad ora realizzate, insieme ai mutati equilibri politici mondiali, hanno trasformato i dogmi neo-liberisti (forse non a caso l’irruzione sulla scena di Reagan e della Thatcher sostanzialmente coincide con l’avvio delle ricerche che hanno portato a internet) in un pensiero unico globale, finendo per favorire un uso della tecnologia finalizzato all’accentuazione delle diseguaglianze e all’espansione dei processi di delocalizzazione attraverso i quali sono stati favoriti forme spregiudicate di dumping sociale con il conseguente ridimensionamento o azzeramento dei diritti laddove erano stati conquistati e la marginalizzazione sociale delle persone con minori opportunità. L’illusione che la tecnologia sostituisca automaticamente i posti di lavoro (e i lavori) che distrugge con nuovi posti (e nuovi lavori) prodotti dall’evoluzione del processo di trasformazione, è crollata da tempo (già a metà degli anni Novanta segnalava il problema Jeremy Rifkin). La velocità delle comunicazioni, inoltre, ha favorito e assecondato lo sviluppo di quell’economia finanziarizzata che ha prodotto molti dei problemi con i quali il mondo sta facendo drammaticamente i conti. La rivoluzione della comunicazione ci obbliga, in sostanza, a rivedere la struttura stessa del “contratto sociale” ponendo al centro del dibattito un serissimo problema: come redistribuire insieme al reddito anche il lavoro. E come evitare che la tecnologia si trasformi in un nuovo invisibile muro, più alto e robusto di quello di Berlino: di qua chi ha libero accesso alla tecnologia, la usa professionalmente e ne trae notevoli benefici economici; di là gli esclusi trasformati nei nuovi reietti della società dell’opulenza di pochissimi e del malessere di moltissimi.

 

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