Turchia: la voce del Padrone e quella degli stranieri

In Turchia si sono aperti i seggi: sapremo, così, se i turchi ritengono opportuno, al pari del loro presidente, Recep Tayyip Erdogan, abbandonare la strada della liberal-democrazia (peraltro già abbondantemente dissestata dal Capo) abbracciando qualcosa di diverso che fa rima con tirannia. Come si sa i leader autoritari amano i collaboratori obbedienti, anche un po’ servili. Il ministro degli esteri, ad esempio, Mevlut Cavusoglu, che depositando in mattinata la sua scheda nell’urna, ha spiegato rivolgendosi agli stranieri: “Hanno cercato di dire ai Turchi cosa dovrebbero fare. Hanno preso parte. Ma oggi la decisione appartiene alla nostra nazione”. A dir la verità nessuno ha cercato di dire ai turchi cosa devono fare. Anzi, al limite è stato Cavusoglu, da ministro degli esteri, a dire a Papa Francesco quale sarebbe, dal suo punto di vista, la maniera più corretta per parlare di un evento storico che da queste parti chiamiamo genocidio armeno e che ad Ankara evidentemente qualificano in altro modo. Liberi di farlo ma anche liberi gli altri, Papa compreso, di pensarla diversamente anche da Cavusoglu. È il suo presidente che manovrando il “rubinetto” dei profughi siriani di fatto “ricatta” l’Europa (con una certa complicità dell’Unione e della Merkel che hanno accettato, a causa della loro evidente impotenza, di sedersi al tavolo di un giocatore di tre carte). Insomma non sono gli stranieri che devono dire ai turchi cosa fare ma è evidente che nel momento in cui dovessero decidere di consegnarsi sostanzialmente a un padrone anti-democratico, non potranno certo adombrasi se l’Europa democratica dovesse accentuare le distanze da un regime di cui non dovrebbe condividere né il senso né la storia.

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