-di ANTONIO MAGLIE-
La legge elettorale, per motivi facilmente comprensibili, viene varata con una provvedimento ordinario e non con uno costituzionale (non la si può irrigidire sino al punto da non assecondare lo spirito dei tempi). Ciò non toglie che si possa definire una legge istituzionale: non definisce le regole del gioco democratico, ma assicura il loro corretto funzionamento. In un paese civile su un tema come questo si discute seriamente e si cerca una intesa molto ampia perché quel meccanismo non deve sfavorire nessuno perché pensare di piegarlo a proprio vantaggio può, poi, nel tempo, determinare una situazione di svantaggio. In Italia negli ultimi anni tutti i partiti o le coalizioni di maggioranza hanno messo a punto leggi elettorali nell’intento di utilizzarle in funzione dei propri interessi: lo ha fatto Silvio Berlusconi con il Porcellum (cancellato dalla Corte Costituzionale), lo ha fatto Matteo Renzi con l’Italicum (cancellato dalla Corte costituzionale e, sostanzialmente, da un referendum costituzionale). Alla resa dei conti, la legge elettorale che ha retto per l’arco più ampio di tempo è stata quella proporzionale partorita subito dopo la guerra e il motivo di questa sua relativa longevità va cercato proprio nel fatto che fu il risultato di un accordo ampio.
Ora intorno a questo provvedimento essenziale in una democrazia si è sviluppato una sorta di suk all’interno del quale sembrano lavorare dei veri e propri venditori di tappeti persiani falsi. Siamo sull’orlo di una crisi di governo, con un ex presidente del consiglio (Renzi) che soffia sul fuoco e gioca col fuoco (tenendo al guinzaglio il presidente del consiglio, Gentiloni, e il ministro addetto al portafoglio, Padoan, dopo averglielo fatto aprire in maniera impropria prima del famoso referendum). Motivo del contendere nel mercanteggiamento: la presidenza della commissione Affari Costituzionali del Senato, poltrona lasciata vuota da Anna Finocchiaro emigrata al governo, destinata al dem Giorgio Pagliari ma finita sotto le terga, dell’alfaniano (ma sembra in procinto di passare a Forza Italia) Salvatore Torrisi. Accordi traditi con la complicità di un bel pezzo di maggioranza (compreso qualche franco tiratore democratico). I renziani si sono scatenati. Questi movimenti a chi pensa che il Parlamento sia il luogo in cui si esercita l’arte della politica e non quella dell’intrigo di Palazzo, appaiono tutto sommato incomprensibili. La pensa così, ad esempio, il presidente del Senato, Pietro Grasso il quale ha parlato di “tempesta in un bicchiere d’acqua” aggiungendo che Torrisi avendo da vice svolto temporaneamente le funzioni presidenziali al posto della Finocchiaro, probabilmente è stato “apprezzato dalle opposizioni” pur facendo parte della maggioranza.
Perché poi c’è anche questo problema: sul suo nome si sono coagulati tutti i voti dei partiti fuori dall’area di governo. E anche da questo punto di vista, gli “ingenui” faticano a comprendere le ragioni di questa “tempesta in un bicchier d’acqua”: quei partiti si sono tutti attestati al referendum sul fronte del “no”; sarà stata pure una accozzaglia (copyright Matteo Renzi) ma se poi quell’accozzaglia si aggrega su un candidato che non è espresso dal partito-capofila nella battaglia a vantaggio del sì, ci si può veramente sorprendere o addirittura gridare allo scandalo? Alfano ha chiesto a Torrisi un passo indietro per ripristinare la solidarietà di maggioranza. Ma il fatto reale è che in questa vicenda non c’è nulla di serio. I partiti (tutti) avrebbero dovuto fornire una prova di maturità politica cercando di guardare, per una volta, al di là del loro orticello (o latifondo) elettorale ma non lo hanno voluto fare, ognuno ha continuato ad arare il proprio campo nella speranza di poter ottenere l’utile personale più cospicuo. Risultato: probabilmente andremo a votare con una legge improponibile che ci porteremo dietro sino a quando qualcuno, sentendosi più forte degli altri, proverà a imporne una tutta nuova e a lui più favorevole. L’ingovernabilità del Paese è garantita: risultato amaro di un gioco al massacro che squalifica chi oggi vi sta partecipando.