-di GIULIA CLARIZIA-
24 marzo 1944. Nella Roma “città aperta” occupata dai nazisti, 335 italiani vengono uccisi dai tedeschi: è l’eccidio delle fosse ardeatine. Il giorno precedente, 33 soldati tedeschi erano rimasti vittime di un attacco da parte di alcuni membri del Gruppo di Azione Patriottica, componente della resistenza italiana. Il battaglione infatti passava ogni giorno in assetto da guerra in via Rasella, dove i partigiani fecero esplodere una bomba ad alto potenziale.
La reazione, fu il tragico eccidio del giorno successivo. Giunto sul luogo, il generale Kurt Mälzer invocò subito vendetta. Lo stesso Hitler, una volta venuto a conoscenza dell’accaduto, ordinò una rappresaglia spietata. Chiedeva in infatti la morte di quaranta italiani per ogni tedesco ucciso. Tuttavia, i generali in loco, in particolare sotto proposta del generale Mackensen, optarono per una proporzione di dieci a uno, scegliendo come vittime prigionieri condannati a morte o all’ergastolo. L’uccisione sarebbe dovuta avvenire in brevissimo tempo e nella massima segretezza.
Non ci fu interesse nel trovare i colpevoli dell’attentato di via Rasella, né si diede ai partigiani la possibilità di auto-denunciarsi per evitare la strage. L’obiettivo cercato dai nazisti era solo quello della spietata vendetta.
Reperire 330 condannati a morte in meno di ventiquattr’ore non fu semplice. Nelle prigioni di via Tasso e Regina Coeli erano detenute circa 290 persone, ma le donne vennero escluse dalla rappresaglia e comunque non erano tutti condannati a morte o all’ergastolo. Il colonnello Kappler, incaricato di redigere la lista dei condannati, chiede allora di includervi anche alcuni ebrei in attesa di essere deportati. Decise anche di chiedere l’aiuto del questore Pietro Caruso che promise di fornire una lista di cinquanta uomini. Si era tuttavia ancora molto lontani dal numero richiesto. Per questo, vennero aggiunti anche alcuni uomini ancora in attesa di giudizio per crimini come “oltraggio alle truppe tedesche” o “possesso di armi da fuoco o esplosivi” e alcuni militari italiani tra cui i capitani che avevano arrestato Mussolini.
Caruso, però, stava prendendo tempo.
L’ordine della rappresaglia infatti, non aveva generato unanime supporto da parte dei presupposti esecutori.
Il maggiore Dobbrick ad esempio, il primo interpellato dal colonnello Kappler per procedere all’uccisione, rifiutò, così come vari altri soldati.
Se già solo l’idea generava repulsione persino tra i nazisti, ancora peggio fu la situazione sul luogo della strage.
Per mantenere la segretezza, vennero scelte le gallerie abbandonate tra le catacombe di San Callisto e Santa Domitilla in via Ardeatina. Lì, i prigionieri, totalmente ignari, venivano fatti entrare a gruppi di cinque, e dopo essere stati depennati dalla lista controllata dal capitano Priebke, ricevevano il colpo mortale. Massimo un minuto a prigioniero, una sola pallottola.
Il rigore tipicamente nazista venne tuttavia ben presto abbandonato. Chi si rifiutava di sparare, chi non mandava a segno il proprio colpo, il caos dei corpi accatastati, la resistenza dei prigionieri e la lista di Caruso che ancora non arrivava.
Si presero allora prigionieri a caso. 330 dovevano essere e 330 sarebbero stati. Poi, di fatto, furono 335. Nella frenesia, erano stati prelevati cinque prigionieri in più, uccisi per essere colpevoli di aver visto tutto.
Poi una mina per chiudere l’accesso alle gallerie.
Solo a lavoro finito, si comunicò l’accaduto.
Dopo la guerra, il colonnello Koppler fu condannato all’ergastolo, così come Priebke, arrestato nel 1995 in Argentina.
Oggi, un monumento ricorda le vittime di questa terribile strage. È lì che ieri le alte cariche dello stato si sono recate per rendere omaggio alle vittime. Tra i presenti, Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Presidente del Senato Piero Grasso, il Ministro della Difesa Roberta Pinotti e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano Danilo Errico. Tra gli assenti, non si può non notare la sindaca di Roma Virginia Raggi.