Riapriamo la riflessione sul Mezzogiorno

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-di MAURIZIO BALLISTRERI-

I media hanno ricordato il venticinquennale della deflagrazione di Tangentopoli. Una data, quel 17 febbraio 1992, da cui si sono originati la fine del sistema che per convenzione politologica si definisce “Prima Repubblica”, di derivazione ciellenistica, con la conseguente subordinazione, invero su scala globale, della politica al mercato finanziario, e l’oscuramento su una delle grandi questioni irrisolte dopo l’Unità d’Italia: quella meridionale, come testimonia, anche, la recente convention renziana al Lingotto.

La questione meridionale si presenta ormai suddivisa in tanti capitoli, dalla legalità all’ambiente e al lavoro, senza più una prospettazione unitaria.

Purtuttavia, il Sud, di recente, è riuscito a dare segnali di una diversa capacità di fronteggiare, sul piano politico, la rimozione del tema da parte dell’agenda pubblica nazionale, allorquando in occasione del referendum sulla riforma della Costituzione ha dato un chiaro segnale di contestazione, rivendicando occupazione e sviluppo. E’ emersa così, una volontà di autodeterminazione per opporsi a un progetto di riforma costituzionale in cui il rango del Meridione era di soggetto passivo e nel quale il suo sviluppo doveva essere determinato dalle imperscrutabili scelte del “Principe” sulla testa delle comunità territoriali, pesantemente viziato da quel “panpoliticismo” che vagheggia forme premoderne di democrazia centralizzata, fondata sul leader.

Il Mezzogiorno non è più il mondo arcaico e rassegnato dei contadini di Gagliano descritti da Carlo Levi. Quella rappresentazione venne superata grazie all’unica fase di convergenza tra Sud e Nord del nostro Paese, tra anni Cinquanta e Sessanta del ‘900, in virtù dell’intervento straordinario basato sugli investimenti fissi in sviluppo industriale e manifatturiero. A partire dagli anni Settanta, con la progressiva acquisizione di modelli economici neo-liberisti e anti-statalisti, i trasferimenti dell’intervento straordinario hanno cambiato natura trasformandosi in assistenzialismo clientelare e spesa improduttiva.

Da questo cambio di paradigma della visione della questione meridionale, nasce l’attuale condizione del Mezzogiorno di mercato di sbocco per le industrie settentrionali e internazionali, con l’assegnazione solo di forme di economia agro-turistica, cioè a leve che non possono garantire adeguati processi di accumulazione che recuperino il dualismo Nord-Sud, con l’esposizione del Meridione alle incerte congiunture del mercato. La conseguenza è stata l’abbandono dell’obiettivo ineludibile della convergenza nazionale, sacrificato sull’altare dell’attribuzione al Sud del ruolo di territorio di consumo, accompagnato dagli storytelling sul ritorno all’agricoltura, sulle start-up, sulle eccellenze meridionali, mentre migliaia di giovani dotati di know-how hanno preso la strada dell’emigrazione all’estero e il residuo tessuto imprenditoriale del Mezzogiorno affronta quotidianamente la “guerra” con il non-governo, la burocrazia, il credito, la criminalità, la carenza di infrastrutture materiali e immateriali.

Il tema appare, dunque, la ripresa della riflessione (e dell’azione!) sul modello di sviluppo del Mezzogiorno, depurata dalla vana retorica finto-meridionalista.

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