-di ANTONIO MAGLIE-
Matteo Renzi ha terminato ieri di officiare al Lingotto il suo rito sacerdotale. Non sono mancati nemmeno i momenti in cui il consenso per il leader si è trasformato in culto della personalità (cosa evidentemente non sgradita al diretto interessato) come quando il ministro Graziano Del Rio ha tirato fuori il paragone tra il fuoriclasse di Rignano e quello di Lanùs, cioè Diego Armando Maradona. Per carità, non chiederemo a Renzi di palleggiare con una arancia né con una banana, però se non andiamo errati Dieguito ha fatto vincere all’Argentina due Mondiali (uno con la nazionale under 20) e al Napoli due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Uefa e una Supercoppa: considerato che l’unico trionfo Renzi lo ha ottenuto solo alle elezioni europee del 2014, è evidente che dal punto di vista del palmares il paragone ancora non regge.
Ma al di là degli ambiziosi paragoni sportivi, se il leader del Pd è esattamente quel che dice di essere, allora è proprio venuto il momento di dimostrarlo con i fatti. Ad esempio: nel corso del suo intervento conclusivo ha sostenuto che si è di sinistra schierandosi dalla parte degli ultimi non cantando Bandiera Rossa o salutando col pugno chiuso. A parte il fatto che tra le due cose può anche non esserci contraddizione nel senso che si può essere di sinistra e dimostrare di esserlo effettivamente anche cantando Bandiera Rossa o l’Internazionale e salutando gli astanti a pugno chiuso cosa che evidentemente nel Pd può creare un certo imbarazzo visto che in tanti vengono da esperienze e culture politiche in cui si preferivano le note di “bianco fiore simbolo d’amore” e alla qualifica di “compagni”, che produceva attacchi d’orticaria, si sostituiva quella più neutra di amici (ora molto abusata per via di Facebook).
Al di là delle dispute dialettiche, però, il problema è la coerenza delle parole rispetto ai fatti. Ebbene, nei 1015 giorni di governo, Renzi non è che abbia fornito tante prove di vicinanza a quegli ultimi la cui causa ora dichiara di abbracciare. Lo abbiamo visto accanto a grandi imprenditori, famosi finanzieri; la sua Leopolda era ormai diventata un evento glamour, affollato di persone non proprio catalogabili tra gli ultimi e nemmeno tra i penultimi o i terzultimi. Né le sue scelte sono apparse troppo in linea con le sue odierne dichiarazioni di principio, bonus di 80 euro a parte che, in ogni caso, essendo stato un espediente estemporaneo (come il “premio” per i giovani o la scarna dotazione economica messa a disposizione degli insegnanti per l’aggiornamento professionale) oggi crea qualche problema nella quadratura del cerchio dei rinnovi contrattuali visto che è sempre in agguato il rischio di perdere con i nuovi aumenti i vecchi benefici del bonus con la conseguenza che alla fine si venga a determinare una poco edificante partita di giro e cioè con la sinistra che toglie quello che la destra ha dato.
Renzi ha spiegato che il “lavoro bisogna crearlo non farci i convegni”. Bella battuta che equivale alla scoperta dell’acqua calda. E, in ogni caso, forse su questo fronte Renzi dovrebbe fare un po’ di autocritica cominciando col prendere atto che i suoi interventi di lavoro ne hanno creato veramente poco. Non ne ha creato il Jobs Act che ha funzionato solo il primo anno, quando la decontribuzione era totale, cioè quando il “beneficio” economico convinceva i datori di lavoro a fare assunzioni. L’Istat in questi giorni ci ha detto che nel 2016 abbiamo recuperato un po’ di terreno sul fronte dell’occupazione, cioè siamo tornati al 2013. In sostanza il tasso di disoccupazione è sceso di mezzo punto. Il beneficio si riduce ulteriormente, però, se prendiamo a riferimento i dati di gennaio 2017 perché in questo caso il miglioramento è stato dello 0,3. Con i convegni non si crea lavoro ma evidentemente nemmeno con le ricette sin qui seguite perché ci vogliono investimenti e soprattutto lo Stato deve riscoprire, in maniera più sana rispetto al più recente passato, la vocazione imprenditoriale, altrimenti restiamo fermi al palo.
E quando parla di ultimi e penultimi, Renzi dovrebbe dare un’occhiata anche alle scelte compiute sul fronte dei salari e, di conseguenza, dei consumi (la domanda interna senza la quale non c’è ripresa). Gli ultimi e i penultimi avrebbero avuto bisogno di un vero intervento a livello di redistribuzione della ricchezza e questo intervento può essere realizzato solo attraverso la leva fiscale, solo riattivando quella progressività (in tutti gli aspetti del sistema e non solo dell’Irpef) che consente di spostare le disponibilità economiche da un ceto a un altro. Le misure spot (come il bonus da ottanta euro) per quanto benefiche, non riequilibrano sufficientemente la situazione: la gente aveva bisogno di ritrovarsi nelle tasche qualcosa di certo e, soprattutto, consolidabile nel tempo. Ora non ci resta che incrociare le dita. Probabilmente l’impennata inflazionistica è destinata un po’ a ridimensionarsi perché legata a fenomeni contingenti (il prezzo dei prodotti petroliferi, la gelata di fine dicembre-inizi gennaio che ha fatto impennare i prezzi di zucchine e lattuga) perché in assenza di veri interventi correttivi sulla redistribuzione della ricchezza e a favore della crescita dei salari potremmo correre il rischio che nei prossimi mesi l’aumento del costo della vita sia superiore a quello delle buste-paga con inevitabili conseguenze sulla propensione al consumo e, quindi, sulla crescita che è già abbastanza sterile. Conclusione: le chiacchiere, come si dice, stanno a zero ma se il principio vale per Emiliano, Orlando e Speranza, ancora di più vale per Matteo Renzi che, al contrario di Maradona, non solo non ha vinto ancora il Mondiale, ma non ha conquistato nemmeno lo scudetto.