Legge elettorale: ma “riadattare” non basta

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-di FEDERICO MARCANGELI-

Pensare meno alle esigenze di bottega (politica) e di più alla qualità della legge elettorale avendo come punto di riferimento il referendum. Cosa che comporta una presa di coscienza: non era la riforma del sistema elettorale che derivava dalla riforma della Costituzione ma il contrario. Lo stesso ballottaggio sopravvissuto da un punto di vista politico-istituzionale non ha più alcun senso perché il meccanismo, già distorsivo in partenza, è direttamente legato alla elezione di una figura dominante (presidente della Repubblica, premier) tanto è vero che la sua utilizzazione spostava buona parte del peso del sistema verso Palazzo Chigi personalizzando ulteriormente la democrazia italiana. Questa centralità dell’Italicum viene meno rispetto alla nuova situazione che si è venuta a creare attraverso le due bocciature (popolare e della Corte Costituzionale). Diventa, di conseguenza, indispensabile costruire un sistema che sia funzionale al quadro di riferimento istituzionale sopravvissuto a questi due esami. Tenendo presente che la conferma del Senato obbliga a una armonizzazione delle due leggi elettorali che è impresa tutt’altro che semplice anche perché i continui ricorsi alla Corte sul tema elettorale hanno dimostrato che in ogni momento un sistema può essere rimesso in discussione e rimaneggiato dalle sentenze della Consulta. Questo il senso di un bell’incontro di studi organizzato dalla Fondazione Basso e dal Centro Riforma dello Stato e che si è svolto lunedì 6 marzo nella sede della Fondazione Basso. Oggetto della discussione: come uscire dalla strettoia che si è venuta a creare dopo la sentenza della Consulta che ha parzialmente bocciato la legge elettorale voluta da Matteo Renzi.

Maria Luisa Boccia, docente di filosofia della politica presso l’università di Siena, ha introdotto i lavori sottolineando come nella discussione sulla legge elettorale (politica e dei media) venga totalmente rimosso il referendum del 4 dicembre, nonostante sia stato un vero e proprio voto politico. Una bocciatura per tutto il disegno renziano. La costituzione modificata non poteva prescindere dalla legge e viceversa, volendo spostare verso l’esecutivo il potere. Tutto era stato costruito su misura per il PD, ma la realtà è stata diversa da ciò che si aspettava Renzi. Bisognerebbe ragionare sul fallimento di questa riforma molto “presidenzialistica” e personalistica, tornando ad orientarsi verso un sistema parlamentare ed estremamente rappresentativo. Ma questo concetto appare alquanto lontano dalle ipotesi di riforma. Tutte le proposte attuali sembrano studiate per favorire il proprio lato politico, senza guardare verso un quadro rappresentativo d’insieme. Le conseguenze di questo atteggiamento potrebbero essere gravissime. Senza rappresentatività si rischia un ulteriore svuotamento della democrazia ed un aumento dell’anti-politica. La pluralità non è infatti frammentazione, ma un’opportunità per la democrazia sancita in costituzione.

Dopo l’introduzione è stato il momento del prof. Gaetano Azzariti, docento di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma. L’analisi è partita dal referendum. Il 4 dicembre evoca due scenari possibili. In primo luogo, un’occasione perduta (come è già successo nei due precedenti), che sancirebbe la sconfitta del costituzionalismo democratico e l’affermazione del costituzionalismo post-moderno. Questo a causa della forte debolezza delle forze politiche in gioco. Nonostante il peggio sia passato passato (il referendum) l’ipotesi di ritornare sui vecchi errori è concreta. L’altra ipotesi è quella della ricostituzione dello “status quo ante”. Un ritorno all’età dell’oro della democrazia.
Le aspettative creatisi con il referendum non possono essere disattese, visto che il “No” rappresentava un cambiamento per la ricostruzione della democrazia. Nonostante le grandi responsabilità (verso il paese) derivanti dall’esito referendario, le considerazioni sono state al momento orientate solo verso le sorti del governo (o dei leader). Questa eccessiva personificazione dei risultati rientra nella storia recente del paese.
Anche riforma costituzionale bocciata non è semplicemente una trovata estemporanea ma il culmine di un percorso politico di regressione, che non ha tenuto conto del lungo periodo per operare nel bene comune. Il voto del 4 dicembre è una risposta a questa tendenza. Un riassunto di molte culture e “sentimenti”. Dal rancore a ragionamenti più profondi inerenti le diverse concezioni di democrazia. Da un lato un pensiero di potere concentrato in un leader, una democrazia d’investitura, dall’altro una pluralista e conflittuale. La seconda è quella che ha vinto il referendum. Per uscire dalla concezione sconfitta ed entrare in quella vincitrice occorre un percorso lungo e difficile.
Si deve far leva su: rappresentanza politica (ormai persa) e ruolo del parlamento. Sul primo punto bisogna trovare un compromesso tra governabilità e la rappresentanza reale. Ma anche il migliore dei sistemi elettorali non risolverebbe il problema della rappresentatività reale svanita. La problematicità risiede in partiti privati di legittimità sociale e svuotati di ideali. Lo sguardo va volto verso il rappresentato, che non si sente più parte della politica. Bisogna ripensare le forme di partecipazione, come il referendum. Basterebbe modificare la legge del 1970, snellendo la procedura di raccolta firme o obbligando il parlamento ad una maggiore attenzione verso i cittadini. La stessa iniziativa popolare potrebbe rappresentare un’ulteriore spinta verso il “ritorno alla fiducia”. Questo senza dimenticare una riforma delle regole parlamentari, riequilibrando il potere parlamento-governo troppo sbilanciato verso l’esecutivo. Aiutare cioè il parlamento a ritrovare la sua autonomia di organo costituzionale. Il referendum del 4 Dicembre va proprio in questo senso, appare come una richiesta di pluralismo. Quest’ultimo non può prescindere da camere forti e non svuotate di potere, in balia di un governo che detta l’agenda e domina la scena politica. Bisogna favorire quindi il confronto ed il compromesso, senza limitare la libertà di discussione tra le forze in gioco (maggioranza ed opposizione). Quello che manca al momento è il coraggio verso il cambiamento. Bisogna accentuare il radicalismo politico e culturale, per non farsi trascinare dai da una storiaa sempre più frenetica. Il mondo è in cambiamento repentino (Trump, nuovo imperialismo) ed è necessario agire con grande forza per non farsi travolgere dagli eventi.

Il professor Claudio De Fiores, docente di diritto costituzionale, si è concentrato invece sui partiti. La loro crisi appare permanente. Il suo inizio può essere collocato nel 1978, con il sequestro Moro e con il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti. Da lì parte la delegittimazione che si espande nel corso degli anni.
Il partito socialista è tra i primi a carpire questo malcontento. Rivedendo ad esempio le modalità di elezione del segretario ed avendo anche una svolta presidenzialistica in quel periodo. Di pari passo, l’evoluzione dei partiti è andata verso strutture verticistiche con poca partecipazione popolare. Sul piano normativo si è tradotto nel passaggio dal proporzionale al maggioritario. L’idea che viene fuori è quella che si possa fare a meno dei partiti. Questo trova appoggio in un parlamento in cui non si discute ed in cui tutto viene imposto dal governo. I partiti si limitano ad agire di rimessa rispetto all’esecutivo, perdendo la loro storica azione di iniziativa. Alcune conseguenze sono evidenti: trasformismo per scarso legame ideale e scelta oligarchica dei membri del partito. In molti sono arrivati ad ipotizzare l’estinzione dei partiti in senso stretto. La letteratura non è però univoca riguardo questa degenerazione.
Le cause non sono da ritrovarsi esclusivamente nelle leadership molto forti (già presenti nella Dc o nel Pci) oppure in partiti troppo “nazionali”. Abbiamo assistito ad una deriva aziendalistica dei partiti, sempre più legati a “slogan” e ad organizzazioni estremamente verticistiche. La testa diventa più importante della base e l’unico scopo è “competere sul mercato”. Un ulteriore problema risiede nell’identificazione con il leader. Quest’ultimo non è semplicemente una personalità di spicco, ma l’unico elemento riconoscibile e decisionale. Si è persa quindi l’organizzazione partitica e la base. I cittadini non utilizzano più il partito come strumento politico. L’abolizione del 2013 del finanziamento pubblico ai partiti mette in crisi l’assetto delle forze politiche slegate dal mercato, accentuando questa deriva. Il partito deve “entrare nel business” ed il potere economico è l’unico a poter finanziare le strutture.
Dal punto di vista storico tutto il sistema dei partiti appare in fase di transizione tra quelli di massa ed i moderni. Un passaggio ancora in corso che sta mostrando i suoi limiti e che sta portando a galla tutte le problematiche emerse in questi anni. Con il referendum questa crisi appare ancora più pesante: una richiesta disperata di legittimità da parte dei cittadini. La legge elettorale proporzionale non appare in questo senso come un passo indietro ma come un’evoluzione della democrazia. Il blocco tripolare presente al momento renderebbe questa legge anche molto efficace. Le ultime elezioni occidentali hanno dimostrato la bontà di questo sistema, che ha resistito meglio ai “populismi” rispetto al maggioritario.

Il professor Antonio Agosta, docente di scienza politica e sistemi elettorali comparati all’università Roma Tre, ha chiuso il ciclo di interventi entrando nel merito dell’impianto bocciato il 4 Dicembre. Ha sottolineato quanto l’elemento centrale della riforma di Renzi fosse il sistema elettorale e non le norme costituzionali. Riuscire ad ottenere un risultato convergente tra camera e senato è impossibile, per questo l’Italicum si è basato solo sulla prima, demandando alla riforma costituzionale l’eliminazione del “problema senato”. Con il passaggio del referendum il disegno sarebbe stato completo. Il potere teorico del presidente del consiglio sarebbe rimasto immutato, ma il governo centrale sarebbe andato ad assumere maggior potere rispetto ai governi periferici (come le regioni). Il doppio turno avrebbe però rafforzato la figura del primo ministro. Esso si utilizza solitamente per scegliere una personalità, un leader (sindaco o presidente della repubblica francese ad esempio). Sarebbe stato però troppo distorsivo dei risultati elettorali. Tra primo e secondo turno ci sarebbero state decine di deputati in ballo solo attraverso la figura del leader. Renzi voleva questo, un rafforzamento politico del premier. Anche la rottura con il bicameralismo andava in questo senso.
Con il referendum e la sentenza della Corte l’impianto viene meno. Le leggi elettorali che vi sono al momento sono però quasi complete (manca solo la preferenza al senato, prescritta dalla sentenza 1/2014 della Corte costituzionale). Il problema attuale è quello dell’armonizzazione dei sistemi elettivi delle due assemblee Esse si muovono in due direzioni di marcia differenti. Quella della camera parte dall’alto e discende in circoscrizioni regionali ed in subcircoscrizioni, dove vengono costituiti dei collegi plurinominali. Avendo perso il ballottaggio, la maggioranza non è garantita ma eventuale (con il 40% si ottengono 340 seggi, altrimenti no) e la ripartizione senza premio è puramente proporzionale (con l’esclusione dello sbarramento al 3%). Il sistema elettivo del senato fa corrispondere invece le circoscrizioni con le regioni ed il risultato nazionale è la somma dei risultati singoli.
In questi anni i progetti di legge elettorale sono stati molteplici. La Corte Costituzionale ha confermato la possibilità di scelta di tutti i sistemi elettorali, ma allo stesso tempo ha aperto un vaso di pandora. Infatti, da oggi in poi, il rischio che ogni legge venga impugnata è alto. Inoltre la sentenza appare quantomai un’azione di sostituzione della Corte rispetto al Parlamento. Sarebbe stata meglio un’azione della politica per cercare di trovare una soluzione razionale.
Le ipotesi per il futuro non sono univoche. Il primo dubbio riguarda l’armonizzazione delle due leggi elettorale: il senato diverrà simile alla camera o viceversa? Le possibilità sono estremamente varie. Ad esempio, una recente proposta dell’On. Lauricella ha ipotizzato di assegnare il premio di maggioranza in entrambe le camere nel caso in cui il partito riceva un voto proporzionale in Camera e Senato (vinca in tutte e due). Un’altra ipotesi, fatta dallo stesso Agosta, prevede una quota del 15% (tra 1 e 4 seggi a seconda delle regioni, 7 in Lombardia) di senatori assegnati su base nazionale e non locale. Un punto importante riguarda anche le coalizioni che continuano ad essere presenti (pur essendo stato eliminato il premio). Quindi bisogna ragionare profondamente sulla nuova legge elettorale, senza lavorare rapidamente per bloccare le forze politiche avverse. Si deve quindi uscire dalla concezione di un parlamento in cui il vincitore domina per la legislatura, ma bisogna orientarsi verso una democrazia partecipativa. Il processo democratico non può limitarsi alle sole elezioni, ma deve perdurare per tutto il “mandato”.

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