Contro la deflazione, il ciclo keinesiano

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-di MAURIZIO BALLISTRERI-

Parafrasando Karl Marx “uno spettro si aggira per l’Europa” ed è la deflazione. Si tratta del calo dei prezzi dovuto alla crisi della domanda e costituisce una sorta di Nemesi storica, visto che l’Europa della moneta unica e del rigore è stata costruita prioritariamente, anche contro il rischio inflattivo. E così, la Banca Centrale Europa sta mettendo in campo iniziative sostanzialmente inflattive, per tentare di invertire il trend, con un singolare rovesciamento di prospettiva economica, che fa comprendere in modo concreto, come il modello economico tedesco, imposto da Frau Merkel, stia generando impoverimento e disoccupazione. Si, perché l’abbassamento drastico dei prezzi deriva proprio da una crisi dei consumi, a sua volta originata dalla diminuzione del reddito disponibile per le famiglie e ha drammatiche ripercussioni sulla produzione di beni e servizi e, quindi, sull’occupazione e sul prelievo fiscale, determinando anche serie conseguenze sulle prestazioni del Welfare State e sulla tenuta del sistema previdenziale.

Dalla fine del 2016 l’Italia si trova ufficialmente in deflazione, come certificato dall’Istat, ma in realtà tale condizione è da tempo percepita dalla stragrande maggioranza degli italiani, alle prese con la diminuzione delle retribuzioni e la disoccupazione dilagante, soprattutto al Sud e tra i giovani.

E dire che è dalla fine del 1973, anno del primo shock petrolifero conseguente alla “Guerra del Kippur” arabo-israeliana, dalla quale si originò un vertiginoso aumento dei prezzi del petrolio, che il nostro Paese acquistava in dollari con una svantaggiata ragione di cambio con la lira, a sua volta derivante dalla decisione degli Stati Uniti, del 1971, di abbandonare il “Gold standard” (la convertibilità del dollaro in oro), che le politiche economiche hanno avuto come slogan prioritario, la “lotta all’inflazione”, individuando, peraltro, con una certa voluta miopia, negli aumenti salariali prodotti automaticamente dalla scala mobile, il meccanismo trimestrale modificato dagli accordi tra imprenditori e sindacati del 1975, la causa dell’aumento dei prezzi. In quegli anni erano quotidiane le intemerate del leader repubblicano Ugo La Malfa e di esponenti democristiani come Beniamino Andreatta, a sostegno delle politiche deflattive della Banca d’Italia guidata da Guido Carli, contro la scala mobile e gli incrementi retributivi dei contratti collettivi di lavoro, che godevano anche della disponibilità politica del Partito comunista, con esponenti di primo piano come Giorgio Amendola, che propugnavano l’esigenza dell’”austerità operaia”, quale contropartita per il compromesso storico e l’ingresso dei comunisti al governo.

Eppure proprio dalla crisi deflattiva del 1959 si originò la fase economica e sociale più feconda per gli italiani, quel “boom economico” (1959-1963), reso possibile anche dalla prospettiva del centrosinistra, l’alleanza tra Dc, socialisti e forze laiche, che consentì, tra l’altro tra il 1959 e il ‘63, aumenti delle retribuzioni intorno al 5-6 per cento e dell’occupazione, con la crescita dell’industria fordista al Nord sostenuta dall’emigrazione di massa dal nostro Mezzogiorno, e incrementi vertiginosi dei consumi, esemplificabili dal numero delle famiglie in possesso d’un frigorifero, che passarono dal 13 al 55 per cento, di televisioni, dal 12 al 49 per cento, di automobili da 1.392.525 a 3.912. 597 vetture sul finire del 1963, nel mentre si sviluppava anche la leva pubblica per investimenti, soprattutto per infrastrutture ed energia.

Insomma, l’Italia conosceva il ciclo keynesiano e il benessere e la domanda sembrerebbe d’obbligo: perché non adottarlo anche oggi? Ma la risposta, purtroppo, è negativa sino a quando saremo nella Camicia di Nesso dell’euro e dell’austerità imposta dai banchieri e dalla Germania.

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