-di MAURIZIO FANTONI MINNELLA-
1.Quando parliamo di globalizzazione difficilmente tendiamo a coniugarla con l’immagine di una città-metropoli, destinata ad esserne il riflesso fedele, a rifletterne le istanze economiche, sociali e culturali. E’ impossibile quindi, sottrarsi all’analisi che Milano, città metropolitana oggi suggerisce e, in un certo senso impone, per evidenziarne le suggestioni ma anche i limiti. Partiamo, innanzitutto, dall’eterna conflittualità con Roma Capitale, acuitasi negli ultimi tempi in seguito al venir meno da parte di quest’ultima di alcuni requisiti essenziali (ridistribuzione equa delle risorse pubbliche, qualità dei servizi, della manutenzione urbana, delle strutture pubbliche, della cultura e dei comportamenti sociali), per essere davvero la capitale di uno stato moderno e avanzato.
Le voci sono, come sempre, discordanti, ma il “brusio” che vorrebbe davvero trasferire la capitale d’Italia al nord, si fa sempre più rumoroso. Questo, prescindendo dalle vecchie prese di posizione leghiste contro “Roma ladrona”. Perfino un giornalista del settimanale L’Espresso, Raffaele Simone, conclude così un articolo dell’8 gennaio 2017: “ …Se è così, che si aspetta? Coraggio: a Milano, a Milano!”. Si tratta, a nostro avviso, di una strategia di impossessamento di un ruolo strategico per l’Italia nel delicato equilibrio politico ed economico con l’Europa delle banche e dei mercati. Ma già sappiamo come la posizione geografica di Roma rappresenti un asse d’equilibro tra l’Europa e il Mediterraneo. Tuttavia è pur vero che privare la Città Eterna dell’intero apparato burocratico dello Stato potrebbe costituire di per sé una rivoluzione le cui conseguenze sarebbero certamente devastanti per l’economia cittadina e dell’intera regione, ma forse anche salutari proprio in virtù del connubio perverso tra burocrazie corrotte e mafie dell’edilizia privata. Ma sappiamo anche che il mito della “capitale morale” Milano se l’era giocato negli anni ’90 con l’inchiesta di Mani Pulite e nei più recenti scandali intorno all’Expo 2015. Quindi, è da ritenere soprattutto demagogica e altresì dannosa la retorica della contrapposizione tra le due metropoli, esattamente quanto può essere, invece, consolatoria l’idea di una vera o presunta “Grande Bellezza” (dal film omonimo di Paolo Sorrentino), che invero sarebbe ridotta a puro slogan di comodo. Quanto ad essa, diremo che si trova al centro di un imbarazzante equivoco: come utilizzarla, infatti? Come foglia di fico per nascondere le brutture reali della Città Eterna o come sfondo neoclassicheggiante utile ad addomesticare o peggio, rimuovere quell’idea di modernità dialettica che tanto ha segnato lo sviluppo del XX° secolo nelle arti come nella filosofia e nella politica?
Qualunque sia la risposta, c’è chi davvero crede, in nome di un ripensamento del ruolo di capitale della nazione, di poter rinunciare a tutta la bellezza di Roma (quella vera, senza retorica), quasi che essa abbia finito, tristemente, per occupare soltanto lo sfondo della vita dei cittadini. Senza dubbio l’eterna conflittualità tra le due città, non può che rafforzare il tentativo in atto di autopromozione di Milano a capitale europea (con grande soddisfazione istituzionale e del mercato, inteso nell’accezione più ampia), al pari di metropoli come Parigi, Londra e Berlino.
2.Tre sono gli elementi di forza di una rinascita urbana milanese che vorrebbe estendersi ben oltre i propri confini naturali: il territorio metropolitano, i quartieri e le architetture. Innanzitutto diremo che l’idea della megalopoli padana analizzata dal geografo Eugenio Turri nel volume omonimo (edito da Marsilio nel 2000) si presenta come un immenso concentrato di realtà urbane diverse, la “megalopoli triangolare un sistema di città tra loro legate a reticolo”, sorta di macroregione con al centro la grande Milano. Un disegno che in prospettiva si rivela aperto non solo al dilagare di un’edilizia sempre più invasiva (fenomeno che gli urbanisti definiscono come zonizzazione), ma anche a un processo di “cannibalizzazione” di identità urbane e storiche di antico sedimento, già città metropolitane, come Torino e Genova, gli altri due soggetti del cosiddetto “triangolo industriale” dell’epoca del boom economico degli anni Sessanta. Non di rado, ad esempio, si sente parlare di Genova come “porto di Milano”. Inoltre, alcuni esempi di appropriazione di realtà culturali “altre” sono avvenuti anche di recente: dal festival di musica contemporanea di Torino, diventato poi MITO, con la doppia sigla Milano-Torino, alla fiera internazionale del libro torinese che viene letteralmente scippata da forze di potere economico, finanziario ed editoriale, che tuttavia è anche un esempio di difesa di un’identità consolidata, fino a produrre un bipolarismo anomalo destinato a ridursi a mera competizione commerciale.
I quartieri: non è importante dove siano o se sono brutti, senza un piano di recupero urbano (semmai questo sarà una conseguenza), lo è invece l’eccezionalità dell’intervento qualificante sebbene in parte estraneo al contesto esistente, fedeli al principio che con la cultura si può realizzare del grande business: pensiamo a via Tortona con il Museo del Design, alla Bicocca con l’insediamento universitario (Politecnico), alle ex Officine Breda trasformate da privati in spazi espositivi per l’arte contemporanea, alla Fondazione Prada e alla Fondazione Feltrinelli – la “capanna di vetro” dell’architetti Herzog & De Meuron a Porta Nuova- (inaugurata di recente), la Città delle Culture (Museo) nell’ex Ansaldo dell’arch. Chipperfield , interventi nati allo scopo di riposizionare la città della Madonnina in una prospettiva non solo europea ma globale. Oggi, infatti, la vera ossessione di rappresentanza e autocelebrazione è senza dubbio la verticalità, quel sogno newyorkese a lungo inseguito dagli architetti italici (non si dimentichi che il primo grattacielo degno di tale nome si costruì a Genova nel 1942, ad opera dell’arch. Piacentini per l’allora “nuova” piazza Dante), ma mai veramente realizzato. Soprattutto in una città orizzontale come Milano che non possiede nulla della morfologia della megalopoli americana, né un grande fiume, (ma pure ci si accontenta del Naviglio rinnovato capace perfino di far sognare alle masse un mare che non c’è), l’operazione non può non apparire sospetta ancorché pretenziosa. Un esempio su tutti : l’area di Porta Garibaldi e delle Varesine. Qui i nomi degli archistar si sprecano: Stefano Boeri, Daniel Libeskind, Michele De Lucchi etc. come una parure di brillanti che verrà immediatamente (come è accaduto), venduta a uno stato straniero.
Pazienza, si dirà a malincuore, questa è la globalizzazione e Milano la città che ne riflette con orgoglio e decisione i segni. Una skyline verticale, una prova esibita di verticalismo isterico culminante nella duplice opzione terziaria e residenziale, ossia il grattacielo “Unipol” di Cesar Pelli, con la piazza sopraelevata, il lago e i negozi, nuovi spazi, e opportunità per il consumo, oppure il connubio, oggi vincente, di residenziale e terziario nelle Torri di Zaha Hadid e Daniel Libeskind (CityLife) alla Fiera e, per contro, il soave “Bosco verde” (ne esiste, forse, uno di un altro colore?) dove l’archistar (architetto, ormai, è definizione troppo comune che non ne riflette l’enorme potenziale di successo), coniuga la natura con l’architettura, creando una nuova illusione di paesaggio naturale in mezzo a palazzi di vetro e acciaio, semplicemente allungando e moltiplicando i balconi a guisa di rami, svelando così l’allegoria della natura che irrompe nel cuore della città. Il pubblico, non più il cittadino, ormai, in larga parte, applaude ammirato, sentendosi come in una strada di Manhattan (!). E’ la concretezza dell’illusione, un ossimoro che come un fantasma, si aggira nei territori della globalizzazione.
Come affrontare, allora, il delirio di onnipotenza di una città che si vuole europea, smart, blasè, globale, efficiente e quant’altro? Comprendendone i meccanismi e le finalità oppure assistendo in qualità di spettatori, al dispiegarsi di nuovi cantieri e nuove meraviglie!… Liberi, tuttavia, di coltivare la propria perplessità e quello spirito critico necessario ad ogni impresa intellettuale che non scelga aprioristicamente di schierarsi con il più forte.