Libri. Vivà ad Auschwitz, il dramma della famiglia Nenni

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È il racconto di un dramma politico e umano, collettivo e familiare. Il racconto dell’ultimo viaggio di Vittoria Nenni: a bordo di un treno piombato; destinazione finale: Auschwitz. Non avrebbe fatto ritorno, suo padre, Pietro, il leader socialista, non l’avrebbe più riabbracciata portandosi dietro il dolore e un atroce dubbio: se avesse fatto tutto il possibile per evitarle quella fine. Vivà, così la chiamavano in famiglia, fu piegata nel campo di sterminio dagli stenti e dalla malattia, nonostante un fisico forte e un carattere determinato. Gli orrori della guerra letti attraverso una vicenda individuale, la memoria di un dramma collettivo attraverso un lutto personale. A metterla nero su bianco ha provveduto il segretario della Fondazione Nenni, Antonio Tedesco. Il libro, giunto alla sua seconda edizione e portato ora in libreria dalle Edizioni Bibliotheka, si intitola: “Vivà. La figlia di Pietro Nenni dalla Resistenza ad Auschwitz”. Il volume, rivisitato e ampiamente arricchito grazie a un ulteriore approfondimento della ricerca storica, verrà presentato domani pomeriggio, 20 dicembre, a Roma, presso la Casa della Memoria in via San Francesco di Sales 5. Ai saluti dell’Anpi provinciale che verranno portati da Massimo Crisci, seguirà un dibattito (coordinato dalla giornalista della Rai, Dania Mondini) a cui parteciperanno Giorgio Benvenuto, Pierpaolo Nenni, Maria Pisani, Enrico Ponti, Michela Ponziani e Silvana Roseto. Antonella Buccaro presenterà lo spettacolo teatrale “Vivà” mentre ad Azzurra Martino con alcune letture ricostruirà il clima emotivo in cui la vicenda si svolse. Ai lettori di questo Blog abbiamo pensato di offrire in anteprima alcuni stralci del capitolo dedicato all’arrivo del treno piombato ad Auschwitz. Il racconto intreccia il tragico contatto di Vivà con la realtà del campo di sterminio con le emozioni vissute dal padre Pietro a migliaia di chilometri di distanza, anche lui nel frattempo caricato su un convoglio diretto in Italia dopo essere stato arrestato.

IL CALVARIO DI VIVA’, L’ARRESTO DI NENNI

-di ANTONIO TEDESCO*-

Il silenzio che le accoglie all’arrivo è interrotto da spaventosi versi dei cani e dalle urla dei soldati tedeschi che impartiscono ordini incomprensibili. Nell’aria un odore nauseante; intorno scheletri di donne che camminano lentamente e tanto orrore. Quello che vedono «non si può diciamo, non osiamo dire a parole. Io non sono mai stata in grado di dire quello che ho visto e quello che mi ha colpito entrando ad Auschwitz. Mi sentivo come entrare in un universo morto». Auschwitz si presenta come un grande campo, costellato da una miriade di casette in legno, circondato da una doppia recinzione di filo spinato e da torrette di guardia. A tutt’oggi gli storici non sono riusciti a spiegare le ragioni per cui un convoglio di prigioniere politiche sia stato destinato ad Auschwitz. È certo tuttavia che le donne sono immatricolate come “politiche” e significativamente chiamate francesi. Non sono certamente le sole francesi presenti ad Auschwitz, sono però le sole ad esserlo come “politiche”…

Il gruppo di donne si avvicina lentamente al campo passando vicino l’ingresso su cui sovrasta la scritta “Arbeit macht frei” poi marciano nel terreno scivoloso e ghiacciato per alcuni chilometri. Si muovono con lentezza e in disordinate file da cinque; si sforzano di tenere il passo, stringendo al petto i loro pochi averi. A metà strada incrociano una lunga colonna di donne completamente rasate, a cui le kapò ordinano di lasciare libero il passaggio alle francesi. Vivà, Charlotte e Lulu sono impressionate dal loro aspetto: sono livide, di un colore violaceo ed emanano un odore nauseabondo. Lulu sussurra a Vivà: «Potrebbero almeno lavarsi». Ignare ancora delle proporzioni dei disagi che patiranno le francesi provano a prendere coraggio e intonano, fiere, con voce sempre più sostenuta, la Marsigliese. Le donne stremate, per quel crudele tragitto, giungono nel campo di Auschwitz II Birkenau, il cui nome in tedesco significa “Boschetto di betulle”. Vivà è sconvolta ed ha l’impressione fisica di essere entrare in una tomba; osserva intorpidita e con grande inquietudine i reticolati che cingono il campo percorsi da corrente elettrica. Con un filo di voce confessa alle compagne il proprio timore: «Non usciremo più!»…

La loro esistenza si rivela subito bestiale. Per Vivà i primi giorni sono massacranti. Sveglia alle tre e mezzo, molto prima che facesse giorno. Alcune kapò armate di frusta le buttavano giù dalle cuccette e spingevano fuori dalle baracche ad aspettare con i piedi nel gelo che arrivassero delle SS a contarle. L’appello poteva durare delle ore. Quando i numeri non tornavano, si ricominciava daccapo finché non tornavano i conti. Le file dovevano essere ordinate, i tedeschi pretendono dei quadrati precisi. L’appello è un incubo, tra le urla delle guardie e il ringhiare dei cani. Ore con i piedi nel gelo con gli indumenti spesso bagnati e sporchi. Perdere le scarpe è una sciagura, perché non ce ne sono altre. Le donne che vengono viste a piedi nudi sono spesso mandate direttamente alle camere a gas, dato che è più facile rimpiazzare una persona che un nuovo paio di scarpe. A ogni alba Charlotte si chiedeva se sarebbe sopravvissuta un nuovo giorno. Una giorno svenne, ma Vivà la afferrò, schiaffeggiandola per farle riprendere i sensi. Una mattina, quando le donne del convoglio francese erano a Birkenau da circa una settimana, l’appello prese una forma leggermente diversa. In un tono sorprendentemente pacato, un medico delle SS chiese se tra loro ci fosse qualcuna che si sentiva troppo fragile per quei lunghi appelli e preferisse evitarli. Magda, la kapò ceca del blocco 14, che alle altre prigioniere cominciava a piacere, diede una gomitata a Marie-Claude, la quale, senza interrompere la traduzione, vi aggiunse le parole: «ma è meglio non ammetterlo». Diverse donne che avevano già alzato la mano la riabbassarono; però non Mme Chaux, l’affittacamere vedova di Chalon-sur-Saone che aveva ospitato in casa propria dei membri della Resistenza. Mme Chaux era una donna molto piccola e si trovava in una delle file in fondo. Alzandosi in punta di piedi gridò: «lo. Ho sessantasette anni». Poi, sebbene Marie-Elisa Nordmann, accanto a lei, la scongiurasse di non farlo, alzò la mano anche Mme Dubois, il cui caffè a Saint-Denis era stato un luogo d’incontro e di scambio di messaggi segreti per la Resistenza. «Rimani con noi. Non sai dove ti porteranno». Ma Mme Dubois tenne comunque la mano alzata. «Komm» disse il medico delle SS, che condusse via le due donne senza che nessuno sapesse dove. Quando, tornata alle baracche, Cécile chiese a una ragazza ebrea cosa fosse accaduto ai suoi genitori e questa le rispose che erano andati “in fumo”, ancora non sapeva cosa significasse…

Vivà il 9 febbraio del 1943 ha un pensiero fisso. È indolenzita, affamata ma pensa costantemente a suo padre perché quello è il giorno del suo compleanno…

Quel giorno Pietro Nenni festeggia il suo compleanno a Vichy nella sede delle SS in stato di arresto e disperatamente pensava a Vivà: «La sera fui portato alla prigione di Moulins, una reggia nei confronti di Auschwitz”236. Il padre di Vivà era stato arrestato il giorno prima a Saint Flour mentre tornava a casa. Come ogni giorno dopo aver scorrazzato, con la sua bicicletta, alla ricerca di un po’ di latte e di uova, stava sgomberando il tavolo per la cena, quando Carmen gli annunciò che: «il brigadiere stava salendo le scale». Pietro era tentato dalla fuga ma una circostanza lo trattenne dal farlo: su di lui pesava la notizia che gli aveva comunicato telefonicamente Vany la mattina: “Vivà è stata deportata in Germania”. Ma c’è un’altra ragione che lo trattenne. Il giorno precedente Pietro aveva fatto domanda della carta d’identità e il brigadiere lo aveva rassicurato che gliela avrebbe portata lui a casa il giorno seguente. Ma il brigadiere non era solo quella sera ma accompagnato da un agente della Gestapo che lo invitò a seguirlo al consolato italiano a Vichy. Nonostante le resistenze di Pietro che fece appello al suo status di confinato politico dovette salire sull’auto scortato dalle guardie della Gestapo, sotto lo sguardo rattristato della famiglia: «[…] ho abbracciato mia moglie e Giuliana sulla strada e proprio in quel momento è arrivata Luciana che, povera figliola, si è buttata fra le mie braccia singhiozzante». Luciana era scesa in paese per comprare alcuni ingredienti per la torta che stava preparando insieme alla sorella e alla mamma per il compleanno del padre: «quando ritornai verso casa, vidi nell’oscurità due fari abbaglianti la cui luce veniva da casa nostra. Presa da un presentimento, mi misi a correre ed arrivai giusto in tempo per vedere salire sulla macchina mio padre, in mezzo a due persone, un tedesco della Gestapo e un francese collaborazionista. Mi misi a piangere, mi buttai su di lui, e lui, tranquillo e sorridente per me mi disse: “non piangere Luciana, mi portano in Italia”. Siccome mi aggrappavo a lui, il tedesco, con un sorriso beffardo, mi dette uno spintone e mi allontanò». Pietro era consapevole che il distacco dalla famiglia sarebbe durato a lungo e via per la strada gelata, lasciava dietro a se il gruppo dolente dei suoi cari: «Oh mia figliola, oh mia Carmen come triste deve esservi parsa la cucina odorante di dolci che stavate preparando per festeggiare domani il mio cinquantaduesimo compleanno».

Qualche giorno prima dell’arresto Pietro era stato avvisato da Vespignani e Trentin che la situazione stava divenendo rischiosa per lui e gli avevano suggerito di prepararsi all’espatrio in Svizzera. Pietro fece sapere ai compagni di essere pronto alla fuga: «Ho tutto pronto, carte d’identità, primi alloggi, ecc., per passare in clandestinità. Andrò in un primo tempo a Perpignano e poi nell’Alta Savoia». Prevalse però in Nenni la preoccupazione di lasciare la famiglia in balia delle rappresaglie tedesche ed ogni idea di fuga naufragò. Pietro non viene portato al Consolato italiano, come sperava, ma nella sede della Gestapo a Vichy dove arriva la sera alle dieci dopo un viaggio in auto di centoventi chilometri; nella gelida struttura passa la notte su una poltrona in compagnia di un ebreo che ha il volto tumefatto dalle torture. Il giorno seguente viene trasferito nella prigione di Moulins a circa trecento chilometri da Parigi. Due giorni dopo viene fatto salire sul treno: destinazione Parigi. Nel treno Pietro riesce a rifilare a una vicina un biglietto per la figlia Vany: «Ho scrupolo ad informarla del mio arresto perché la so terribilmente angustiata per la prigionia in Germania di sua sorella Vittoria. So che cosa può rappresentare per lei e per tutti i miei cari, il sapermi in carcere a Parigi con la minaccia che pesa sugli ostaggi e che per noi è del tutto positiva e concreta da quando hanno fucilato mio genero Henri. Ma come evitarle questo dolore?»

Giunto a Parigi è condotto al terzo braccio del carcere di Fresnes, dove un mite cappellano gli consegna un piccolo vangelo in lingua francese. Nel carcere si convince ben presto che prima o poi sarebbe stato fucilato o depor tato in qualche campo d’internamento. Il 20 febbraio Pietro Nenni, insieme ad altri detenuti, viene svegliato alle 4 del mattino «[…] eravamo immersi nel sonno quando la porta si aprì e ci fu dato ordine di prepararci e di scendere. Il pensiero di un’esecuzione di massa si presentò subito al nostro pensiero. […] Penso a mio genero Henri passato davanti al plotone d’esecuzione. Nascondo nella fodera del cappotto due righe di saluto per mia moglie e le mie figliole». Ma Pietro non venne fucilato ma trasferito a Compiègne, il centro di smistamento dei deportati verso la Germania, come accaduto a sua figlia Vivà un mese prima; sembra aver evitato la fucilazione ma non la deportazione; ma fortunatamente si è trattato di un errore dei secondini e viene riportato quasi subito in cella a Parigi, perché Pietro non deve essere né fucilato né deportato in Germania ma altro sarà il suo destino.

In mezzo a tante amarezze l’otto marzo riceve la visita delle figlie Vany e Luciana: «una giornata di gioia dopo un mese di detenzione, Eva (Vany) mi conferma che sono a disposizione del governo di Roma». Vany aveva fatto “carte false” per poter incontrare il padre. Si era recata anche al Consolato italiano che l’aiutò nell’impresa “Poiché la mamma è gravemente malata, la figlia vorrebbe vedere il padre”. In quell’occasione aveva comunicato al console la morte del cognato Henri e aveva chiesto aiuto per la sorella Vivà. Pietro si sforza di sembrare sereno e alla fine del colloquio chiede alle figlie di mandargli una scatola di crema per le scarpe e due grosse candele di cui intendeva servirsi per lucidare il pavimento della sua cella, “Progetto che poi mise in pratica, spinto dal suo amore per l’ordine e la pulizia, con grande meraviglia dei secondini”. Sperava di essere sulla via del rimpatrio, invece era ancora in mano ai tedeschi. Chiede alla figlia di recarsi al Consolato “affinché sia trasportato in Italia al più presto possibile”…

L’11 marzo del 1943 Nenni viene fatto salire sul treno ma stranamente non lo mandano in Italia: «La mia via crucis è passata per tutta una serie di prigioni. Sono partito ma non come speravo per Modane ma per la Germania. Sono arrivato a Treviri il 12 da dove sono ripartito il 17 per un lungo e penoso viaggio. La mia via crucis è passata per tutta una serie di prigioni: Lussemburgo, Metz, Karlsruhe, Bruchsal, Stutgard, Ingolstadt, Ulm, Monaco, Rosenheim»253. Pietro attraversa un pezzo di Germania ed osserva la sofferenza del popolo tedesco solcato dalle piaghe della guerra: «ciò che mi avvicina alla Germania del popolo, dei suoi lavoratori, della classe operaia che mi ostino a non confondere con gli aguzzini tedeschi». É stremato. Dal giorno dell’arresto sono stati “due mesi duri ma sopportati gagliardamente”, caratterizzati dall’ansia per la figlia Vivà. Dopo venti giorni di odissea il 31 marzo viene destinato alla legione dei condannati che dovevanoessere spediti a Dachau. Ma anche stavolta si è trattato di un errore.

Il 5 aprile in una “comoda” terza classe prende la via di Innsbruck e del Brennero. La giornata è tiepida e profumata. Un sole magnifico illumina le nevi delle Alpi Tirolesi. Dalle valli sale il profumo della primavera. I ciliegi sono in fiore. Si direbbe che: «mentre m’approssimo alla terra natale, lo splendore della primavera in fiore voglia fugare le nebbie opache di diciassette anni d’esilio».

Dopo aver attraversato mezza Europa condividendo strettissime celle con decine di prigionieri e subendo la brutalità dei soldati tedeschi, Pietro Nenni, dopo quasi diciassette anni ritrova il suo amato Paese. Con profonda emozione la sera del 5 aprile giunge al Brennero. Consegnato alla polizia fascista viene condotto, con le manette ai polsi, al carcere di Bressanone.

Nonostante non torni da uomo libero gli vien voglia di abbracciare i carabinieri. Poco dopo viene rinchiuso in una guardina piccola e fetida che gli fa pensare come «decisamente tutto sia rimasto come prima, eppure Mussolini, quando era mio compagno di cella, strepitava sull’urgenza della riforma carceraria». In fondo la prigione non è migliore che in Francia o in Germania ma ha un’aria familiare: «queste mura e queste cose sono l’Italia, sono un lembo d’Italia, e voi sapete quanto avessi la nostalgia del natio loco». Un questurino si dimostra molto gentile e prova a confortarlo: “Non si preoccupi, presto sarà in libertà”.

Dalla finestra della cella osserva i monti, dove ha passato nel 1925 con la famiglia le ultime vacanze in Italia: «rivedo le mie figliole che allora erano delle bimbette». Pietro ritorna in Italia ma non da uomo libero; ha le manette ai polsi che in coscienza sente di non meritare. Una mattina viene svegliato dal vociare di bambini che giocavano sotto la sua finestra. Alcune bimbe appena lo vedono si spaventarono: «Forse mi prendevano per un ladro di polli, o per un criminale, o per un contrabbandiere, e non sapevano, poverine, come voi sapete, che se contrabbando c’è, è del pensiero e che se i miei giorni passavano tristi dietro queste sbarre è per reato d’amore versol’umanità»…

Passano i giorni e Pietro Nenni si trova nella completa solitudine in una stretta cella, dove non ha più notizie della famiglia e pensa costantemente a sua figlia Vivà. Attraversando la Germania Pietro era riuscito a sapere che la figlia era ancora viva: «ho avuto informazioni sulla sorte della nostra Vivà ed in genere ne ho avute di buone. Ma bisognerà fare tutto il possibile per farla tornare in Italia dove la gente è migliore». Ma come fare? Durante la prigionia in Francia si era promesso che, appena arrivato in Italia, avrebbe contattato Mussolini per salvare la figlia. In quel frangente Pietro ha la tentazione, due o tre volte, di chiedere al cappellano del carcere di Bressanone di aiutarlo nell’impresa: «Ma non potevo, non riuscivo. Mi pareva di compiere un atto di viltà. Mi sono detto lo farò a Roma». Pietro ignorava completamente il fatto che anche lui era destinato alla deportazione in Germania; deportazione scongiurata grazie all’intervento del suo vecchio amico-nemico Mussolini: “Allo scopo di toglierlo dalla circolazione all’estero, ove non cessava di seminare il suo inestinguibile livore contro il regime, la polizia germanica ha testè arrestato in Francia, richiesta dei nostri speciali servizi colà operanti, il noto fuoriuscito Nenni Pietro fu Giuseppe il quale il 6 corrente è stato consegnato all’ufficio di sicurezza del Brennero ove tuttora si trova in stato di arresto. Poiché trattasi di un elemento di pericolo che non è opportuno sia lasciato in libertà, si propone per un provvedimento di polizia (confino)”. Presi gli ordini dal Duce (timbro)”.

Dalla venuta in Italia non ha più notizie della famiglia e si trova in gravi condizioni economiche; riesce a contattare Elio Canevascini a cui affida il compito di recuperare i 500 dollari depositati in banca per il mancato viaggio in Messico.

Dopo quasi tre settimane di detenzione viene fatto salire sul treno, destinazione Roma. Il viaggio si rivela breve con una sola sosta di due ore a Bologna dove Pietro Nenni viene assalito dai ricordi: «pensai alle illusioni della mia gioventù, quando la gente s’accendeva a pronosticare un avvenire brillante… invece…». Giunge nella Capitale il 24 aprile, alla vigilia di Pasqua, e viene preso in consegna dai carabinieri, nella Stazione Termini, per essere trasferito nel carcere di Regina Coeli. L’autista che trasporta i detenuti lo riconosce: “Manca dall’Italia da vent’anni, bisogna fargli fare un giro per Roma”. I militi, dopo avergli coperto i polsi ammanettati, gli concedono un “giro lungo” della Capitale prima di portarlo in carcere: «ho potuto dare uno sguardo su Piazza Esedra, sulla via Nazionale, su Piazza Venezia, sul Corso e sul Tevere». Nel carcere di Regina Coeli – Primo Braccio, Cella 70 – trascorre la Pasqua e osserva dalle sbarre una Roma “bellissima nel sole e nel tepore d’aprile”…

Con l’avvento della primavera, in Polonia la neve e il ghiaccio lasciarono lo spazio alla pioggia e i campi di lavoro diventarono degli impraticabili acquitrini che rendevano più duro il lavoro delle internate.

Nell’aprile del 1943 il numero delle sopravvissute si era drasticamente ridotto a causa della diffusione della dissenteria e soprattutto del tifo, portato ad Aschwitz da alcuni prigionieri trasferiti da una prigione di Lublino. Una ad una le francesi, che pure sono sopravvissute alla fame, al lavoro sfibrante, al freddo intenso e alle interminabili infezioni della pelle, cominciarono ad ammalarsi. Tra le prime a contrarre la malattia e a morire fu Maï, che viveva nel Revier, in condizioni leggermente migliori delle altre, in quanto assistente della dentista Danielle. Maï si svegliò con un’ulcerazione sul labbro superiore, che poi si ampliò e si allargò. Le venne subito diagnosticato il tifo; la febbre altissima le fece perdere conoscenza e qualche giorno dopo morì. Vivà rimase traumatizzata dalla morte dell’amica. Ma il colpo più drammatico e demoralizzante per le detenute fu la morte di Danielle, un po’ il leader del gruppo, colpita anche lei dal tifo. Le SS riconoscendo l’utilità della donna, ottima dentista, provarono a vaccinarla ma era troppo tardi e Danielle spirò.

Dopo due mesi e mezzo di internamento il numero delle donne francesi sopravvissute si ridusse ad ottanta. Il tifo ne aveva uccise oltre cento, le altre invece erano morte nelle camere a gas, di dissenteria, di congelamento, di polmonite o sbranate dai cani. Resistevano quelle più forti, non troppo vecchie, né troppo giovani. Vivà sembra resistere bene mentre l’amica Charlotte contrae il tifo. Ormai cieca, Charlotte viene portata da Vivà nelle paludi a lavorare. Vivà le mette la vanga in mano e le dice quando e dove scavare e l’avverte della presenza delle SS in zona. Fermarsi o cadere significherebbe la morte certa. Un giorno Charlotte, stremata, si lascia andare, non ha più voglia di lottare…

Intanto Mussolini scavalca il tribunale speciale, che avrebbe dovuto decidere sulla sorte di Nenni, e decide direttamente lui, suscitando le proteste dei fascisti più intransigenti, di mandarlo al confino a Ponza “per tutta la durata del conflitto”. Il 2 giugno parte per Gaeta per poi essere, dal 3 giugno, confinato a Ponza dove ci sono altri seicento confinati: «Ora l’isola mi si para dinanzi nella luminosità di una giornata estiva con la sua conca ridente e la bianca cornice della sua valle ad ampi terrazzi, con le brulle pendici delle sue colline e le verdi chiazze dei suoi orti, con una specie di minareto che la sovrasta e il molo che allunga un braccio timido nel mare in burrasca»…

Il 15 luglio del 1943, Pietro Nenni, dalla camerata dove è confinato da oltre un mese, apprende le notizie del susseguirsi delle sconfitte militari italiane e dello sbarco degli anglo americani in Sicilia. Si accorge, dall’umore degli abitanti dell’isola di Ponza, che nel Paese sta crescendo la sfiducia e l’opposizione verso Mussolini e il fascismo. Da un giornale apprende che a Roma si vive in un clima di paura dopo i primi bombardamenti del 19 luglio Dopo una tempestosa riunione durata dieci ore, alle 3 del mattino del 25 luglio del 1943, il Gran Consiglio del Fascismo mise in minoranza Mussolini. Il Duce nel tardo pomeriggio venne fatto arrestare dal Re Vittorio Emanuele III e il Governo fu affidato al Generale Badoglio. Alla 22.45 tutti gli italiani, in un clamore fragoroso, ascoltarono il messaggio del Re alla radio: “Attenzione! Attenzione! Sua Maestà il re ha accettato le dimissioni del cav. Benito Mussolini. La guerra continua, Badoglio assume il Governo militare del Paese, l’Italia mantiene fede alla parola data, chi tenta di turbare l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito”.

Folle esultanti si riversarono per le strade, acclamando il re e Badoglio chiedendo pace e libertà. I simboli del regime furono abbattuti, e i fascisti sembravano improvvisamente scomparsi. Temendo che le manifestazioni popolari potessero sfociare in moti rivoluzionari, il Capo di stato maggiore, il Generale Mario Roatta, ordinò all’esercito di aprire il fuoco su qualsiasi manifestazione che violasse lo stato d’assedio; le vittime furono numerose così come gli arresti.

A Ponza la notizia viene accolta con grande euforia: «Al campo l’allegria è delirante e ad essa partecipano anche gli agenti. In paese si beve a garganella. I soldati fanno gruppo al banco dei caffè vuotando bicchieri in onore del “maresciallo”. In casa Zaniboni – che trovo raggiante e commosso – affluiscono fiori da parte degli isolani che vogliono testimoniargli la loro simpatia […] Nella nuda stanza del caro Capuana la greve atmosfera della malattia (un cancro alla gola) s’è come dileguata e non c’è posto che per pensieri d’ottimismo. Al porto i pescatori motteggiano sui distintivi fascisti che rischiano di pescare l’indomani. La sede del fascio è deserta. Il giorno si spegne sul mare tranquillo in un pulviscolo d’oro e d’azzurro. È il tramonto e pare un’aurora. Io vado lungo il molo, fra strette di mano e saluti di vecchi e di nuovi amici, e mi esalta e mi commuove il pensiero di ciò che la breve notizia ‘Mussolini è caduto rappresenta per migliaia di uomini sui quali si è accanita la persecuzione fascista». Passata la sbronza sull’isola si vive un clima d’attesa per quello che sarebbe successo. Sarebbero stati presto liberati? Da Roma si attendevano disposizioni.

Il 28 luglio del 1943 tra gli isolani c’è un andirivieni di notizie. Alcuni confinati avrebbero visto sbarcare da una corvetta Mussolini in persona, circondato da uno stuolo di carabinieri. Sembrerebbe una “bufala”, generata dal clima di euforia. Nel pomeriggio arriva nel camerone di Pietro Nenni un ansimante Zaniboni che gli comunica con certezza che Mussolini si trovava a Ponza, in località Santa Maria, nella villa del RAS. Il Re e Badoglio avevano scelto Ponza come sede dell’esilio per Mussolini ed era stato imbarcato sulla corvetta Persefone.

* Dal libro di Antonio Tedesco: “Vivà. La figlia di Pietro Nenni dalla Resistenza ad Auschivitz”, Edizioni Bibliotheka, pp. 250, euro 18,00

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