Annarumma: quando cominciarono gli Anni di Piombo

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-di GIULIA CLARIZIA-

Il 19 novembre 1969 veniva ucciso a Milano il giovane poliziotto Antonio Annarumma: per molti quella è il momento iniziale degli “Anni di piombo”, una fase oscura, punteggiata da omicidi e stragi.

Le contestazioni del ’68 avevano ispirato le proteste dei lavoratori, delusi per i rinnovi contrattuali di qualche anno prima, impegnati a recuperare le ragioni dell’unità sindacale e animati dai non infondati risentimenti dei tanti meridionali, figli di una cultura prevalentemente contadina, saliti al Nord alla ricerca di lavoro e benessere per sé e i propri figli: sarebbero stati la spina dorsale di quel nuovo soggetto socio-politico che venne chiamato operaio-massa. I salari ristagnavano, i benefici del Boom Economico avevano appena sfiorato i ceti popolari, lo spostamento a sinistra del quadro politico con l’allargamento dell’area di governo al Psi e l’annuncio di una stagione di riforme avevano prodotto allo stesso tempo attese e delusioni.

Tutto si concentrò in quel 1969, dalla vertenza sull’abbattimento delle gabbie salariali alla costruzione di un sistema previdenziale degno dell’Europa occidentale e industrialmente avanzata. Il culmine e la sintesi fu l’Autunno Caldo, cioè la lunga e difficile battaglia per il rinnovo del contratto della categoria-pilota, cioè i metalmeccanici. Anni complicati, interessanti e tragici allo stesso tempo; anni in cui nacque la teoria degli “opposti estremismi”: stragi fasciste e agguati, gambizzazioni e rapimenti brigatisti; manovre oscure tendenti a ridimensionare lo “scivolamento” a sinistra semmai favorendo un contro-scivolamento” a destra (l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della Repubblica con i voti determinanti dei missini; il governo Andreotti-Malagodi che interruppe l’esperienza, ormai in stato comatoso, del centro-sinistra per una improvvisa e mal riuscita virata verso il centro-destra).

Quel mercoledì di novembre, con la trattativa sul contratto dei metalmeccanici che era giunto a un tornante decisivo, fu indetto da CGIL, CISL e UIL uno sciopero generale. Oggetto della protesta: una politica per la casa, tema particolarmente sentito tra i ceti operai e popolari. A Milano si tenne una grande manifestazione. Quel che avvenne quel giorno aveva già avuto un prologo a luglio a Torino: un momento di lotta sullo stesso tema terminato con scontri tra manifestanti e polizia con feriti, arresti e licenziamenti.

Il programma prevedeva la partecipazione di Agostino Novella, Luciano Rufino e Bruno Storti al Teatro Lirico, ma uscendo dal comizio, il corteo sindacale si incrociò con un altro corteo di studenti e militanti anarchici e dell’estrema sinistra. Si accese un violento scontro con la polizia, e fu lì che l’agente Antonio Annarumma rimase colpito da un pezzo di metallo cilindrico mentre era alla guida di un automezzo. La reazione del presidente della Repubblica dell’epoca, Giuseppe Saragat fu durissima, definendo senza mezzi termini l’accaduto un “barbaro assassinio”.

Questo tragico episodio ebbe gravi ripercussioni, tra l’altro rendendo ancora più complessa la già difficile contrattazione sindacale che si svolgeva in quei giorni. Nonostante l’esplicita condanna di quanto avvenuto a Milano, i sindacati vennero messi sotto accusa, additati come i responsabili di un evento tragico in cui erano rimasti coinvolti pur non avendo avuto un ruolo da protagonisti. Di qui, nonostante le forti pressioni, la decisione di proseguire nella battaglia contrattuale, senza sconti o arretramenti sul versante delle richieste.

Si diffuse però un clima profonda incertezza, lievitò la paura di una degenerazione dei precari equilibri politici e sociali. Lo stesso 19 novembre, Giorgio Benvenuto, Bruno Trentin e Pierre Carniti, leader di Uilm, Fiom e Fim, furono convocati dal ministro del lavoro Donat Cattin che, scosso, disse che si era ormai arrivati “all’ora X, che il golpe era alle porte e che bisognava affrettarsi a mettere il coperchio sulla pentola che bolliva se si voleva evitare l’arrivo dei colonnelli” (da Giorgio Benvenuto: “Millenovecentosessantanove, i metalmeccanici e l’Autunno Caldo”, a cura di Sandro Roazzi; Fondazione Bruno Buozzi, Roma 2009, p. 75). La risposta dei leader sindacali fu decisa. La battaglia continuava.

Continuò, evidentemente, in un clima di tensione. Ne furono testimonianza i funerali del giovane agente, nel corso dei quali oltre al commiato della grande folla di milanesi sconvolti da quella prima giornata di guerriglia urbana, apparvero anche saluti fascisti e ulteriore violenza rivolta contro Mario Capanna, leader della protesta studentesca milanese, che rischiò di essere linciato.

Poche settimane dopo, il 12 dicembre, la strage fascista di piazza Fontana inaugurò la fase della strategia della tensione, così definita dal giornale inglese The Observer.

Qualche giorno dopo, l’anarchico Pinelli, indagato per gli attentati terroristici, morì in circostanze oscure volando giù da una finestra della Questura, tragica conclusione di un fermo illegittimo (durava da tre giorni). Il questore Marcello Guida (ex direttore della colonia penale di Ventotene durante il fascismo) in una prima dichiarazione parlò di suicidio, le indagini poi si chiusero attribuendo la morte a un malore: uno dei tanti misteri insoluti della recente storia italiana. Il commissario Calabresi, che indagava sulla strage di Piazza Fontana e aveva provveduto al “fermo”, divenne il bersaglio di una campagna di stampa da parte del quotidiano “Lotta Continua”. Qualche anno dopo venne ucciso e, sulla base delle dichiarazioni di un pentito, tre dirigenti del gruppo della sinistra extraparlamentare che faceva riferimento al giornale, tra i quali il leader storico, Adriano Sofri, vennero condannati a ventidue anni di carcere quali mandanti materiali dell’agguato mortale. Tanto Sofri quanto Pietrostefani e Bompressi si sono sempre dichiarati estranei alla vicenda e, quindi, innocenti.

Il clima era di forte contrapposizione sociale anche perché nei mesi precedenti non erano mancati gli scontri di piazza in cui la polizia aveva sparato sui lavoratori. Un anno prima, il 2 dicembre, c’era stato l’eccidio di Avola: una manifestazione a sostegno del rinnovo del contratto dei braccianti terminata con due morti e quarantotto feriti tra i lavoratori; sull’asfalto verranno raccolti un paio di chili di bossoli. Giacomo Brodolini volle sottolineare la gravità di quei fatti compiendo la sua prima visita, in qualità di neo-ministro del lavoro, proprio ad Avola, un mese dopo l’uccisione dei due braccianti. E nel suo intervento pubblico dopo aver sottolineato che le condizioni della Sicilia richiedevano “soprattutto a chi ha la responsabilità delle maggiori decisioni, l’attuazione urgente di politiche in grado di creare le condizioni per un definitivo superamento di ingiustizie antiche”, aggiungeva, con chiaro riferimento (e condanna) ai metodi brutali utilizzati dalle forze di polizia che “il governo della Repubblica fondata sul lavoro può e deve fornire una diversa risposta”. Ma le chiare parole di Brodolini non impedirono il 9 aprile del 1969 la replica a Battipaglia del copione di Avola: due morti e duecento feriti.

Vittime che alimentavano un clima di forte risentimento nei confronti di un potere e di una polizia che sembrava risolvere i problemi del lavoro e dell’uscita dal sottosviluppo derubricandoli a questioni di ordine pubblico con il conseguente uso illegittimo e sproporzionato della forza. Come aveva sostenuto Donat Cattin, si correva su un esilissimo filo sospeso a mezz’aria. Ma i sindacati “scottati” dalla manifestazione milanese, chiesero e ottennero per la giornata di lotta a sostegno del rinnovo del contratto dei metalmeccanici organizzata a Roma per il 28 novembre, cioè appena nove giorni l’uccisione di Annarumma, di organizzare un proprio servizio d’ordine tenendo alla larga dalla piazza le forze di polizia. Il corteo attraversò le strade della capitale pacificamente e la tensione apparve solo su qualche striscione che richiamava il tributo di vittime pagate dal mondo del lavoro nella rivendicazione e difesa dei propri diritti.

Al di là della drammaticità degli avvenimenti del 1969 e degli anni successivi, che meriterebbero un approfondimento a parte, è bene riflettere oggi sul delicato rapporto che intercorre tra le forze dell’ordine armate e i civili, che siano manifestanti, indagati o detenuti. Rapporto critico ancora oggi, come dimostrano recenti fatti di cronaca. Chi detiene il monopolio della forza, nel mettersi al servizio della sicurezza collettiva (incombenza gravosa a cui tutti devono riconoscimento e gratitudine essendo questo un momento essenziale di difesa della democrazia) ha il delicato onere di maneggiare uno strumento pericoloso in sé, e deve usarlo nel migliore dei modi e con la “gradazione” imposta dalla pericolosità della situazione e dei soggetti coinvolti. Compito che obbliga, chi lo svolge, a liberarsi da condizionamenti (e convincimenti) politico-ideologici o da pulsioni (pregiudizi razziali, religiosi, sociali, eccetera) in contrasto con quelli che sono i principi di libertà, uguaglianza e tolleranza affermati, direttamente o indirettamente, dalla nostra Costituzione.

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