Al Bataclan torna la musica e la vita

German radio prize awards

-di MAURO MILANO-

Quella di Sting al Bataclan è stata solo molto di più di una esibizione musicale. È stata la commemorazione di un terribile ricordo e, allo stesso tempo, il segnale di una volontà collettiva di andare oltre quella carneficina senza dimenticare ma allo stesso tempo senza arretrare rispetto a quelli che sono i nostri valori fondamentali. Sembrava un venerdì come tanti altri, un 13 novembre che apriva il fine settimana. Fu un pugno nello stomaco. Un anno dopo, questo sabato che segna la riapertura del Bataclan, che segue il ritorno della nazionale francese allo Stade de France di Saint Denis, ventiquattro ore prima, è il tentativo di farsi coraggio, di riannodare i fili di migliaia, di milioni di esistenze, oltre le sanguinose farneticazioni dell’Isis. Quella alla sala per concerti fu la più terribile delle sei azioni simultanee messe in atto dai terroristi islamisti a Parigi: prima l’esplosione fuori dallo stadio, poi le sparatorie nei ristoranti e per le strade della capitale francese, infine il Bataclan. 130 morti, 368 feriti: ragazzi e ragazze, padri e madri, innocenti, che cercavano momenti di svago alle soglie del fine settimana.

Non mancarono le polemiche su falle nella sicurezza, nella polizia, nel governo, nei servizi segreti. Tanti hanno avuto da dire sul tema, anche con un certo pressappochismo, parecchia ignoranza e molta demagogia. Nei giorni successivi la paura dilagò: aumentarono i controlli di sicurezza e gli sguardi terrorizzati nella metropolitana. Poi cominciò la ricerca della normalità. Il Bataclan è stato il più violento degli attentati jihadisti, ma non fu il primo, né sarà l’ultimo. Meno di un anno prima eravamo tutti Charlie, tutti con il dissacrante giornale che non si è risparmiato una vignetta pure sui nostri terremoti e i nostri terremotati. Si è cercato per quattro mesi uno degli autori della strage di Parigi, Salah Abdeslam, dai Pirenei all’Asia centrale, per poi trovarlo ben nascosto dalle parti di casa sua, a Molenbeek a due passi dalla Grand Place di Bruxelles, terminata quattro mesi dopo, il 22 marzo nel mirino dei “fedeli” di Al Baghdadi. L’aeroporto e la metropolitana: 3 kamikaze, 35 morti 340 feriti. Eppure c’era massima allerta. Nuova ondata di paura e di polemiche. Altri quattro mesi e un Tir a Nizza piombava sulla gente assiepata lungo il mare per assistere ai giochi pirotecnici e partecipare ai festeggiamenti del 14 luglio. Altri ottantasei vittime, più di trecento feriti ( tra i quali sei italiani). La polizia conosceva l’attentatore, l’aveva fermato poche ore prima. Neanche due settimana e il macabro copione del terrorismo islamico veniva messo in scena a Saint-Étienne-du-Rouvray in Normandia: un anziano prete, Padre Jacques, veniva sgozzato sull’altare. In un anno e mezzo la Francia è stata dilaniata. Ma anche la Germania a luglio è stata colpita con un centro commerciale di Monaco di Baviera trasformato in una sorta di “poligono di tiro” (ma con bersagli umani) da un profugo carico di frustrazioni e risentimenti. E poi gli Stati Uniti: San Bernardino, Orlando.

Si sono dette e si sono scritte tante cose. Guerra di religione, nuova guerra mondiale, guerra ibrida, attacco al cuore dell’Europa, scontro di civiltà, l’Occidente sconvolto dal jihad. Il panico ha cominciato a correre sui social: gente sconvolta, terrorizzata, chi dice “basta”. E chi aggiungeva particolari sul tragico evento, anche falsi, e i media li diffondevano come notizie, senza verificarne l’attendibilità.

Attacco all’Occidente, si è detto. Ma negli attentati islamisti muoiono anche i musulmani. Anzi, muoiono soprattutto musulmani. Ci sono più attentati nei paesi a maggioranza islamica. Un giorno prima del Bataclan il Califfato aveva colpito Beirut: 43 morti e 239 feriti, una settimana dopo Bamako, Mali. Istanbul ha subìto tre attentati dell’Isis in cinque mesi. L’Indonesia, il paese con più musulmani al mondo, è stata colpita il 14 gennaio. Il più cruento in assoluto è avvenuto con l’esplosione di un camion-frigorifero a Baghdad, a luglio: più di 500 vittime. E a Damasco o a Kabul morti e attentati non si contano più.

Venivano letti come la vendetta per un danno subito dall’Isis, o Is, o Isil, o Daesh. In Iraq, in Siria, in Libia. Il Califfato autoproclamato sta perdendo pezzi di territorio. A ovest dell’Is la coalizione a guida statunitense e l’esercito iracheno hanno ripreso terreno: a gennaio la città di Ramadi, in estate Fallujah. A est, nel più complesso puzzle siriano, anche. Il governo di Bashar al-Assad è stato rinvigorito dall’aiuto dello storico alleato russo. La città simbolo, Palmira, è libera da aprile, hanno fatto anche un concerto tra le rovine. Il governo siriano si trova a combattere anche gli altri ribelli (cioè gli oppositori di Assad), vicini agli USA e ai paesi del Golfo, moderati e non. Ad Aleppo i bombardardamenti coinvolgono civili e bambini. Lo fa anche l’Arabia Saudita, filo-americana e filo-occidentale, in Yemen, magari con un aereo italiano. Ma in Siria ci sono altri interessi, c’è la Turchia che – paese confinante – è intervenuta con l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, ci sono i curdi del Rojava.

È notizia di queste ultime settimane l’inizio dell’attacco alle due capitali principali del Califfato: Raqqa in Siria e Mosul in Iraq. Sono città grandi, milioni di abitanti, si prevede una operazione che durerà a lungo. Dicono che la propaganda del Califfato si sia attenuata, al-Baghdadi non si mostra in pubblico da mesi. Ma lo Stato Islamico continua ad esistere, con le sue idee, i suoi miliziani, i foreign fighters in Europa. Si punta a sconfiggerlo, si immagina un nuovo ordine in Medio Oriente. Ma intanto si potrebbe andare verso un nuovo ordine mondiale. A un anno dal Bataclan c’è anche un nuovo Presidente degli Stati Uniti, e non è chi ci si aspettava.

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