Budapest ’56, così cambiò la sinistra e il sindacato

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-di ANTONIO MAGLIE-

“Caro Compagno, tra tanti consensi che ricevo qualche dissenso ci vuole. Ed è naturale che ai dissenzienti si debba rispondere… Quanto alla questione di fondo mi pare che tu la ponga in una maniera del tutto errata. Cosa significa, per esempio, dire che l’ “Unione sovietica non è intervenuta a tutela dei suoi interessi?” La verità è che è intervenuta soltanto a tutela dei suoi interessi di potenza, interessi che tra l’altro non sarebbero stati compromessi dalla neutralità ungherese (vedi la Finlandia)”. Così Pietro Nenni, leader del Partito Socialista, rispondeva il 7 novembre del 1956 al segretario della Camera del Lavoro di Bologna, Ermanno Tondi. Solo pochi giorni prima, il 4 alle 4 del mattino, le truppe dell’Armata Rossa (quindici divisioni e seimila carri armati) avevano invaso il paese e occupato le strade di Budapest per reprimere la rivolta cominciata una decina di giorni prima, il 23 ottobre, quando con una manifestazione i lavoratori ungheresi avevano deciso di esprimere la loro solidarietà ai polacchi che contro il veto sovietico avevano trascinato Gomulka al vertice del partito.

Dalla manifestazione alla rivolta il passo fu breve estendendosi, nel giro di 24 ore a tutto il paese. Le piazza si colorarono di sangue. Il 25 ottobre nella capitale la polizia cominciò a sparare dalle finestre del ministero dell’agricoltura: un centinaio di morti. Il 26 la feroce repressione poliziesca lasciò sulla strada altri centoventi corpi senza vita a Mosonmagyarovar. Su sollecitazione del governo e del partito ungherese, Mosca “mandò in aiuto” le sue truppe per ritirarle il 30 ottobre dando l’impressione che la situazione potesse tornare alla normalità. Invece precipitò definitivamente quarantotto ore dopo quando Imre Nagy, nominato primo ministro il 24 ottobre proprio per placare i rivoltosi, proclamò la neutralità dell’Ungheria e chiese di uscire dal Patto di Varsavia. L’Unione Sovietica respinse la richiesta, lo fece dimettere, piazzò al suo posto Janos Kadar dando al contempo attuazione ai piani di invasione per reprimere quella che venne definita una “insurrezione controrivoluzionaria”. Nagy pagò con la vita: il 17 giugno del 1958 il ministero della giustizia ungherese annunciò che l’ex primo ministro era stato condannato a morte e giustiziato il giorno prima.

Oggi l’Ungheria è nell’Unione Europea ed è guidata da Viktor Orbàn, un esponente politico che certo non interpreta nella maniera più appropriata i principi che dovrebbero essere alla base di uno stato democratico, semmai dando con le sue scelte più efficace sfogo alle pulsioni nazionalistiche, di destra che in quel Paese hanno prodotto anche tragici esperimenti politici (non ultimo, il partito delle Croci Frecciate, nazista e antisemita, che guidò l’Ungheria con metodi sanguinari per un paio di mesi poco prima della della fine della guerra). Sessant’anni fa, però, quella ungherese fu la prima trincea in cui si combatté la dura e complessa battaglia per l’affermazione dell’inscindibilità dei concetti di democrazia e socialismo. Le vicende di quel paese non lontano ma diviso dall’Europa Occidentale dalla Cortina di Ferro condizionarono in maniera determinante gli equilibri politici dell’Italia. In particolare influenzarono in misura decisiva le sorti della sinistra che finì per dividersi irrimediabilmente per tutta la Prima Repubblica.

Da un lato i comunisti, preoccupati dal fatto che quelle vicende potessero bloccare il processo di rinnovamento avviato con il XX congresso del Pcus finendo per indebolire la leadership che stava emergendo e consolidando il suo potere. Furono quelle preoccupazioni, secondo alcuni storici, a indurre il Pci a un atteggiamento meno conciliante verso le forme di dissenso, a bloccare un dibattito che solo sino a qualche mese prima era stato vivace e che all’improvviso venne messo “fuori legge” nel nome dell’ortodossia. Non capirono che i tempi della storia erano più veloci dei tempi della politica comunista. Un episodio aiuta a capire. Tra i critici nei confronti della posizione assunta da Botteghe Oscure vi era un nutrito gruppo di intellettuali. Del gruppo faceva parte Italo Calvino che incrociò in casa di Luciano Barca uno dei più fieri sostenitori della chiusura nei confronti dei dissidenti, Giorgio Amendola che solo qualche giorno prima, facendo irruzione nell’ufficio dove Giancarlo Pajetta stava provando a “far ragionare” Antonio Giolitti e Aldo Natoli, esplose in una significativa invettiva: “Traditori! Avete sbagliato partito, dovevate iscrivervi al partito liberale”.

Quella sera, a casa di Barca, il leader della destra comunista, preferì toni più ecumenici e a Calvino spiegò: “Guarda la Chiesa. Se ha resistito così a lungo è perché ha saputo graduare la propria evoluzione. Ha accolto i cambiamenti, ma poco per volta”. Calvino non aveva ancora deciso cosa fare con la sua tessera. Quella sera capì che aveva davanti una sola scelta, rinunciarvi: “Il riferimento ai tempi millenari della Chiesa, in quel momento, accrebbe il mio scoraggiamento. Sentii cadermi le braccia”.

Dall’altro lato, invece, c’erano i socialisti che non avevano alcuna intenzione di sacrificare la libertà sull’altare del socialismo. Lo spiegò Riccardo Lombardi nel corso di un discorso alla Camera dei deputati otto giorni prima dell’invasione sovietica: “La nostra aperta solidarietà coi lavoratori ungheresi i quali, qualunque siano i tentativi, ovvii del resto, di forze estranee per inserirsi e deformare e sfruttare il movimento, non sono sorti in armi per richiamare (come forse da certe parti si pensa, o si spera, o si augura) il regime di Horthy o dei colonnelli, ma per garantire la via del socialismo, la via della libertà e della democrazia”. Concetti che a sua volta Pietro Nenni riproponeva il 19 novembre rispondendo alle perplessità e alle critiche dei “Compagni di Castellammare”: È certo che nel movimento del 23 ottobre si erano mescolate anche della canaglie fasciste. Sovente all’acqua si mescola la sporca schiuma. Ma gli operai ungheresi avrebbero messo a posto i fascisti come stanno mettendo a posto i loro capi corrotti. La lezione che voi dovete trarre dai tragici fatti di Ungheria è che il socialismo non si fa con la polizia politica, non si fa coi carri armati, ma dando la libertà ai lavoratori. Per questo noi lottiamo e i compagni comunisti non tarderanno molto a riconoscere che abbiamo ragione come tanti di loro hanno già detto”.

L’ottimismo di Nenni in realtà è stato smentito dai fatti. Solo trent’anni dopo quelle vicende, un segretario del Pci, Alessandro Natta in una intervista a Ugo Baduel pubblicata su “l’Unità” domenica 12 ottobre 1986, con la necessaria cautela (cioè smentendo Togliatti senza disconoscerlo) fece una articolata autocritica: “In Ungheria certamente erano in campo sicuri rivoluzionari (veniva meno la teoria della controrivoluzione su cui si era basato l’appoggio all’invasione in quei terribili giorni del 1956)… Ma non si può nascondere che c’erano autentici controrivoluzionari che guardavano a Horthy. Era l’inizio di una guerra civile”. Provvide anche a riabilitare coloro che avevano dissentito dalla posizione ufficiale e, conseguentemente, abbandonato il Pci per approdare al Psi: “Giolitti e altri compagni avevano certamente motivi validi nella loro critica. Non ritenevo allora e non ritengo adesso che questo dovesse necessariamente portarli fuori dal partito”. E cinquant’anni dopo, in occasione della realizzazione da parte della Fondazione Nenni di un libro sui fatti ungheresi, Giorgio Napolitano fece pervenire a sua volta questa breve lettera: “La mia riflessione autocritica sulle posizioni prese dal Pci, e da me condivise, nel 1956 e il pubblico riconoscimento da parte mia ad Antonio Giolitti “di avere avuto ragione”, valgono anche come pieno e doloroso riconoscimento della validità dei giudizi e della scelta di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel momento cruciale”.

Perché mentre il Pci si arroccava sulle sue posizioni fomentando lo scontento tra gli intellettuali ma, va detto, consolidando il consenso tra i ceti più popolari, Lombardi alla Camera spiegava: “Noi condanniamo con eguale fermezza l’intervento delle truppe sovietiche, intervento di cui non ci interessa la validità giuridica o la legittimità derivante dall’appello fatto ad esso dal governo ungherese: intervento inammissibile sempre, che noi abbiamo sempre condannato in altre occasioni e che condanniamo in questa occasione, anche perché un intervento di questa natura è capace o è suscettibile, e mi auguro che così non avvenga, di deformare quello che è il corso naturale che noi tutti auguriamo agli ungheresi: lo svolgimento libero, anche se purtroppo sanguinoso, delle istituzioni socialiste in modo che questa tragedia sia promotrice non soltanto di odi, di rimpianti e di compianti, ma suscitatrice di un nuovo corso, di un nuovo regime di libertà e di democrazia per il popolo ungherese, per tutti i popoli che hanno faticosamente affrontato la loro ricostruzione dopo la lunga oppressione e la guerra”. La conclusione non ammetteva fraintendimenti: “Il socialismo non può consistere soltanto nella socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche nella socializzazione dell’amministrazione dello Stato: cioè non vi è socialismo senza democrazia e libertà”.

Il Psi cominciava la sua navigazione autonoma; il patto di unità di azione con il Pci scolorava in un più anodino patto di consultazione per sfociare in una conflittualità punteggiata da momenti di collaborazione (nel sindacato, nelle amministrazioni locali, eccetera). Per Nenni non fu una scelta indolore. Come dimostrano molte delle lettere di quei giorni contenute nel nostro archivio, spezzoni del partito (quelli che vennero definiti i “carristi”) lo seguivano in maniera riluttante. Quella riluttanza avvelenò l’unità del Psi fino alla scissione che, come ha avuto modo di sottolineare lo stesso Nenni, finì per indebolire il partito in una fase cruciale dalla sua vita, quella del confronto con la Dc sulla nascita del centro-sinistra, con i circoli reazionari intenzionati ad annacquare le spinte innovatrici di quella formula che riuscirono ad avere vita un po’ più facile. Il ’56 fu anno di svolta. Prima l’incontro a Pralognan tra Nenni e Giuseppe Saragat, poi i fatti di Budapest che accelerando il divorzio tra Pci e Psi favorirono i tentativi per superare la crisi del centrismo già in atto con uno spostamento un po’ più a sinistra degli equilibri.

Quei fatti incisero profondamente nel sindacato consentendo alla Uil di cominciare a definire meglio la sua identità di organizzazione socialista e laica. Sino a quel momento Italo Viglianesi aveva guidato la confederazione in una strada decisamente stretta: da un lato la Cgil socialcomunista, dall’altro la Cisl che ancora conteneva elementi socialdemocratici. D’altro canto, la nascita stessa della Uil non era stata accolta in maniera unanimemente favorevole dal Psdi. Saragat, ad esempio, era piuttosto tiepido. Dall’America, poi, si lavorava alacremente per una confluenza della Uil nella Cisl per dare così vita a un “sindacato democratico” perfettamente in linea con le esigenze imposte dalla Guerra Fredda. Le cose stavano, però, cambiando. Gli Usa, come è stato sottolineato da alcuni storici, seguirono quasi con distacco i fatti ungheresi preferendo concentrarsi su altre realtà geo-politiche. La posizione socialista consentì a Viglianesi di dimostrare che non era certo dalla sua organizzazione che potevano venire contestazioni per la scelta di campo occidentale attuata dall’Italia (paese di frontiera in quel mondo diviso in blocchi). Da lì trasse vigore la scelta strategica favorevole a un sindacato socialista che accompagnerà la vita della Confederazione sino alla fine degli anni Sessanta quando sotto la spinta dei metalmeccanici guidati da Giorgio Benvenuto si affermerà la scelta unitaria. Inoltre, la fuoriuscita di alcuni dirigenti e militanti dalla Cgil consentiva di superare il divieto imposto ai socialisti di iscrizione a sindacati diversi da quello di Corso d’Italia.

In quel contesto di grandissima sofferenza e conformismo spiccò la figura di Giuseppe Di Vittorio che riuscì a guidare la grande imbarcazione sindacale socialcomunista nei mari tempestosi di una divisione politica che avrebbe potuto avere conseguenze forse irrecuperabili. Sopportò un “processo”, fece persino qualche passo indietro (“una sorta di mezza autocritica poco convinta”, la definì Luciano Lama) ma con quel documento in controtendenza rispetto alle posizioni del partito mise in mora nei fatti il concetto di “cinghia di trasmissione” che nel successivo congresso comunista sarebbe stato abolito, ma solo formalmente perché continuò a valere il principio del primato del partito sul sindacato. Luciano Lama che qualche anno prima aveva subito lo stesso processo di “martirizzazione” di Di Vittorio (scortato dall’ufficio stampa, venne sostanzialmente obbligato nel corso di una festa dell’Unità, a firmare a favore di un referendum, quello sulla scala mobile, che non voleva e considerava un errore), in un articolo apparso su “l’Unità” il 21 ottobre 1986, raccontò che qualche giorno dopo il famoso documento e la riunione della direzione comunista in cui il leader era stato pesantemente messo sotto accusa, Di Vittorio lo invitò a casa sua per un frugale pasto a base di formaggio e vino pugliese. Lama all’epoca guidava i chimici e rimase sorpreso per quell’invito visto che non rientrava certo fra le consuetudini. Il segretario generale gli parlò di quanto era accaduto e amaramente gli disse: “Ci sono momenti nei quali niente può far soffrire un comunista come il suo partito”.

Lo avevano fatto soffrire per davvero. Per capirlo basta rileggere il verbale di quella riunione. Partendo dalla fine. Dalla replica di Togliatti; “La risposta di Di Vittorio non è stata quella necessaria”; e dalle decisioni: “Deplorare il commento di Di Vittorio non concordato con la direzione del partito, dopo l’errata posizione risultante dal comunicato della Cgil”. Decisamente indigesto, quel comunicato: “La Segreteria confederale ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica ed economica, che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari. Il progresso sociale e la costruzione di una società nella quale il lavoro sia liberato dallo sfruttamento capitalistico sono possibili soltanto col consenso e la partecipazione attiva della classe operaia e delle masse popolari, garanzia di una più ampia affermazione dei diritti di libertà, di democrazia e di indipendenza nazionale”.

Quel comunicato divenne ancora più indigesto nel momento in cui la fronda degli intellettuali (con Calvino, andarono via anche Carlo Muscetta, Delio Cantimori, Renzo De Felice, Pietro Melograni, Luciano Cafagna, Mario Pirani redattore della redazione romana de “l’Unità”: avevano firmato il “Manifesto dei 101” che conteneva un’aspra critica alla posizione ufficiale del Pci) approvò un ordine del giorno in cui chiedeva che la direzione del partito facesse proprie “le posizioni espresse nel documento pubblicato dalla segreteria della Confederazione generale del lavoro”.

Il documento era stato elaborato e steso materialmente da Giacomo Brodolini. I socialisti della Cgil lo avrebbero reso pubblico come posizione della componente se Di Vittorio avesse negato la propria adesione. Ma, come ha raccontato Piero Boni, “se il testo della risoluzione fu steso dai socialisti, Di Vittorio non solo non fece obiezioni ma manifestò convinta adesione”. Agli occhi di molti di quegli intellettuali Di Vittorio appariva il Gomulka italiano. Certo, Togliatti prese la cosa in parola e lo stesso giorno della Direzione, inviò a Mosca un messaggio che aveva tutto il carattere di una aperta delazione: “I gruppi che accusano la direzione del nostro partito di non aver preso posizione in difesa dell’insurrezione di Budapest e che affermano che l’insurrezione era pienamente da appoggiare e che era giusta e motivata, esigono che l’intera direzione sia sostituita e ritengono che Di Vittorio dovrebbe diventare il nuovo leader del partito”. Ovviamente non c’erano “gruppi” che sostenevano questa tesi. Così come del tutto infondata è l’ affermazione di Giorgio Amendola contenuta nel libro-intervista di Renato Nicolai del 1978: “Anche Di Vittorio che aveva approvato un primo documento della Cgil di deplorazione dei fatti di Ungheria, in sede di partito fu solidale con Togliatti e precisò questa sua posizione con una dichiarazione”. Cioè l’autocritica poco convinta pronunciata in un discorso pubblico a Livorno a cui fece riferimento anche Lama nel suo racconto.

Il fatto è che in quella Direzione, a parte pochissime eccezioni, tutti trattarono Di Vittorio come San Sebastiano. Palmiro Togliatti: “La dichiarazione non è stata concordata con noi e aumenta il disorientamento nel partito… Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia”. Giovanni Roveda: “La posizione della Cgil ha avvalorato l’opinione che l’insurrezione era giusta. Vi siete lasciati impressionare senza conoscere bene i fatti”. Giorgio Amendola: “Non cedere al progrom antisovietico mentre nella Cgil su questo si è ceduto… Il compagno Di Vittorio… non si è chiesto se certi suoi atteggiamenti si prestavano alle contrapposizioni”. Emilio Sereni: “Con la sua dichiarazione Di Vittorio si è contrapposto alla direzione”; Gian Carlo Pajetta: “È noto in tutto il quadro confederale che Di Vittorio dà poca importanza al parere della Direzione”; Togliatti: “Di Vittorio… ci ha raccontato come sono andate le cose coi socialisti. Il primo errore della segreteria confederale è stato di non aver insistito per ottenere che nel documento ci fosse una formulazione diversa. Di Vittorio non lo ha tentato perché nell’apparato confederale e in lui stesso era subentrata la convinzione che era necessario dire quello che si è detto… Di Vittorio non ha avuto fiducia sulla posizione del partito e gli ha sostituito un proprio giudizio sentimentale e sommario”.

Il leader sindacale barcamenandosi difendese il documento: “Credo che abbiamo fatto bene nell’interesse dell’unità. Ho poi letto una dichiarazione ai giornalisti per far capire che la risoluzione non ci era stata imposta dai socialisti come si va dicendo in giro da qualche tempo… Non credo affatto che bisogna glorificare l’insurrezione. Ho detto solo che non tutti i rivoltosi sono nemici del socialismo…” Nel 2006 nel corso di un convegno organizzato dalla Cgil su Di Vittorio e i fatti d’Ungheria, l’ex segretario della Confederazione Bruno Trentin sottolineò “l’attacco a Di Vittorio e l’aggressione faziosa in particolare di Giorgio Amdendola, Gian Carlo Pajetta, Paolo Bufalini e Mario Alicata. Solo Luigi Longo si distinse per la sua volontà di dialogo”. E a proposito del famoso messaggio spedito a Mosca i cui contenuti furono presenti anche nella direzione (con Arrigo Boldrini che si dichiarava preoccupato per il fatto che “attorno al compagno Di Vittorio vi siano gruppi che cercano di contrapporre la Cgil al partito” e Mario Montagnana che gli replicava “non mi sono mai accorto di questi gruppi”), Trentin diceva: “Questa denuncia di carattere delatorio (nessun gruppo come Togliatti sapeva bene, aveva avanzato la candidatura di Di Vittorio alla segreteria del Pci, né Di Vittorio l’avrebbe mai avallata), tendeva evidentemente a delegittimare il leader della Cgil tra i sovietici e, attraverso il loro intervento, nella Fsm (federazione sindacale mondiale di stretta osservanza filo-Urss, n.d.r.)”. Certo si può accusare il leader pugliese di non aver portato quella battaglia a conseguenze più estreme, che abbia considerato sufficiente la messa in discussione formale del concetto di cinghia di trasmissione. Eppure, quella sua scelta anche in funzione dell’unità della Cgil in una fase storica oggettivamente difficile resta un grande contributo (anche a futura memoria) e una grande lezione di autonomia sindacale.

antoniomaglie

One thought on “Budapest ’56, così cambiò la sinistra e il sindacato

  1. …interessante e documentato articolo che ho postato sulla mia pagina FB.

    Mi piace aggiungere un personale commento, testimonianza di quanto mi ha più volte raccontato Umberto Marzocchi, dirigente sindacale della segreteria della CGIL di Savona e membro del Comitato Centrale x la minoranza anarchica organizzata nei CDS (Comitati di Difesa Sindacale), insieme a Lorenzo Parodi operaio dell’Ansaldo di Sampierdarena (GE) e Pietro Bianconi portuale di Livorno.

    Sull’episodio che ha portato Giuseppe Di Vittorio a schierarsi contro l’invasione russa in Ungheria, molti sostengono che ciò dimostrerebbe una indipendenza di fatto della CGIL, compresa la sua componente comunista dalla linea del PCI. In realtà sui fatti d’Ungheria questa autonomia dei comunisti della CGIL non c’è mai stata.

    …La posizione di Giuseppe Di Vittorio, autonoma dal PCI, la si deve in realtà a una sua presa di coscienza, coerente con la sua vecchia militanza sindacalista rivoluzionaria nella Camera del Lavoro di Cerignola aderente all’USI, prima della sua adesione al PCd’I durante il fascismo.

    Secondo quanto mi raccontava Umberto Marzocchi, figura storica e prestigiosa dell’anarchismo italiano, si deve a ciò lo schierarsi di Giuseppe Di Vittorio in solidarietà con gli operai insorti, più che a un’effettiva indipendenza della componente comunista della CGIL dal PCI.

    Infatti l’espediente trovato da Di Vittorio nella difficile riunione del Comitato Centrale fu quello di affidare la stesura del documento che la segreteria nazionale avrebbe reso pubblica sui fatti dell’Ungheria, a tre dirigenti del CC di tre diverse componenti politiche: Brodolini x i socialisti, Scheda o Lama (non ricordo perfettamente) x i comunisti e Marzocchi x gli anarchici. La corrente comunista, maggioranza nella CGIL, fu così messa in minoranza in commissione. Passò, quindi, la posizione espressa al CC da Marzocchi e dai socialisti, che ebbe l’appoggio convinto di Giuseppe Di Vittorio.

    Per questa ragione Di Vittorio fu processato all’interno del PCI. Se non fosse stato lasciato solo dagli altri comunisti della CGIL ciò non sarebbe successo… o, quantomeno, l’esito sarebbe stato ben diverso. Per questo la posizione di Giorgio Napolitano e’ giunta tardiva ben mezzo secolo dopo e, come tale, suona ipocrita!

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