-di ANTONIO MAGLIE-
Mentre la politica italiana era impegnata (soprattutto video-impegnata) a conquistare frammenti di consensi in vista del referendum sulla riforma costituzionale, il terremoto finiva di radere al suolo un bel pezzo di Italia facendo precipitare nel dramma e nell’incertezza del vivere quotidiano un crescente numero di connazionali.
Balzava evidente agli occhi la sproporzione tra la tragedia vera (la gente che ha perduto tutto: affetti, casa, lavoro, stabilità esistenziale) e quella fasulla di un appuntamento (la riforma costituzionale) che non era una priorità prima e lo è ancora meno adesso a macerie orrendamente distribuite per centinaia di chilometri quadrati. Il tutto amplificato da certe apparizioni televisive (emblematica la performance di una parlamentare nella trasmissione Tagadà, La7, di lunedì pomeriggio) in cui l’interesse nazionale veniva piegato in maniera anche piuttosto sguaiata all’interesse specifico, di parte, in cui la bottega prevaleva sull’insieme dell’azienda Italia in una dimostrazione di incapacità di buona parte di questo ceto politico a farsi realmente classe dirigente (nel senso di un insieme di persone impegnate nella cura del bene comune).
Non sorprende il fatto che all’improvviso sia emersa la proposta di rinviare sine die l’appuntamento elettorale, una forma in qualche maniera ipocrita di aggirare l’inconsistenza e il surrealismo di un dibattito che non ha alcun ancoraggio con i problemi veri che il terremoto ci ha sbattuto in faccia con una violenza inusuale in questi ultimi due mesi. È riemersa la vecchia Italia della cultura emergenziale che diceva di mettersi al servizio del “problema dei problemi” per cancellare i problemi rimanenti; è la vecchia Italia incapace di coniugare l’ordinaria amministrazione del vivere in comunità, con la straordinaria amministrazione imposta dall’imprevisto e dall’imprevedibile, un esercizio che in un Paese normale per le classi dirigenti dovrebbe essere pane quotidiano.
Ma al di là dei dibattiti senza senso e molto spesso senza rispetto per chi soffre realmente, il terremoto ci ha fatto capire quanto il “pensiero” della politica sia lontano dai “pensieri” reali. Non era la Costituzione che ci stava franando sotto i piedi, era il nostro territorio, usato, abusato, svilito e offeso, perennemente fonte di allarmi che altrove riescono a combattere e, a volte, sconfiggere e che al contrario qui, nel Belpaese, si rivolta sempre e comunque contro di noi. Una parabola che conferma quel che trent’anni fa diceva Norberto Bobbio: potremo anche cambiare la Costituzione, ma i mali che affliggono il governo della cosa pubblica resteranno perché la loro radice non è nella carta fondamentale ma in atavici vizi culturali e crescenti dissennatezze quotidiane.
In Europa hanno preso il nostro documento di economia e finanza e, con la cecità burocratica di quella istituzione ormai più contro i cittadini che a favore dei cittadini, ne hanno fatto strame. Il nostro governo ha avviato una battaglia un po’ stracciona per qualche decimale di flessibilità in più per farsi poi dire che quella flessibilità la usavano non per fronteggiare l’emergenza ma per compiere altre operazioni. Lo sciame sismico di questi mesi ci racconta la storia antica di un paese che dal terremoto dell’Irpinia ad oggi ha saputo migliorare solo su un fronte: quello dei soccorsi.
Percorrendo l’Italia troviamo ancora le “testimonianze” di antiche tragedie, dall’Aquila al Belice sino, addirittura, all’antichissimo terremoto di Messina. Siamo il paese a più alto rischio sismico d’Europa; i terremoti qui da noi fanno parte della normalità come il solleone ad agosto e la neve a gennaio. Invece, tutte le scosse che ci hanno afflitto ci hanno colto di sorpresa, non nel senso che gli eventi possano essere previsti come i nubifragi, ma nel senso di una vulnerabilità delle nostre cose e delle nostre case accettata con rassegnato fatalismo.
Altrove, in Giappone, ad esempio, ci convivono e se non arriva il maremoto (come in occasione di Fukushima) le case restano in piedi.
La storia che ci raccontano le cronache attraverso il linguaggio della scala Richter e di quella Mercalli interpellano le responsabilità di tutti i governi, senza distinzione di colore, dalla notte dei tempi sino ai giorni nostri. Mai che un governo si sia posto il problema di una grande manutenzione del paese, del suo adeguamento alle necessità che il terremoto pone dal punto di vista della sicurezza e della sopravvivenza delle persone.
Ci vengono spiegate le magnifiche sorti e progressive che ci attendono dietro l’angolo dell’approvazione della riforma ma nel frattempo combattiamo con le ruspe per tirar giù gli ultimi diroccati campanili prima che cadano sulla testa di qualche malcapitato. Avremmo potuto e dovuto dire chiaro e tondo all’Unione Europea che del patto di stabilità non sappiamo cosa farcene perché dopo aver pianto e seppellito i nostri morti avremmo avviato un piano di investimento pluriennale per garantire ai vivi la possibilità di festeggiare i propri compleanni per un tempo lungo, semmai sino e anche oltre i cento anni. Piaccia o non piaccia a Bruxelles e a Francoforte, alla Merkel e a Schaeuble, a Junker e Moscovici e a tutti i loro reggicoda impegnati a leggere come topi di biblioteca carte polverose e non i drammi delle persone (forse perché al caldo dei loro uffici non li vivono).
Pensiamo alle briciole pezzenti che verranno semmai distribuite in piccole mance, ma non pensiamo che dobbiamo dare un futuro non solo a chi oggi si ritrova senza futuro per le scosse di questi ultimi due mesi ma anche a coloro che nei prossimi anni potrebbero trovarsi nelle medesime condizioni se non ci mettiamo seriamente a lavorare sulla sicurezza del nostro territorio e delle case che abbiamo fatto spuntare come funghi su di esso. Abbiamo di fronte un problema più alto dell’Everest e trasformiamo la collinetta sotto casa nella Streif di Kitbuhel. È proprio lontana l’Italia del referendum da quella reale.
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