-di ANTONIO MAGLIE-
L’Inps ieri ha spiegato, numeri alla mano, che l’accensione di nuovi contratti a tempo indeterminato (e tutele crescenti) rispetto allo scorso anno è crollata del 32 per cento; contemporaneamente, i licenziamenti individuali (come da timori legati alla cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto) sono aumentati del 31 per cento (e le cose il prossimo anno potranno solo peggiorare); mentre i voucher rappresentano sempre di più la nuova frontiera del precariato che si voleva aggredire con il presunto sfoltimento della giungla contrattuale. L’altro giorno, di fronte alle critiche rivolte dalla segretaria della Cgil, Susanna Camusso, alla manovra del governo troppo sbilanciata nei confronti delle esigenze degli imprenditori (e forse anche degli evasori), il ministro della Confindustria, Carlo Calenda, ha affermato che il leader sindacale è affetto da un “disprezzo antropologico” nei confronti del mondo delle imprese. Ma i dati forniti da Tito Boeri e sui quali lo stesso presidente dell’Inps in qualità di insigne economista bocconiano dovrebbe riflettere, sono in qualche misura indicativi di alcuni vizi atavici, quindi antropologici, da cui sembra affetta l’imprenditoria italiana, non da oggi (seconda Repubblica), non da ieri (prima Repubblica) ma da un secolo e mezzo cioè dagli albori della seconda rivoluzione industriale.
Nei comportamenti e nelle opzioni dei nostri imprenditori vi sono tre costanti che intrecciano un vero e proprio filo rosso della loro storia. La prima: una certa tendenza a considerare la compressione dei salari come l’unico strumento possibile nel governo del costo del lavoro; la seconda: l’idea che la competitività debba essere affidata più che alla ricerca e all’innovazione (con le inevitabili e lodevoli eccezioni), alla svalutazione monetaria; la terza: una inossidabile propensione all’infedeltà fiscale, come raccontato anche da recenti vicende giudiziarie e da inchieste giornalistiche nazionali e internazionali. A Carlo Calenda, estremamente preparato nell’analisi dell’evoluzione del sistema produttivo (4.0) ma evidentemente meno ferrato in antropologia, partendo dall’ultima delle tre costanti, vorremmo segnalare questa dichiarazione: “I titolari di reddito fisso sono tassati sino all’ultimo centesimo con aliquote non indifferenti. Mentre, invece, il reddito dei professionisti, degli imprenditori e dei commercianti sfugge sempre, talvolta in notevole parte al dovere tributario”. Così parlava un suo collega. Agli inizi del secolo scorso: Filippo Meda, ministro delle finanze nei governi Boselli e Orlando.
Per quanto riguarda la seconda costante, basterebbe richiamare un dato storico e uno di cronaca. La Confindustria è stata graniticamente contraria all’introduzione dell’euro. E, passando dalla storia alla cronaca, non è certo casuale che la competitività del sistema industriale italiano (a causa della sua debolezza sul fronte della ricerca, dell’innovazione e dello sviluppo accentuata dalle sue dimensioni che tendono più al medio-piccolo che al grande) a partire dalla sostituzione della lira con la moneta unica si è ridotta notevolmente aggravando problemi che erano già emersi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta.
Ora quei dati resi pubblici dall’Inps dimostrano come gli imprenditori evocati da Calenda in funzione anti-Camusso, siano (in buona parte) lontani da quell’immagine di classe dirigente che pure i diretti interessati rivendicano per sé. È infatti evidente che non è stato certo il Jobs Act (e le tutele crescenti) a favorire l’aumento dei contratti a tempo indeterminato nel 2015 ma la decontribuzione, cioè i benefici economici con la conseguenza che quando sono venuti in buona parte meno, la spinta si è esaurita. Al contempo, non era difficile prevedere che la sostanziale cancellazione dell’articolo 18 avrebbe determinato una crescita dei licenziamenti individuali, tendenza che subirà un’ulteriore accelerazione allo scadere del triennio dall’entrata in vigore della legge. Tito Boeri che attribuiva capacità palingenetiche al meccanismo delle tutele crescenti oggi ha tra le mani dati che dovrebbero indurlo a mitigare quel suo antico ottimismo, un ottimismo che conferma quel che molti pensano delle previsioni degli economisti e che cioè abbiano più o meno la medesima fondatezza di quelle dei maghi, dal Divino Otelma in giù.
Conclusione. Non sappiamo se, come dice la Camusso, con i quattrini della decontribuzione gli industriali si siano cambiati l’auto (peraltro uno dei settori che tira di più) o il tablet. Una cosa, però, è certa: in questo paese è complicato trovare qualcuno che possa scagliare la prima pietra essendo antropologicamente libero da peccati. Ecco perché Carlo Calenda dovrebbe sempre ricordare di essere un ministro della Repubblica e non solo di un pezzo di essa, cioè di quello da cui lui professionalmente proviene: la Confindustria.
“E’ la struttura del potere e i limiti agli accentramenti di potere che garantiscono dagli abusi di potere.
La REVISIONE COSTITUZIONALE attuale , al contrario, accentra il potere verso l’alto : dal Parlamento al Governo ; dal Consiglio dei ministri al capo del Governo; dalle Autonomie territoriali allo Stato ; dal Popolo Sovrano ad una consorteria di eletti: Questa deformazione costituzionale, in combinato con l’Italicum che riduce il voto a ratifica di quanto deciso nel Palazzo , va verso il compimento di quel reazionario disegno politico del ” premierato assoluto” . Ecco perchè VOTIAMO NO al disegno politico del premierato , NO alla riesumazione del ” piano di rinascita della P2 , NO a Jp Morgan , NO alla Confindustra , NO a Marchionne , NO a chi vuole il nostro Paese colonia degli Interessi del potere finanziario internazionale.