Modernizziamo il Sud: il Ponte può attendere

ponte-stretto-messina-735x400-di ANGELO GENTILE-

Il miliardario americano di origini sudafricane, Elon Musk, in una conferenza stampa in Messico ha annunciato un ambizioso progetto: portare entro dieci anni gli uomini su Marte (viaggi da cento, duecento persone) per costruire pian piano una città. Insomma, sogna la colonizzazione di un pianeta per raggiungere il quale i passeggeri di queste grandi navicelle dovranno essere pronti a sborsare per l’acquisto di un biglietto duecentomila dollari, essere preparati anche alla morte e, comunque, predisporsi a un viaggio di centoquindici giorni. Mentre Musk davanti a un uditorio probabilmente attonito dava voce più che a progetti a personalissimi sogni, in Italia, davanti a una platea molto più provinciale (semplici costruttori edili) Matteo Renzi rilanciava una vecchia idea: il Ponte sullo Stretto.

Il progetto perseguita gli italiani da oltre duemila anni e forse il suo fascino sta proprio nel suo carattere di “leggenda metropolitana”. È un po’ come il mostro di Loch Ness: molti sono convinti che esista, alcuni garantiscono di averlo pure visto (non specificano se prima hanno trascorso qualche ora in un pub), qualcuno addirittura dichiara di averlo fotografato esibendo immagini che sono un po’ come gli identikit della polizia, un po’ generici. In Italia l’ultimo ad aver avvistato il “mostro” è stato Silvio Berlusconi (dell’avvistamento vi sono tracce dalle parti di Scilla, chi ha la pazienza può ancora andare ad osservarle) per essere smentito qualche anno dopo da Mario Monti.

Ora, senza entrare nel merito dei consensi ideologici (che l’avventura abbia un certo fascino è un dato di fatto ma anche attraversare il Sahara in moto ce l’ha) o dei dissensi ambientali (e chi li solleva poi non ha tutti i torti), appare opportuno rispondere a questa semplicissima domanda: serve? Ma, soprattutto, siamo sicuri che il Mezzogiorno d’Italia abbia in cima alle sue priorità questa opera? Che la Sicilia dal punto di vista della mobilità si trasformerebbe nel regno della modernità? Che la Calabria improvvisamente diventerebbe percorribile a velocità prossime a quella del suono?

Obiettivamente la risposta a tutte queste domande è negativa. Come sanno bene chi in quelle zone vive e chi quelle zone le raggiunge sistematicamente per diletto. Per andare da Palermo a Messina in treno (verifica personale) occorrono più di tre ore, cioè un’eternità; e per spostarsi da Siracusa a Messina due e quarantacinque. Mettersi in viaggio da Roma verso Villa San Giovanni, al di là degli annunci e delle inaugurazioni di Matteo Renzi, è ancora una piccola impresa. Spostarsi in auto all’interno di quelle regioni può essere gradevole per ammirare il paesaggio ma chi ha un po’ di urgenza si concentra solo sul fastidio. Per chi abita questa lunga penisola il problema non sembra essere quello di passare dall’estrema punta meridionale del continente all’estrema punta occidentale dell’Isola, ma di arrivare in tempi (e modalità) decenti a quelle punte. Ma certo è più affascinante pensare a una grande opera a cui persino i romani si dedicarono (immaginavano un ponte di barche ma poi si accorsero che avrebbe impedito la navigazione nel canale) che non a migliorare le strutture esistenti: strade, ferrovie, porti, aeroporti.

È la bellezza della politica prestidigitatoria: cavare un coniglio dal cappello è molto più affascinante e appariscente che toglierselo semplicemente. Quel che si cerca è il sobbalzo sulla sedia (seguito, ovviamente da buoni affari), l’applauso della platea, la sorpresa stampata sul volto degli ascoltatori. In fondo tutti hanno diritto di sognare uno sbarco su Marte. Ma poi la realtà è che la ricostruzione nel Belice a quarantotto anni di distanza dal terremoto non è terminata (quaranta famiglie vivono ancora nelle baracche di amianto); i porti meridionali sono stati abbandonati perché la crisi ha reso più economicamente appetibili agli imprenditori del settore quelli dei dirimpettai greci; i treni vanno su e giù su linee a un solo binario nel frattempo trasformate per intensità del traffico in vere e proprie metropolitane mancanti dei più elementari sistemi di sicurezza (e la conferma è venuta non troppo tempo fa da Corato); raggiungere Roma dal Sud dopo la riorganizzazione del sistema voluta dall’ex presidente delle ferrovie Moretti (come diceva Andreotti: i pazzi in Italia sono di due tipi, quelli che si credono Napoleone e quelli che pensano di poter riformare le Ferrovie dello Stato), è una impresa in fondo non molto dissimile da quella spaziale a cui si vorrebbe dedicare Musk (il biglietto costa meno).

Certo, come dice il capo dell’Autorità anti-corruzione, Raffaele Cantone, un paese civile non rinuncia alle grandi opere per paura delle “mazzette” e per timore delle infiltrazioni mafiose. Ma certo qualche dubbio sorge nel momento in cui, analizzando i dati, ci si rende conto che il traffico sullo Stretto si è progressivamente ridotto in questi ultimi anni e che, quindi, è concreta la prospettiva che alla fine quell’opera possa non corrispondere esattamente a principi di economicità e, indirettamente, di utilità. Sei anni fa, quando si attendeva solo il taglio del nastro del Ponte berlusconiano, la Corte dei Conti invitò a compiere una seria riflessione sui costi, sulla fattibilità e sui benefici collettivi che l’impresa avrebbe comportato. L’invito appare ancora oggi fondatissimo. Centomila posti di lavoro si possono creare in tante maniere e per scoprirle basta fare un giro per l’Italia (del Sud in particolare). Insomma, non abbiamo bisogno di rendere concreto un ponte chiamato desiderio.

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