Referendum: i due errori di Renzi, la ragionevolezza Cgil

 

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-di CESARE SALVI-

È sempre più evidente che Renzi ha commesso un grave errore nell’insistere prima su una riforma costituzionale “di maggioranza”, poi su un referendum che divide profondamente il paese. E questo errore rimane, quale che sarà l’esito del voto.

Si osserva che la procedura prevista dall’art. 138 per la revisione costituzionale è stata rispettata, e quindi la riforma è perfettamente legale. Ci mancherebbe altro! Il punto è che il consenso parlamentare è stato raggiunto per effetto di una legge elettorale maggioritaria (oltre tutto dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale), con il voto di una maggioranza di parlamentari rappresentativi però di forze politiche largamente minoritarie nel paese. In questo modo si afferma l’idea di una Costituzione “a disposizione della maggioranza” di turno. Per evitare questo rischio e non mettere la Costituzione nelle mani della forza politica vincitrice di elezioni svoltesi con il sistema maggioritario, il centro-sinistra si impegnò, in occasione del referendum vinto contro il progetto di Berlusconi, a elevare a due terzi il quorum previsto dall’art. 138. È rimasta, purtroppo, una delle tante promesse disattese.

A questa ferita iniziale si è aggiunta la presentazione da parte di Renzi, del referendum come una sorta di ordalia. “Dopo di me , il diluvio”, secondo un’espressione usata in Francia, che non portò fortuna niente meno che a De Gaulle, sconfitto nel 1969 nel referendum da lui voluto.

Ora Renzi sembra aver abbandonato questa linea, controproducente in un paese sempre meno convinto della sua leadership e delle sue politiche. Ma sono subentrati i grandi poteri nazionali e sovrannazionali, dai governi esteri ai capi delle grandi imprese alle agenzie di ratings, prevedendo (o minacciando) inaudite catastrofi in caso di vittoria del no. Previsioni prive di ogni credibilità (come dimostra, in un caso sotto questo aspetto analogo, la condizione della Gran Bretagna dopo il voto per la Brexit), e fosse anch’essa controproducente (come pure la vittoria della Brexit ha mostrato).

Resta il rischio di un voto viziato da argomenti, introdotti da sostenitori del sì, che prescindono del tutto dal pur tanto invocato “merito”. Parlare del merito vuol dire domandarsi: avremo istituzioni più democratiche ed efficienti in caso di approvazione della riforma, o è preferibile l’attuale assetto costituzionale? È chiaro che miglioramenti sono sempre possibili, purchè puntuali e chiari.

Ma il giudizio va dato sulle innovazioni proposte dal Governo, non su una generica affermazione che è meglio una riforma come che sia che nessuna riforma.

L’ordine del giorno approvato dall’Assemblea generale della Cgil è un buon esempio del metodo giusto.

L’invito a votare no nasce infatti da una discussione sul merito, e l’’ordine del giorno della Cgil contiene critiche ragionevoli e fondate sull’eccesso di centralizzazione statalistica, su composizione e funzioni del Senato che lo rendono inadeguato a costituire un’efficace sede di coordinamento tra stato e regioni, sull’eccesso di potere in materia legislativa dato al Governo con il voto a data certa, sulla complicazione del procedimento legislativo, sul restringimento del pluralismo nell’elezione degli organi di garanzia.

La dilatazione del voto referendario fino a una delle ultime date disponibili (si parla del 4 dicembre) non solo conferma le difficoltà del Governo, ma è anche un fattore negativo, perché prolunga ben oltre il giusto la situazione di incertezza e divisione nel paese.

La divisione anche nel PD, intanto, si acuisce. Se D’Alema ha avviato un Comitato per il no, presieduto da Guido Calvi, la c.d. minoranza continua su una strana posizione di attesa: “ad oggi” voterà no. E domani?

Se ci avessero pensato prima, quando la legge costituzionale e quella elettorale erano in parlamento, sarebbe stato meglio.

Resterà questa divisione profonda nel PD senza conseguenze, quale che sia l’esito del voto referendario? È difficile fare previsioni. In ogni caso, ogni prospettiva di riscossa della sinistra esterna e interna al PD richiede la proposta di una politica economica e sociale alternativa al neoliberismo dell’attuale governo, che affronti i veri problemi dell’Italia: che non riguardano la Costituzione, ma la stagnazione economica, l’aumento delle diseguaglianze, la drammatica disoccupazione giovanile, la povertà crescente, il Mezzogiorno che continua ad arretrare.

Sarebbe stato molto meglio discutere e decidere su questo, piuttosto che su quanto si risparmia con 200 senatori in meno.

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