– di RICCARDO LOMBARDI* –
In una nostra nota polemica con l’ “Unità” il “Popolo” altro non ha saputo vedere se non un tentativo di… aprire le porte al nemico. È questa una radicata superstizione di certi settori della democrazia cristiana: considerare la cosiddetta area democratica un terreno, chiuso, incapace di espansione e dall’accesso riservato ai prigionieri del campo nemico.
Non è questo il nostro modo di vedere le cose: e non i seduce il motto “molti nemici molto onore”: noi abbiamo come punto di riferimento della battaglia socialista la destra economica e politica, consideriamo tutte le altre forze come o attualmente o potenzialmente disponibili per la lotta contro la destra e operiamo in maniera da non precludere, a breve o a lunga prospettiva, la possibilità che queste forze pesino tutte a favore dello sviluppo democratico del paese. Impresa certo che non consente soluzioni di facilità e che presuppone il paziente chiarimento, l’operosità disinteressata, lo sforzo assiduo di persuasione.
Una cosa è difatti l’attuale maggioranza di governo che la la sua delimitazione concordata di comune accordo e che oggi a livello politico è obiettivamente il massimo di espansione possibile per il rinnovamento democratico del paese, la programmazione, le riforme di struttura. Altra cosa invece è il problema di rendere disponibili e operanti in questa direzione tutte le forze che obiettivamente, cioè sul terreno dei rapporti sociali, possono rendersi disponibili. Questo è un problema aperto, di prospettiva, che non può avere incidenza immediata sull’attuale equilibrio politico, ma nemmeno può essere eluso nel quadro diuna visione complessiva dello sviluppo della società italiana, che non può essere misurata soltanto ala stregiua degli attuali rapporti esistenti tra i partiti e ai loro attuali problemi interni.
Il dialogo perciò col partito comunista è per noi un dialogo obbligatorio, il nostro rapporto col partito comunista è del tutto diverso da quello esistente fra DC e PCI, soprattutto perché la “guerra” fra noi e il PCI è una guerra civile; civile nel doppio significato di lotta intestina all’interno, cioè del movimento operaio, e di lotta condotta con metodi di civiltà, cioè senza indulgere a settarismi e senza consentirli.
Non pretendiamo dunque di mettere limiti alla provvidenza o, per esprimere la stessa cosa con un linguaggio laico, lasciamo che lo spirito soffi dove vuole.
Civile, lo riconosciamo volentieri, è stata la risposta dell’ “Unità” del 16 scorso: civile anche se deludente e anche notevolmente ambigua. E ciò non già tanto per non aver raccolto alcune nostre domande, ciò che forse può attribuirsi all’intenzione di una risposta più meditata, quanto per avere diluito in una serie di considerazioni importanti, ma marginali, la vera sostanza del dissenso.
Noi domandavamo al compagno Alicata di spiegarci politicamente il motivo per cui il PCI, dopo avere per anni affermato che la sua disponibilità democratica sarebbe stata messa a una prova convincente e irrefutabile il giorno in cui esso si fosse trovato di fronte a un governo capace di impostare i problemi avanzati di riforma democratica e di attuazione della Costituzione, quando poi quel giorno è venuto, quando un governo si è presentato con quel programma e con quella intenzione, il comportamento del PCI verso di esso non è stato di appoggio e neppure di tolleranza, ma di opposizione frontale e senza quartiere, con un carattere pregiudiziale appena dissimulato da una effimera fase di attesa sospettosa e insofferente, senza consentire né tregua né margine di manovra, cose entrambe, e i comunisti ben lo sanno, indispensabili in un difficile governo di coalizione.
La risposta che i comunisti e che Alicata mostra di mantenere è: perché questa maggioranza esclude l’associazione nella corresponsabilità degli otto milioni di voti comunisti. Ma è questo argomento che noi contestavamo parlando di un “ricatto” della quantità alla qualità. Sottraendosi a una risposta convincente, Alicata elude un problema che pur è considerato reale e decisivo dallo stesso partito comunista, se dobbiamo prendere sul serio, come dobbiamo, il dibattito recente al convegno organizzativo di Napoli: giacché gli otto milioni di voti sono certamente una forza, e aggiungiamo, una forza potenzialmente disponibile per una politica di sviluppo democratico: potenzialmente disponibile significa che essa può essere guadagnata a questo compito, ma non è dimostrato che lo sia già.
A nostro giudizio vale soprattutto per i comunisti, in ragione appunto della loro forza politica ed elettorale, il problema di una scelta: o si punta come obiettivo preminente o addirittura esclusivo sulla espansione, il rafforzamento, il prestigio del partito, cioè su una politica di “potenza” e in tal caso si è sospinti dalla forza delle cose a posporre le scelte politiche responsabili, scelte che non permettono mai di fruire del cumulo degli interessi offesi e del malcontento indifferenziato; oppure si segue l’altra via, quella dell’impegno e della responsabilità che necessariamente distingue e seleziona fra gli interessi da soddisfare e in tal caso… non si hanno più gli otto milioni di voti.
Se i compagni comunisti conducessero un esame spregiudicato (e non è detto che non lo abbiano fatto, anche se non pubblicamente) della tecnica che ha consentito loro il grande successo elettorale delle ultime consultazioni politiche, sarebbero portati probabilmente a riconoscere che esso è dovuto, in larga misura, all’uso spregiudicato e, riconosciamolo, accorto, della vecchia tecnica della sollecitazione del cumulo degli interessi, anche se contraddittori, offesi; tecnica questa ideale di fronte a situazioni rivoluzionarie quando occorre fare blocco di tutto per creare la forza d’urto, ma assolutamente contraddittoria con un impegno di partecipazione responsabile, non importa se nel governo o all’opposizione, alla direzione democratica del paese.
*Articolo pubblicato sull’ “Avanti!” del 19 aprile 1964. In Riccardo Lombardi (a cura di Simona Colarizi): “Scritti politici 1963-1978”, Marsilio II 1980, pp 7-9; titolo: Dal “Popolo” all’ “Unità”.
Questo articolo di Ricardo Lombardi risale a cinquantadue anni fa. Ma se lo si legge con attenzione può ancora essere utile per aiutarci a capire quali strade possono essere percorse per dare alla sinistra (quella evidente e quella sommersa) una nuova direzione di marcia in senso riformista. Certo non l’arroccamento ma la ricerca di quelle forze, in parlamento e, soprattutto, nella società che rappresentano interessi e bisogni diffusi ma non soddisfatti, partendo, evidentemente dalle fasce meno favorite o da quelle maggiormente colpite dalla crisi.Nel recentissimo dibattito con Carlo Smuraglia, il presidente dell’Anpi, l’Associazione italiana partigiani, Matteo Renzi ha sostenuto che la sua scelta politica è l’unica possibile perché le alternative non portano a sinistra ma verso la destra populista. Se rimaniamo ai dati oggettivi (quei dati a cui faceva all’epoca riferimento Lombardi polemizzando con i comunisti e con Mario Alicata), in realtà quella strada ha semmai favorito lo scivolamento verso quella destra proprio perché la sinistra non è stata in grado di fornire una risposta “programmatica” (le riforme di struttura che proprio perché di struttura hanno il compito di modernizzare la società in un’ottica di equilibrio sociale) ai malesseri prodotti dalla crisi accettando, un po’ comodamente e un po’ strumentalmente, l’idea che per correggere le storture del sistema basti una semplice manutenzione ideologica. Come ha sostenuto un economista in una recente intervista, alla politica italiana è mancata la “visione”. Anche alla sinistra, anche a Renzi che si è entusiasticamente accodato alle scelte compiute in Europa da altri leader provenienti, almeno formalmente, dal campo progressista. I risultati sono stati modesti: Francois Hollande in Francia è buon ultimo nel sondaggio sul gradimento dei leader e certo non lo ha aiutato la nuova “Loi Travail” che semmai lo ha ulteriormente isolato dai residui settori di sinistra che potranno anche non avere tutte le ragioni di questo mondo ma che forse avrebbe dovuto almeno ascoltare (situazione che peraltro si è verificata anche in Italia sul Jobs Act); In Germania la Spd affonda nei mini test elettorali insieme all’alleato di governo, la Cdu che essendo più robusta affonda un po’ meno mentre Linke e i verdi orfani di un progetto e deboli in materia di riorganizzazione del nuovo mondo uscito terremotato dalla crisi, hanno finito per alimentare elettoralmente il partito populista di Frauke Petry, l’Afd. L’elenco potrebbe essere più lungo ma a questo punto forse varrebbe la pena, a parti invertite, di smettere di far prevalere quel ricatto della quantità (l’ampio consenso che si è un po’ volatilizzato dopo gli 80 euro) sulla qualità di cui parlava Lombardi.