Libri. Programmazione e riforme, confronto alla Uil

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C’è stato un periodo in cui le riforme in questo Paese si pensavano e, a volte, si realizzavano. C’è stato un periodo in cui si provava a fornire nel concreto la definizione di quelle che venivano chiamate “riforme di struttura”, che non potevano essere superficiali rabberciamenti, semplici occasioni per dire: “Noi facciamo”. C’è stato un periodo in cui non contava tanto l’aspetto estetico, esteriore della pubblica narrazione, ma il contenuto che produceva quella narrazione. Enzo Russo lo spiega perfettamente riproponendo una vecchia interpretazione di Antonio Giolitti: “Ciò che qualifica un procedimento di riforma non è tanto il limite posto alla vastità e profondità della trasformazione che con esso si vuole operare quanto la gradualità che è simultaneità di costruzione e distruzione, affermazione del nuovo insieme con la conservazione e il potenziamento di ciò che di valido è già nel vecchio”.

Una filosofia che è stata soffocata da un lato da una difesa strenue dello statu quo inteso come sopravvivenza di interessi corporativi e dall’altro da un “nuovismo” che nel nome di una città del sole in corso di edificazione abbatte anche fondamenta solide che andrebbero solo restaurate. Riflettere su quel periodo, gli anni Sessanta e Settanta, non solo è necessario da un punto di vista storico, ma può essere anche utile da un punto di vista più strettamente politico.

Ed è quello che in questi anni ha fatto la Fondazione Giacomo Brodolini avviando, sotto la guida di Enzo Bartocci, un progetto di ricerca intorno al tema “le culture del socialismo italiano: 1957-1976”. Una ricerca che si concretizzerà in quattro volumi collettanei. Il primo, curato da David Bidussa e Andrea Panaccione, ha fatto un po’ da introduzione all’opera (Titolo: Le culture politiche ed economiche del socialismo italiano dagli anni ’30 agli anni ’60). Domani, 16 settembre, presso la sede della Uil a Roma, nella sala intitolata a Bruno Buozzi, alle ore 17,30 si svolgerà un incontro per discutere dei temi posti dal volume curato da Enzo Russo: “Programmazione, cultura economica e metodo di governo”. In tutto sette saggi preceduti da una introduzione del curatore e da una appendice in cui sono raccolti i discorsi al Senato di Ugo La Malfa e Antonio Giolitti. Enzo Russo nel primo dei sette saggi si occupa di “come nasce la cultura della programmazione in Italia e come i socialisti ne diventano protagonisti negli anni ’60 e ’70”. Seguono i lavori di Manin Carabba (“Il riformismo socialista e il primo centro-sinistra), di Cristina Renzoni (“Urbanistica e programmazione nel primo centro-sinistra. Uno sguardo su saperi, esperti e apparati pubblici”), di Donatella Strangio (“Politica industriale e programmazione da Vanoni a Giolitti”), di Antonio Foccillo ed Enzo Russo (“La politica dei redditi nel rapporto tra sindacato e programmazione”), di Paolo Soddu (“Ugo La Malfa e la sinistra democratica nel confronto con i socialisti: Nota aggiuntiva e politica dei redditi”) e di Franco Archibugi (“I socialisti e la programmazione: tra passato e futuro”).

Nell’incontro di domani organizzato dalla Uil, dalla Fondazione Pietro Nenni e dalla Fondazione Bruno Buozzi, Enzo Bartocci, presidente onorario della Fondazione Giacomo Brodolini, presenterà la collana che si arricchirà prossimamente di altri due volumi. Enzo Russo, invece, illustrerà il significato e l’articolazione del volume da lui curato. A partire dalla sua introduzione si svilupperà il dibattito che vedrà impegnati il segretario confederale della Uil, Antonio Foccillo (coautore di uno dei saggi contenuti nel libro), l’economista Antonio Pedone e Giorgio La Malfa, lungamente ministro, tanto protagonista diretto di quegli anni quanto testimone accanto al padre Ugo. A dirigere l’incontro provvederà il presidente della Fondazione Nenni e della Fondazione Buozzi, Giorgio Benvenuto. Per avviare il dibattito, proponiamo un paio di capitoli del volume curato da Enzo Russo.

Riforme di struttura, il dibattito a sinistra

-di ENZO RUSSO*-

Come ci ricorda Enzo Bartocci nella presentazione del progetto generale, “sul piano storico il tema della “programmazione democratica” appartiene alla cultura del socialismo italiano. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, il discorso della programmazione viene rilanciato prima dal Piano Marshall e quindi dalle agenzie specializzate delle Nazioni Unite che, prima di erogare gli aiuti, richiedono la presentazione di piani di sviluppo.

In forza di queste spinte, nell’ottobre 1948, in Italia veniva presentato il Piano Tremelloni (1949-53) e, alla scadenza di questo, lo schema Vanoni decennale. I governi che li avevano presentati erano centristi e i loro piani erano in buona sostanza proiezioni tendenziali sulla crescita dell’economia senza veri e propri strumenti di intervento.

Nell’Italia degli anni ’50 e della Guerra fredda, l’industria italiana era in fase di profonda trasformazione mentre rimanevano alquanto arretrati l’agricoltura ed il terzo settore. Rimanevano alti i divari territoriali tra Nord e Sud e altrettanto alta la disoccupazione e la disuguaglianza nei redditi e nei patrimoni. Il discorso della programmazione veniva strettamente collegato alle c.d. riforme di struttura, ossia, ai cambiamenti nelle strutture produttive che dovevano per alcuni ammodernare il paese e assicurare un tasso di accumulazione idoneo a mantenere alto il tasso di crescita economica, superare gli squilibri territoriali e perseguire la piena occupazione. Per altri, invece, dovevano promuovere la fuoriuscita del Paese dal sistema capitalistico atteso che anche, nella sua versione neocapitalistica, il sistema sembrava non in grado di conciliare le sue profonde contraddizioni.

Secondo lo stesso Giolitti (1958: 141) “l’abitudine di dare per univoco e ovvio il significato del termine riforme di struttura è stata ed è tuttora fonte di molti equivoci…. a seconda che l’accento veniva posto sulla parola riforme o su struttura. Nel primo caso, si intendeva riformismo, escludendo la necessità di un qualsiasi atto politico rivoluzionario; nel secondo caso la formula assumeva un significato economicistico per cui si doveva orientare tutta l’azione sulle strutture trascurando o sottovalutando le soprastrutture”. Giolitti esclude entrambe le implicazioni teoriche “che eludono il nesso tra struttura e soprastruttura e non tengono conto che la vera alternativa era tra riforme e rivoluzione, tra presa del potere o cambiamento dell’ordinamento giuridico prima o dopo le riforme di struttura”. Ed ancora a p. 144, “Senza dubbio, ciò che qualifica un procedimento di riforma non è tanto il limite posto alla vastità e profondità della trasformazione che con esso si vuole operare, quanto la sua gradualità, che è simultaneità di distruzione e costruzione, affermazione del nuovo insieme con la conservazione e il potenziamento di ciò che di valido è già nel vecchio. Volere la riforma di struttura non significa limitare la propria azione alla correzione e modificazione: riforma può benissimo significare trasformazione totale. Tale ha da essere la riforma delle strutture: queste infatti, per loro natura, rimangono sostanzialmente intatte e continuano a condizionare negli stessi termini essenziali la realtà economica, sociale, politica, se non ne vengono mutati gli elementi fondamentali”.

Ecco come, solo nella seconda parte degli anni 50, quando comincia a delinearsi l’ipotesi dell’apertura ai socialisti che comincia a precisarsi meglio il discorso delle finalità ultime delle riforme di struttura.

Ma per altri, le riforme di struttura erano “la sostanza della via italiana al socialismo” – testimonia recentemente Alfredo Reichlin – e costituivano il Programma fondamentale del PCI approvato nel suo VIII Congresso (14-12-1956). Così l’esponente comunista proprio nella testimonianza in onore di Giolitti, contenuta in G. Amato (2012: 86), dove ammette di avere sbagliato in prospettiva storica dicendo chiaramente che “il limite della visione anche la più democratica della via italiana al socialismo stava nella sua irrealizzabilità, quale che fosse il grado di autonomia dall’Urss”.

Sulla visione ufficiale (ortodossa) del rapporto tra socialismo e riforme di struttura vedi Palmiro Togliatti Rapporto (Rinnovare e rafforzare) all’VIII Congresso del PCI (8-14/12/1956), pubblicato in P. Togliatti, 1963, riprodotto in parti significative in Barca, Botta, Zevi (1975: 218 e segg.).

Sulle riforme di struttura come strumento di superamento del sistema capitalistico e di transizione al socialismo è significativa ancora la posizione di Enrico Berlinguer nel suo rapporto al Comitato Centrale del PCI (10/12/1974) – proprio alcune settimane dopo l’uscita dei socialisti dal governo – in cui pone: “ la questione dell’indirizzo politico generale e dunque della direzione politica del paese nel quadro di ‘una nuova tappa della rivoluzione democratica che introduca nella società elementi di socialismo”. Ed è appunto sulla necessità di avviare un ‘processo di superamento progressivo della logica del capitalismo’ e sulle condizioni che lo rendono possibile che si va sviluppando nei primi mesi del 1975, il dibattito in preparazione del XIV Congresso” (Barca, Botta, Zevi, 1975: 377).

Né la posizione del PCI cambia dopo il successo elettorale nelle elezioni amministrative del 1975 e alla vigilia di quelle politiche del 1976 e della formazione del governo di solidarietà nazionale con l’appoggio esterno del PCI.

È emblematica anche la posizione di Giorgio Napolitano (gennaio 1976: 123-24), nella sua intervista a Eric Hobsbawn. In quegli anni, il futuro Presidente della Repubblica si occupava di questioni economiche e sociali. Questi constatava – a mo’ di domanda: “ca va sans dire, siamo marxisti, e la persistenza della contraddizione a livello mondiale tra carattere sociale della produzione e appropriazione privata fa sì che “molte delle previsioni di Marx a proposito delle tendenze del capitalismo cominciano adesso a verificarsi”. E, di rimando, Napolitano, citata la straordinaria ondata di interesse per il marxismo alla fine degli anni sessanta specie tra i giovani… riprendendo il discorso delle contraddizioni e storture del capitalismo… – soggiunge che – dinanzi all’acuirsi, negli ultimi tempi di questa crisi, direi che per tutti noi il ritornare a Marx ha avuto il valore, spesso, di una riscoperta… richiamata per altro verso la crisi di sviluppo del pensiero e dell’analisi marxista, da un lato ricorda che il PCI nel suo statuto non si definisce come partito marxista (o marxista-leninista), dall’altro qualifica la sua come un’organizzazione politica, che si ispira al marxismo, alle idee del marxismo… E in quanto alla nostra pratica politica, attendiamo che qualcuno ci provi in che senso essa sia – come si è scritto – “assolutamente non marxista”. L’essenziale è che come partito nel suo complesso, e come quadro dirigente del partito, noi ci confrontiamo sempre di più con la cultura marxista e la ricerca marxista, e sempre di più cerchiamo di stimolarne uno sviluppo originale dentro e fuori delle nostre file”.

Ora se si tiene conto che in quegli anni cruciali Ford era succeduto a Nixon (costretto a dimettersi il 9/08/1974) e che entrambi in materia di politica estera erano assistiti da Henry Kissinger, si capisce come simili discorsi di Berlinguer e Napolitano potevano essere accolti a Washington D.C.. Ma nemesi della storia, Giorgio Napolitano si vede ora assegnato il premio Henry Kissinger che gli sarà consegnato di persona dall’ex segretario di Stato americano a giugno prossimo a Berlino.

Capire bene il discorso sulle riforme di struttura e tener conto dei pesanti vincoli che gravavano sulla evoluzione del sistema politico italiano a me sembra essenziale per arrivare ad un giudizio storico, sereno, non fazioso sul centro-sinistra. È cruciale capire che cosa intendevano per riforme di struttura i protagonisti e le forze politiche di quella fase storica. Altrimenti non si spiega la conventio ad excludendum del PCI, alias, il vincolo esterno della delimitazione a sinistra della maggioranza, la scissione del PSI del gennaio 1964 e le diverse posizioni di Giolitti e Lombardi che rifiutano di entrare e/o non vengono ammessi nel governo Moro 2.

Ora se si accetta la posizione di Giolitti secondo cui bisognava agire sia sulle strutture sia sulle soprastrutture (la politica ed il governo), allora si spiega come quella della DC e del PSI e degli altri partiti fosse una scelta strategica e, allo stesso tempo, obbligata, ovviamente, non priva di forti contrasti sul grado di incisività che dovevano avere le riforme di struttura e sul continuo rinvio di alcune di esse dopo la crisi del 1964. Né la situazione è cambiata dopo l’Autunno caldo quando il movimento sindacale agendo in forma unitaria portò avanti piattaforme rivendicative molto complesse che inglobavano le riforme di struttura all’interno del discorso sul cambiamento del modello di sviluppo.

Se questo è vero e se si distingue opportunamente tra efficienza delle strutture della programmazione e quantità e qualità delle riforme di struttura comunque approvate nel periodo considerato – anche se alcune non attuate al meglio – il giudizio sui risultati di quella esperienza politica non è così negativo come alcuni storici ed economisti fanno apparire. Qui mi basta citare solo alcune di dette riforme come: la nazionalizzazione delle industrie elettriche, la scuola media unica, l’introduzione della cedolare d’acconto (poi secca) sui dividendi, l’apertura alle donne dei concorsi per la magistratura, l’abrogazione della norma di pubblica sicurezza fascista per cui non potevi avere un lavoro in una città industrializzata senza essere residente in quella città e non potevi avere la residenza se prima non avevi un contratto di lavoro, le leggi urbanistiche degli anni 60 e ’70, la riforma dei patti agrari, la riforma delle pensioni, l’abolizione delle gabbie salariali, le leggi per il Mezzogiorno; la riforma tributaria, lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria, le leggi per la casa, il diritto allo studio per i lavoratori, ecc..

Se come sostenevano inizialmente Giolitti e Lombardi la programmazione era un insieme di riforme di struttura, allora non poche di queste riforme sono state attuate in mezzo a tanti contrasti ed alcune di esse sono state approvate anche grazie al contributo determinante del movimento sindacale specialmente durante il 3° e il 4° centro-sinistra. In questo senso non è vero che il Centro-sinistra sia durato solo 18 mesi quelli del governo Moro I. E’ cruciale approfondire bene quello che è successo tra le due crisi politiche ed economiche del 1964 e del 1974.

Ovviamente il vincolo esterno più pesante fu la mancanza di un’alternativa per via del mancato revisionismo del PCI che si protrarrà sino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e all’implosione dell’URSS nel 1991 e, di conseguenza, l’impossibilità di costruire un’alternanza al governo.

Alla fine, il Centro-sinistra fu sconfitto non perché non fossero state fatte alcune riforme di struttura ma per l’impossibilità di superare i vincoli esterni e quelli interni. Fu sconfitto da un lato dalla mancanza di una strategia politica condivisa a sinistra, dall’altro dalla coalizione degli interessi minacciati, interni ed esterni.

Anche i governi di solidarietà nazionale non ressero per le stesse ragioni esterne ed interne perché non si riuscì a promuovere uno schieramento più ampio, per la rivalità a sinistra, per il mancato revisionismo del PCI, per gli equivoci e le ambiguità poi legate al discorso sul nuovo modello di sviluppo, per il trionfo del neo-liberismo che non tollerava alcun esercizio di programmazione, per la scarsa qualità della classe dirigente innanzitutto politica che non ha saputo coniugare l’etica della convinzione con quella responsabilità.

  • Introduzione del libro a cura di Enzo Russo: “Programmazione, cultura economica e metodo di governo”, Quaderni della Fondazione Brodolini (5), 2015, pp. 273

Modelli di politica dei redditi*

-di ANTONIO FOCCILLO** ed ENZO RUSSO***-

I modelli e/o le accezioni della politica dei redditi discendono naturalmente dai tipi di programmazione che si adottano. Allora le esperienze concrete che gli economisti avevano sotto gli occhi erano essenzialmente due: la pianificazione rigida di tipo sovietico e quella indicativa alla francese. Abbiamo visto che già nella Nota aggiuntiva di La Malfa si escludeva il primo tipo di programmazione. Ma nel dibattito politico che prese luogo negli anni 1961-63 si contrapponevano comunque i modelli della razionalità che tendeva a coincidere con il modello coercitivo di tipo sovietico dove c’era l’Ufficio del piano (GosPlan) che decideva tutto ( prezzi, salari, risparmi, investimenti, profitti, consumi, ecc.) e quindi emanava precise direttive vincolanti che lavoratori e manager di tutti i settori produttivi (pubblici e privati) dovevano rispettare e il modello delle autonomie coordinate che lasciava appunto margini di autonomia sia all’iniziativa economica privata, ai manager del settore pubblico e, naturalmente, ai sindacati dei lavoratori nei diversi settori produttivi.

Come chiarisce magistralmente Momigliano (1966: 147), “ a chi obiettasse che la stessa esistenza di centri autonomi di decisione, la stessa accettazione di un sistema di scelte decentrato, è di per sé in contrasto con la pianificazione , a chi domandasse in che senso l’ideologia dei “centri autonomi di decisione” possa avere un significato per la pianificazione, si può rispondere che proprio questa ideologia ha un significato, in quanto la pianificazione rappresenta, in questo caso, il modo per regolare le varie autonomie (corsivo dell’Autore). La pianificazione assume così il significato di coordinamento; poiché in realtà il concetto di pluralità di autonomie è indissolubilmente connesso a quello di regolamentazione , in coerenza alla ovvia considerazione che, se i centri di decisione autonoma sono parecchi, vi è la necessità di delimitarne la sfera di azione”.

In una economia programmata tutte le variabili fondamentali (prezzi, salari, consumi, investimenti, profitti, rendite, tassi di interesse) devono essere compatibili tra di loro specialmente in un contesto di economia aperta e/o di interdipendenza economica come era l’economia italiana dopo la liberalizzazione degli scambi e l’ingresso dell’Italia nella Comunità europea. Ora in un sistema ad economia mista (neo-capitalista) di tipo occidentale e, in periodi di crescita sostenuta come quella di fine anni cinquanta e inizi anni sessanta, non si pose con urgenza il problema della politica dei redditi. Ma proprio a fine anni 50, da un lato cominciava a profilarsi il problema del rallentamento della crescita, dall’altro nel 1963 si apre la crisi congiunturale innescata dal forte aumento delle importazioni di beni (anche alimentari) che producono un forte aumento nella bilancia commerciale.

Il dibattito si inasprisce e quindi vengono in evidenza due accezioni più radicali della politica dei redditi : l’una in senso stretto ed un’altra in senso lato. La prima si riferisce essenzialmente al controllo della variabile salariale soprattutto come strumento di stabilizzazione dell’economia. E’ visione restrittiva, di breve termine nella logica delle manovre anticongiunturali. In questi termini essa salta non solo l’analisi del problema dell’inflazione e delle sue cause che possono essere diverse da caso a caso e nel tempo ma anche gli effetti del progresso tecnico sui processi produttivi e/o dei fattori che influiscono sulla dinamica della produttività. In senso ampio, la politica dei redditi è politica economica che abbraccia le tre funzioni fondamentali del bilancio dell’operatore pubblico: allocazione, redistribuzione delle risorse e stabilizzazione del ciclo economico secondo la classica tripartizione di Musgrave (1959). Se la programmazione era ed è improntare tutta la politica economica a sistematicità, la politica dei redditi non può essere solo controllo della variabile dei salari ma anche di tutti gli altri redditi e rendite nonché dei prezzi e delle altre variabili fondamentali dell’economia al momento della loro formazione e non soltanto dopo in chiave redistributiva con i tradizionali strumenti della politica di bilancio (trasferimenti ed imposte). Ma queste sono considerazioni strettamente economiche ed alquanto schematiche.

Per capire e seguire l’evoluzione del dibattito sulla politica dei redditi tra le forze politiche e le parti sociali bisogna rifarsi all’istituzione della Commissione nazionale per la programmazione economica (1961) nella quale erano presenti le parti sociali e alla quale hanno presentato dei documenti scritti che aiutano a capire le diverse posizioni – peraltro oscillanti tra una adesione formale al discorso della programmazione e una opposizione motivata da alcuni in ragione della funzione stessa della programmazione (razionalizzazione del sistema capitalistico) che eludeva la sua trasformazione profonda) e da altri nei limiti in cui la politica dei redditi si fosse tradotta in totale subordinazione della contrattazione e della dinamica salariale ai vincoli del programma e, quindi, in drastica riduzione dell’autonomia sindacale.

In quegli anni, come detto, si era aperta la prospettiva di un coinvolgimento diretto dei socialisti al governo ed il sindacato, non avendo sbocchi partecipativi sulla politica economica e sulle riforme, aveva aperto una nuova fase contrattuale. Per la prima volta, nelle piattaforme rivendicative, si parlava di decentramento e di presenza sempre più attiva del sindacato nei luoghi di lavoro.

In continuità con l’approccio dello Schema Vanoni, secondo La Malfa, la programmazione doveva garantire una distribuzione dei redditi che consentisse un processo di accumulazione e un livello di investimenti idoneo ad avviare a soluzione il problema degli squilibri territoriali che caratterizzavano il Paese, nonché il riequilibrio tra produzione di beni privati e beni pubblici – impieghi sociali del reddito come proposto anche dai socialisti.

In altre parole, scartata la programmazione dirigista e coercitiva di tipo sovietico, era d’obbligo optare per un modello di programmazione democratica che tenesse conto, da un lato, del progetto di attuazione delle Stato regionale previsto dalla Costituzione del 1948 e, dall’altro, della pluralità e dell’autonomia dei diversi centri di decisione pubblici e privati. Torneremo su questo punto fondamentale più avanti.

La Malfa prima e Giolitti dopo invitavano, in modo esplicito e chiaro, imprenditori e lavoratori a prendere parte alla elaborazione del programma, uscendo dallo spazio ristretto dei problemi contingenti e settoriali, per affrontare i problemi con una strategica visione di insieme dell’economia privata e di quella pubblica.

La Malfa chiese ai sindacati di graduare le rivendicazioni in modo da non indebolire il raggiungimento degli obiettivi del programma. In cambio di tale “responsabilità” e della moderazione dei miglioramenti salariali, il governo avrebbe offerto ai lavoratori, come parte di uno scambio politico, la partecipazione alle scelte di politica economica.

Egli sosteneva che, in tal modo, non si sarebbe costituita nessuna limitazione della libertà rivendicativa dei sindacati, ma solo un’autonoma regolazione delle richieste, decisa liberamente al tavolo della programmazione, nella misura necessaria a rendere la dinamica delle retribuzioni compatibile con la politica delle riforme. Ciò allo scopo di consentire una crescita economica bilanciata e senza inflazione, condizione indispensabile per l’attuazione del piano e per la soluzione degli squilibri (Peschiera, 83; Tartaglia, 1984).

Questa linea fu contrastata dagli imprenditori, che comunque parteciparono agli incontri con il Governo Fanfani (AAVV., 1972) e fu contestata anche da settori della cultura laica e cattolica, che consideravano sbagliata la possibilità di concertazione fra le parti, in quanto la ritenevano un esperimento di natura neo-corporativa, che sottraeva responsabilità e autonomia agli organi costituzionali (Governo e Parlamento), unici soggetti che avevano le responsabilità sulle scelte di politica economica (Peschiera, 1983).

Dimessosi Fanfani il 21-06-1963 per via dei risultati elettorali deludenti del 28 aprile, in cui la DC registrò una flessione del 4% circa. Nel giugno successivo, si concludevano alla Camilluccia (Roma) le trattative tra la DC, PSI, PSDI, PRI, per la stesura di un nuovo programma di governo. Nello stesso mese, al Comitato centrale del PSI, i seguaci di Riccardo Lombardi si dissociarono dalla corrente “autonomista” e rigettavano gli accordi della Camilluccia nella notte di S. Gregorio (16-17 giugno). Non fu possibile costituire un governo organico di Centro-sinistra e si varò il governo Leone c.d. balneare per far decantare la situazione.

Solo nel dicembre del 1963 Aldo Moro riuscì a varare il primo governo organico di centro-sinistra (DC, PSI, PSDI e PRI), con la partecipazione attiva del Partito socialista, che portò nel gennaio successivo ad una scissione dell’ala sinistra (capeggiata da Vecchietti, Valori e Basso), fedele all’idea di unità del movimento operaio e dunque all’alleanza coi comunisti, la quale diede vita al Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP).

Nel frattempo si era aggravata la situazione congiunturale con l’esplosione dei consumi individuali anche alimentari e il forte deficit della bilancia commerciale e nella Primavera del 1964 i discorsi sulla programmazione e la politica dei redditi si intrecciavano strettamente con la necessità di assumere subito idonei provvedimenti anticongiunturali. La Malfa scriveva una lettera a Moro sulla questione della dinamica salariale. Il neo ministro del Bilancio e della programmazione economica Giolitti presentava ai sindacati un suo Memorandum sulla politica dei redditi mentre il ministro del Tesoro Colombo scriveva una lettera al presidente del Consiglio Moro proponendo un ulteriore rinvio delle riforme nel rispetto della logica dei due tempi prima la soluzione dei problemi congiunturali e poi le riforme. Il dibattito diventava incandescente .

Posta nei termini di una compressione dei salari, la politica dei redditi non poteva essere accolta dai sindacati anche se il dissenso fu articolato diversamente e non sempre riferito correttamente all’intera attività di programmazione globale a medio termine dell’economia italiana. Non mancarono per altro verso le pressioni dei diversi partiti a seconda che facessero parte del governo o stessero all’opposizione.

I veti del Pci, ad esempio, influirono pesantemente sulla Cgil, che seguì la scelta dell’opposizione, allo scopo di escludere ogni coinvolgimento della Confederazione, nell’elaborazione del programma, in contrasto con la linea della Cisl e della Uil. E tuttavia l’atteggiamento della Cgil non fu di netta chiusura. Si alternavano atteggiamenti di apertura nei limiti in cui la programmazione veniva intesa come programma di riforme di struttura che avrebbero favorito la trasformazione del sistema e di chiusura nei limiti in cui la politica dei redditi che tutti collocavano al centro dell’attività di programmazione veniva prospettata come strumento di moderazione delle rivendicazioni salariali. E in questi termini veniva posta la questione nel Primavera 1964 quando erano in discussione i provvedimenti anticongiunturali di freno alla domanda interna che aveva prodotto un grosso deficit nella bilancia dei pagamenti e anche la Commissione europea con il suo commissario Marjolin premeva perché i conti con l’estero fossero ricondotti all’equilibrio. Emblematica la qualità del dibattito al XIV congresso nazionale della Fiom che si svolse proprio nel marzo 1964 mentre si acuiva il dibattito sulla questione della moderazione delle rivendicazioni salariali. Enzo Bartocci (1964: 141), riferendosi al rapporto tra azioni rivendicative anche a livello settoriale, integrativo e decentrato citava e condivideva un intervento di Luciano Lama su l’Unità del 5 marzo, confermando la necessità di impegnarsi “in una politica rivendicativa che fosse integrativa e non contraddittoria con una politica di programmazione democratica” che prevedesse l’impegno del governo a portare avanti l’espansione dei consumi sociali, le riforme di struttura, la lotta contro i monopoli e lo sviluppo della democrazia.

Ma nei mesi successivi, le tensioni si acuivano anche per via della Lettera di Colombo al Presidente Moro pubblicata a stralci da Il Messaggero. Nella DC prevaleva la linea dei due tempi e, quindi, al momento la politica dei redditi doveva servire a frenare la dinamica salariale.

Arrivava la rottura anche per le pressioni del PCI e, a giugno, le posizioni di Novella, Santi e Foa si formalizzavano in maniera molto dura sia con riguardo alla politica dei redditi che alla programmazione nel suo insieme (vedi per maggiori dettagli Russo in questo Quaderno).

Sono fasi dalle caratteristiche molto diverse e molto drammatiche. Intanto, in via preliminare, occorre chiarire che la politica dei redditi è uno strumento eccezionale di politica economica. Quando l’inflazione raggiunge limiti fuori di ogni proporzione e non è sufficiente il ricorso ai normali strumenti di politica economica come la politica monetaria e quella fiscale, allora può essere concepibile in linea teorica il ricorso a tale strumento straordinario comunque accompagnato ad una politica dei prezzi, dei profitti e dei dividenti e di altri redditi.

Ma in quella fase e anche successivamente l’Italia presentava fattori strutturali che complicavano non poco la questione dell’inflazione. In Italia bisognava distinguere tra inflazione strutturale discendente dalle specifiche caratteristiche del sistema produttivo con settori avanzati e arretrati, con un sistema distributivo prevalentemente arretrato e inflazione diciamo congiunturale discendente dal mal governo della domanda aggregata. Come scrive Sylos Labini (1972a: 28-29), nel decennio 1952-61 i prezzi all’ingrosso rimangono pressoché stabili ma crescono quelli al minuto. Aumenta il costo della vita; aumentano i profitti; nel settore terziario e/o della distribuzione i salari aumentano più della produttività e dell’efficienza del sistema. Proprio per questi motivi e anche perché non accetta che l’economia debba procedere a singhiozzi e/o strappi coincidenti con la concentrazione dei rinnovi contrattuali, Sylos Labini proponeva al governo un migliore scaglionamento dei rinnovi contrattuali (Sylos Labini, 1972a: 36). Anche Egli conferma la tesi della “carente azione governativa”, dell’inadeguatezza della classe politica e della razza padrona (vedi Scalfari – Turani, 1974) che non riusciva a proporre coerenti politiche industriali non solo per il settore manifatturiero ma neanche per gli altri settori produttivi, dove si annidavano grasse rendite di posizione e di protezione. Quindi diverso è il discorso della politica dei redditi in un sistema economico caratterizzato da forti squilibri strutturali e da esigenze di rinnovamento tecnologico del proprio sistema industriale. Qui la politica dei redditi si va a identificare con la questione della politica economica ottimale per un paese che deve lottare contro la disoccupazione, gli squilibri settoriali, l’arretratezza del Mezzogiorno e le diseguaglianze nella distribuzione del reddito.

La proposta della politica dei redditi nasceva anche dalla difficoltà e/o impossibilità di conseguire obiettivi diversi (stabilità, crescita del reddito e dell’occupazione, un alto tasso di accumulazione del capitale, l’equilibrio dei conti con l’estero, ecc.) con il solo strumento della politica monetaria. Dai sindacati essa veniva percepita come un modo per frenare la forte dinamica salariale che si era manifestata con grande vigore in particolare negli anni 1961-62. In assenza di una politica dei redditi, la Banca d’Italia fece ricorso alla stretta creditizia del 1963-64 con effetti di freno che continuano a manifestarsi anche nel 1965.

E tuttavia contro l’accettazione della politica dei redditi pesava non solo il modo in cui era stata prospettata ma anche l’esperienza di altri paesi occidentali, dove ogni tentativo di usare questo strumento anche in via eccezionale era quasi sempre miseramente fallito.

*Dal saggio di Antonio Foccillo ed Enzo Russo: “La politica dei redditi nel rapporto tra sindacato e programmazione”. Quaderno n. 5 della Fondazione Brodolini: “Programmazione, cultura economica e metodo di governo”, a cura di Enzo Russo, 2015, pp.167-175

**Segretario confederale della Uil

***Economista

 

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