Referendum, il Pd annaspa nella palude dei paradossi

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-di ANTONIO MAGLIE-

Il Pd ai tempi del referendum è un crocevia di paradossi, personali e politici. Cominciamo dai primi. Massimo D’Alema si è schierato apertamente contro la riforma costituzionale varata dal parlamento italiano. Lo ha fatto per invidia? Perché mosso da inarginabile odio nei confronti di Matteo Renzi? Perché non gli è stata data la poltrona che invece è stata assegnata a Federica Mogherini? Lo fa semplicemente perché non è convinto delle soluzioni adottate? Tutto è possibile. Ma ciò non toglie che si tratti di una posizione politica, condivisa da altre persone e poco importa che siano una minoranza o una maggioranza. Anzi la democrazia ha come sua principale missione la tutela delle prime e non l’accondiscendente esaltazione dello strapotere delle seconde che solitamente fanno da anticamera a esperimenti piuttosto pericolosi. In virtù di tutto ciò, il presidente del Consiglio lo ha eletto, nella sua campagna referendaria, a “nemico pubblico numero uno”.

Nelle stesse ore in cui D’Alema lanciava i suoi strali contro la riforma costituzionale, il presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, si abbandonava a dichiarazioni da “bullo” contro il Movimento 5 stelle e alcuni suoi esponenti di punta, distribuendo collettivi auguri di morte. Nei commenti del presidente del consiglio, che pure dovrebbe mostrare grande attenzione e sensibilità nei confronti delle pubbliche manifestazioni dei compagni di partito chiamati a coprire cariche istituzionali, non si è notata la medesima indignazione (o irritazione) che pervadeva quelle contro D’Alema. Anzi non si è notata alcuna forma di indignazione. Eppure nelle manifestazioni oratorie del “lider Maximo” è individuabile una posizione politica per quanto condivisibile o non condivisibile, in quelle del “lider minimo” di Ruvo del Monte, al contrario, non se ne scorge traccia.

Ma se dal personale passiamo al collettivo, i paradossi sono ancora più eclatanti. Il leader della minoranza, Roberto Speranza, commentando le dichiarazioni di Renzi a proposito di una rivisitazione della legge elettorale meglio nota come Italicum, ha affermato che non vi sono novità aggiungendo che al momento il suo voto al referendum è “no”. E qui, seppur per interposte persone, gli elettori, in particolare quelli del Pd, possono essere colti da crisi di identità o, nel migliore dei casi, da temporanee vertigini. Come è possibile che parlamentari che hanno votato a favore del testo presentato alle Camere adesso si smarchino e votino contro (anche contro se stessi, evidentemente)? Un mutamento di atteggiamento, per quanto ispirato da fondate perplessità di merito, che segnala una sorta di impazzimento di una politica in cui può valere tutto e il contrario di tutto, a giorni alterni e senza particolari preavvisi.

Matteo Renzi, a sua volta, ha sostenuto anche ultimamente a Catania che il referendum costituzionale non può essere il congresso del Pd dopo averlo, almeno inizialmente, presentato come il congresso del paese sul suo futuro e sul suo governo. Nella forma parole sagge. Per esserlo anche nella sostanza, però, dovrebbero partire da una premessa: in materia istituzionale come sui temi etici va accettata e preservata la libertà di coscienza (i parlamentari avrebbero dovuto utilizzarla in aula, gli elettori, invece, in aula non erano presenti). Chi decide di votare “no”, così come chi decide di votare “sì”, dovrebbe farlo per un autonomo convincimento personale, non perché è a favore della “palude” o contrario alla “palude”, perché vuole rubare all’Italia il futuro o, al contrario, vuole regalarglielo. Questi sono argomenti da comizi e da comizianti, roba buona, appunto, per congressi o normali happening elettorali. In questo caso, invece, sarebbe consigliabile un più elevato livello di serietà. E anche di sobrietà, qualità ormai scomparsa nelle brume di una politica “coccodè”, senza né capo né coda.

Valentina Bombardieri

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