-di ANTONIO MAGLIE-
Quando il primo aereo andò a infilarsi nella facciata di vetro e cemento di una delle due Torri Gemelle erano le 8,48; alle 10,28, alla fine dell’attacco, gli Stati Uniti e il mondo si ritrovarono a piangere 2.977 vittime innocenti (a cui vanno aggiunti i 19 dirottatori-attentatori-suicidi che innocenti sicuramente non erano). Era l’11 settembre di quindici anni fa e nulla da allora sembra essere cambiato. Anzi, la nostra vita quotidiana appare condizionata dalla perenne insicurezza. Dall’equilibrio del terrore nucleare siamo passati allo squilibrio del terrorismo jihadista. Combattiamo una guerra contro un nemico per molti versi invisibile. Non conosciamo nemmeno il campo di battaglia perché può essere ovunque, anche sotto casa nostra, in una fermata della metropolitana, in un ristorante del centro, in uno stadio. Nessuno immaginava che quei quattro aerei diretti in California decollati dall’aeroporto Logan di Boston, dal Washington Dulles di Dulles e da Newark avrebbero continuato la loro corsa ben oltre le Torre Gemelli abbattute, sin dentro le nostre consolidate certezze, deformando i nostri stati d’animo, condizionando anche le nostre convinzioni, alimentando processi politici dagli esisti sconosciuti, imprevedibili, largamente preoccupanti.
La storia ha già provveduto a bocciare senza appello i leader che in quel contesto fortemente emotivo decisero di dare una risposta convenzionale a una situazione che convenzionale non era e che probabilmente andava affrontata in altra maniera: nessuno rimpiange George W. Bush, nemmeno negli Stati Uniti, lo ha capito anche il fratello che si è ritirato immediatamente dalla corsa per la nomination repubblicana essendosi reso conto che il suo cognome era ormai un fardello imbarazzante; è uscito di scena con disonore Tony Blair condannato da una indagine parlamentare per le bugie con le quali convinse il suo paese a imbarcarsi nell’avventura della guerra in Iraq; nel suo piccolo, è scomparso anche Silvio Berlusconi che tradito dai sogni di gloria non si preoccupò di dare sostegno alle scelte del suo “amico” George W.
L’allora presidente statunitense aveva annunciato una lunga guerra ma nessuno poteva immaginare che quindici anni dopo sarebbe stata ancora in corso, complicata ulteriormente dall’apertura di nuovi fronti. Quella in Afghanistan non è mai terminata nonostante 6.500 soldati della coalizione morti, 68 mila talebani uccisi o catturati e 140-340 mila vittime tra i civili. La pace è ancora una chimera anche in Iraq, dopo oltre 13 mila morti fra gli eserciti della coalizione e 10.800 nell’esercito di Saddam; dopo 14 mila insorti uccisi e 104-223 mila civili ammazzati. Ai fronti aperti da Bush (e mai chiusi) si è aggiunto più recentemente quel vero e proprio nido di vipere che è la Siria. Lì tutti dicono di combattere contro l’Isis ma in realtà poi ognuno è preoccupato di vincere la propria guerra, da Putin, ad Assad, a Erdogan che appare più interessato a far fuori i curdi, agli occidentali perennemente incerti e divisi. Sino ad ora la guerra ha prodotto oltre sette milioni e mezzo di sfollati e almeno quattro milioni di rifugiati. Poi ci sono le vittime: duecentomila, secondo l’Onu, 471 mila secondo Schr. E un altro fronte si è aperto anche in Nigeria dove l’insurrezione (e gli attentati) di Boko Haram hanno prodotto, secondo Le Monde, ventisettemila morti negli ultimi dieci anni.
Il tutto mentre le nostre strade sono state trasformate prima da Al Qaeda e poi dall’Isis in un campo di battaglia: 191 morti nella stazione di Atocha a Madrid l’11 marzo 2004; 56 morti a Londra negli attacchi del 7 luglio 2005; e poi i venti di Charlie Hebdo e dell’Hypercacher a Parigi, la tragica replica del 13 novembre dello scorso anno allo stadio Saint Denis e al Bataclan; l’attacco all’aeroporto di Bruxelles con 35 morti. Ora, dopo questa lunghissima teoria di lutti, ci rendiamo conto che le guerre non sono servite a nulla, che i talebani sono tornati a controllare ampie zone dell’Afghanistan e se non si sono riappropriati totalmente del potere è semplicemente perché le truppe dell’alleanza occidentale sono ancora lì, ben oltre le scadenze originariamente fissate. Ora Trump annuncia che riporterà la pace usando la forza, in pratica una variazione della teoria di Bush della democrazia esportata sulla bocca dei cannoni. Se le premesse sono queste, allora prepariamoci ad altri quindici anni di “guerra impalpabile”.
Il mondo che aveva imparato a godere di una pace carica di tensione attraverso il confronto tra le due superpotenze, dimostra di non riuscire a trovare il modo per restituire un equilibrio accettabile a un pianeta frammentato, diviso e devastato dagli appetiti di potenza di troppi improvvisati e irresponsabili protagonisti, a cominciare dalla Corea del Nord che fa test nucleari. Quindici anni dopo la guerra non è finita: il guaio è che sembra essere appena cominciata. Il lascito peggiore di leadership malaccorte che per combattere un nemico hanno finito per crearne una decina, che non avendo un campo di battaglia definito hanno deciso di costruirne quattro, cinque. La democrazia non siamo riusciti a esportarla; in compenso abbiamo importato l’insicurezza.