Referendum: Napolitano tra torti e ragioni

image.jpeg

-di ANTONIO MAGLIE-

L’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha rilasciato una intervista a “la Repubblica” ricca di spunti interessanti ma anche di punti criticabili. Tre gli argomenti: referendum costituzionale, legge elettorale e crisi dell’Unione Europea. A onor del vero, l’eccesso di interventismo su temi che riguardano il dibattito politico contingente da parte di una persona che ha svolto un ruolo di garanzia, cioè super partes, può sollevare qualche dubbio e qualche perplessità. In ogni caso, appare lodevole il suo tentativo di spegnere un po’ di fuochi polemici che con i conseguenti fumi stanno avvelenano il clima di un paese che avrebbe bisogno più di coesione che di divisione. Così come non gli si può certo dare torto quando afferma che la politica italiana è carente di “respiro” schiacciata com’è sulla battuta facile (e per questo superficiale) o sugli show di piazza di protagonisti abituati alla rumorosità teatrale e alla virulenza da cabaret.

Non gli si può dare torto nemmeno quando afferma: “Con quello che succede nel mondo e con quello che ha sulle spalle l’Italia è davvero surreale l’infuriare di una guerra sul referendum”. Verissimo. Ma le condizioni chi le ha create? Chi ha obbligato il Paese, in un momento in cui avrebbe dovuto concentrarsi sulle questioni economiche e sulle scelte di politica industriale, a misurarsi con il rovello istituzionale? Lui stesso può ritenersi immune da colpe e responsabilità?Qualche tempo fa Mario Monti ha spiegato che l’Europa non ci ha mai chiesto la riforma costituzionale. Infatti, chiedeva altro tipo di riforme (semmai ulteriormente massacratrici del welfare) e Monti, che di Bruxelles è sempre stato un diligente portavoce, lo sa benissimo. Per spuntare le armi del “fronte del no”, Napolitano, poi, afferma di non credere “alla formula del combinato disposto, all’effetto perverso congiunto che scatterebbe tra la riforma costituzionale e l’Italicum”. Però, contemporaneamente sollecita un ripensamento sulla legge elettorale, considera positiva la proposta avanzata dalla minoranza del Pd, da Speranza, e invita Renzi ad assumere sull’argomento un “atteggiamento indipendente dal pronunciamento della Corte Costituzionale”, avviando un sondaggio tra i partiti politici.
Il problema, però, è proprio il “combinato disposto”: il robusto spostamento di poteri verso l’esecutivo, l’indebolimento del Parlamento con il pateracchio prodotto dalla costruzione di un indefinibile Senato (Federale? Delle autonomie? O degli enti locali visto che ci saranno anche i sindaci?) in conseguenza dell’attribuzione di una maggioranza molto ampia alla più sostanziosa delle minoranze elettorali. È evidente che se si voleva eliminare una camera bisognava mettere a punto una legge elettorale che proteggesse maggiormente le minoranze (semmai di tipo proporzionale). Ma questo sarebbe stato possibile se la legge elettorale fosse stata figlia della riforma costituzionale. In realtà è avvenuto il contrario tanto è vero che è stata elaborata prima con riferimento soltanto alla Camera dei deputati. Napolitano è consapevole dei limiti dell’Italicum: “Si rischia di consegnare il 54 per cento dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40 per cento dei voti”. Nei numeri l’ex presidente è fin troppo largo forse perché fa riferimento ai votanti che ormai scontano un 25-30 per cento di astensionisti. Ma le valutazioni vanno fatte sul corpo elettorale. E su quello la percentuale dei due maggiori partiti (secondo i risultati delle ultime elezioni), cioè Movimento 5 stelle e Pd, oscilla intorno al 18,5 per cento. Fermo restando l’attuale tripartizione del quadro politico, l’Italicum rischia di consegnare la maggioranza assoluta e, quindi, il governo del Paese a un partito che se va bene potrà contare sul consenso di un venti per cento di italiani. Decisamente un po’ poco rispetto ai poteri molto ampi che saranno consegnati al premier.

Temere oggi, come fa Napolitano, la paralisi governativa in caso successo del “no” e, conseguentemente, di dimissioni di Renzi e del suo governo (ma poi bisogna fare i conti con l’oste, cioè con Sergio Mattarella, il nuovo inquilino del Quirinale che potrebbe essere contrario alle elezioni anticipate) è esercizio un po’ tardivo. Il dibattito ha assunto i toni della “guerra” non tanto perché Letta e Quagliariello si erano impegnati a sottoporre comunque la riforma costituzionale a referendum (passaggio in ogni caso richiesto in caso di approvazione con maggioranza semplice e non qualificata), ma perché la consultazione attraverso l’iniziativa di Palazzo Chigi ha assunto i caratteri del plebiscito, estremamente gradito nelle condizioni di due anni fa (quando Renzi trionfò alle Europee) e oggi, al contrario, molto meno affascinante.

Il premier non aveva alcun motivo per legare la sua sorte a quella di una riforma costituzionale: parliamo di regole del gioco, non di un atto di governo. L’annuncio delle dimissioni in caso di sconfitta ha accentuato i caratteri drammatici della prossima consultazione. Renzi ha giocato d’azzardo e Napolitano che ha attraversato numerose fasi storiche di questa Repubblica lo sa benissimo. Non può, infatti, aver dimenticato che la medesima scelta, esattamente trentuno anni fa, la fece Bettino Craxi a proposito del referendum sulla scala mobile. Ma quello che allora veniva proposto alla valutazione del corpo elettorale era un suo atto di governo (il decreto di San Valentino che tagliava quattro punti di contingenza nel frattempo scesi già a tre) non una riforma della carta fondamentale. Rammaricarsi, a questo punto, è inutile esercizio. E restando nella metafora bellica dell’ex presidente, la nostra politica ha finito per assumere i caratteri del conflitto siriano con i vari attori che, più dell’Isis, combattono una loro personalissima guerra.

antoniomaglie

Rispondi