-di MARCO ZEPPIERI-
Torrecuso (Benevento) 2 settembre 2016.
Un guardiano e una montagna sono i simboli che saltano agli occhi inerpicandosi per la strada che dalla Telesina porta al borgo di Torrecuso a pochi chilometri da Benevento nel parco regionale Taburno-Camposauro.
Nell’ambito della manifestazione Vinestate, in scena nel Taburno 2016 si è svolta la presentazione del libro di Giorgio Benvenuto e Claudio Marotti “Giuseppe Di Vittorio. Una storia di vita essenziale, attuale, necessaria”, Morlacchi editore, 2016, euro 15,00.
Dopo una breve presentazione del sindaco Erasmo Cutillo e dell’assessore alla cultura Alessandra Limata ha preso la parola la professoressa Mariacristina Donnarumma che con passione e partecipazione ha delineato, più dal punto di vista umano che da quello storico, la figura di Giuseppe Di Vittorio.
Siamo in una terra di contadini, di agricoltori, di coltivatori, di cafoni appunto, come venivano chiamati ai tempi di Di Vittorio, e Giorgio Benvenuto per collocare ciò ha ricordato Ignazio Silone che in Fontamara, così descrive quel mondo: “Io so bene che il nome di cafone nel linguaggio del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e di dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore”.
E ancora Ignazio Silone, ha sottolineato Benvenuto, per raccontare la realtà contadina di allora ricorda la classifica che fa Michele Zampa, anziano cafone, parlando delle condizioni del lavoro nel Fucino: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi ancora nulla. Poi vengono i cafoni”.
Ancora Benvenuto sul filo della memoria dell’infanzia ha ricordato il suo primo incontro con Di Vittorio “Terminata la guerra, nel 1945, mia madre da Messina cercò di risalire l’Italia per ricongiungersi con mio padre. Facemmo tappa a Serracapriola, in provincia di Foggia ove una mia zia, Geltrude, aveva delle proprietà terriere. Rimanemmo lì per alcuni mesi. Sostenni l’esame per essere ammesso alla quarta elementare, per regolarizzare la mia frequenza scolastica. Non avevo, infatti, potuto studiare con regolarità a causa degli eventi bellici. Ricordo che mia zia era molto conosciuta e rispettata in quel paese. Era la vedova di Antonio Gatta, il medico condotto del paese, molto amato dai suoi concittadini prevalentemente occupati nell’agricoltura. Quando feci l’esame di ammissione diretta alla quarta elementare mi ero preparato. Avevo studiato molto. L’esame fu però singolare. Mi venne fatta una sola domanda: “Sei il nipote del dottor Gatta?” Lo ammisi. Il maestro disse: “Complimenti, sei promosso”. E’ una vicenda che non dimenticherò mai. E’ stata per me una lezione di vita.
Mia zia, pur essendo una proprietaria terriera, era politicamente vicina al PCI e al PSI. Aveva uno splendido rapporto con i suoi contadini e in tutti i modi cercava di aiutare le loro famiglie. Un giorno volle portarmi ad una riunione per sentire, come diceva lei, un grande uomo. Partimmo con il calesse. Arrivammo in un paese vicino a Serracapriola, credo San Severo. Nella piazza centrale c’erano tanti contadini, tanti “cafoni” con i loro mantelli neri. Sdruciti. Consunti. Si distinguevano tra la folla alcuni cartelli con scritto in modo molto elementare “pane, lavoro, pace”. Alcuni contadini erano scalzi. I visi erano sofferenti, dolenti, invecchiati. Guardavo le loro schiene con le spalle massicce deformate dalla fatica, i colli nodosi, le mani incallite: capivo che portavano avanti la propria vita piegati dal lavoro precoce, dalle fatiche, dalle privazioni, dai sacrifici. C’erano anche le donne con i loro scialli neri e i vestiti lunghi.
C’era su di un palco arrangiato un uomo robusto che parlava. La sua voce era calda, viva, tonante, forte. Si esprimeva con semplicità e con efficacia. La sua oratoria era impetuosa, diretta, convincente. Le sue parole erano dotate di una potente carica magnetica.
Rimasi affascinato. Mi colpì quella piazza nella quale le bandiera rosse spezzavano l’uniformità del nero dei mantelli e, garrendo al vento, esprimevano una grande idea di forza.
Mia zia mi disse che quell’oratore era Giuseppe Di Vittorio, un contadino che era evaso dal mondo dell’ignoranza, che si batteva per il riscatto dei lavoratori”.
Erano quelli gli anni forse più belli della vita sindacale di Di Vittorio. Claudio Marotti ha ricordato cosa scrisse di Gianni Toti, direttore de “Il Lavoro”, giornale della CGIL: “Finita la guerra, nell’aprile del 1945, a bordo di una vecchia Lancia Augusta, partimmo da Roma diretti a Torino. A bordo c’era lui, Anita la moglie, Antonio l’autista di Cerignola ed io.[…] Attraversammo mezza penisola. […] Dovunque la guerra era ancora presente con la sua forza distruttrice e disgregatrice, con le sue miserie e le sue macerie. A volte c’era una gran folla ad attenderci, a volte nessuno. Ma sempre e dovunque (badate non esagero ed ho limpidissimo il ricordo di quei giorni) appena Di Vittorio rivolgeva qualche frase al primo incontrato, appena riuniva una ventina di persone, […] appena parlava alla folla in una grande piazza, la guerra era alle spalle, diventava un ricordo e si leggeva nei volti di tutti la fiducia nell’avvenire, la coscienza dei propri diritti e, soprattutto, l’accettazione dei propri doveri. Durante quel viaggio Di Vittorio tenne giornalmente dieci, venti comizi e riunioni. Andava a dormire alle due di notte e alle sei era in piedi. Mi chiamava all’alba per farsi intervistare […] per preparare dichiarazioni, per stendere articoli. […] Dopo ogni tappa di quel viaggio, la grande Confederazione Generale del Lavoro diventava realmente più grande, più unitaria e più forte. […] Dopo ogni tappa sorgevano nuove leghe, si fondavano nuovi sindacati, cominciavano a funzionare altre Camere del Lavoro. Ricordo un comizio tenuto verso mezzanotte a Empoli, ai vetrai, in un capannone diroccato, illuminato dai bagliori dei forni. Ricordo la grande folla di Prato, […] il discorso tenuto in un vecchio edificio bombardato di Bologna, gremito di operai e braccianti. Quella vorrei dire fu la stagione più bella della vita di Giuseppe Di Vittorio, perché passando nella sua patria ritrovata da paese a paese, da città a città, egli vedeva crescere e irrobustirsi lo strumento, la creatura che avrebbe contribuito a rendere giustizia a milioni di fratelli suoi, diseredati e oppressi. […] A Torino, nella Camera del Lavoro, parlò agli operai della Fiat, della Lancia, della Olivetti (che portavano ancora al collo i rossi fazzoletti di partigiani) della funzione dirigente che essi stavano per assumere nella vita italiana. Parlava con quel suo caro, inconfondibile accento da terrone e negli occhi di ognuno si leggeva la consapevolezza della conquistata vera unità italiana sognata da Gramsci”.
“Di Vittorio – ha ricordato ancora Marotti – aveva compiuto un lungo e faticoso viaggio. Sono convinto che non si sarebbe fermato ancora nonostante qualche segno di cedimento fisico e le tante amarezze di quegli ultimi anni della sua vita, come abbiamo visto in precedenza. Noi, il nostro Paese, abbiamo oggi tutto questo. È il suo messaggio e non è necessario inventarci percorsi, basta seguire le sue tracce. L’ultimo viaggio, benché non stesse proprio bene (aveva avuto un infarto verso la fine del 1955, secondo quando riferiva Luciano Lama), lo volle fare a Lecco per inaugurare la nuova sede della Camera del Lavoro. Nel suo ultimo discorso fece un accorato appello all’unità sindacale. La mattina del 3 novembre del 1957 morì pronunciando queste ultime parole: lottate insieme, rimanete uniti. Di Vittorio – dice Marotti – conclude la sua vita così come l’aveva sempre vissuta: per migliorare le condizioni di tanti uomini e di tante donne, per rifare il Paese”.
Una montagna, un baluardo, un guardiano in difesa dei diritti dei lavoratori, dei cafoni, questo fu Giuseppe Di Vittorio e questi aggettivi sono i simboli di caratterizzano queste terre.
La presentazione è avvenuta nel castello, ora sede dell’amministrazione comunale, costruito dai Longobardi a difesa e guardia della città di Benevento, capitale del Ducato Longobardo del Centro-Sud. Il colle a Nord di Benevento su cui fu edificato questo castello, da probabilmente origine anche al nome di Torrecuso. Torrecuso cioè viene da “Torus” o “Toronis” che significa altura o colle, rispondente alla situazione del paese; da “Torus” fino a Torrecuso
Torrecuso è situato nel parco regionale Taburno-Camposauro. Secondo alcune ipotesi il nome del monte Taburno deriva dal termine osco teba o taba (“montagna”), dal quale derivano anche altri nomi di montagne della zona e la radice “burnus”, che si ritrova nel toponimo “Alburno”, montagna che dà il nome ai monti Alburni, nel Cilento (Sa).
Un guardiano e una montagna simboli che ritornano quando il luogo e l’uomo si uniscono in un’unica simbiosi.
Ha concluso ancora con Benvenuto: “Di Vittorio è entrato nel mito, oltre che nella storia, del movimento contadino e operaio del nostro paese e il mito è qualcosa di profondamente diverso da quella sorta d’illusione storica che facilita la semplificazione, se non il travisamento, che spesso rende quasi inaccessibili le biografie di uomini la cui grandezza è indiscussa. Il mito, in questo caso, è rievocazione dell’umano, della semplicità e della straordinarietà di un dirigente che ha vissuto sul crinale di una contraddizione oggettiva del movimento operaio e contadino della sua epoca e della sua stessa organizzazione, la CGIL unitaria, una contraddizione fra unità e autonomia, tra socialismo e libertà, una contraddizione che definirei una e duplice.”
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