-di ANTONIO MAGLIE-
Era una sorta di “eroe del pallone”, “l’eroe dei due mondi” turco con le scarpette bullonate. Se quattordici anni fa, dopo la conquista della medaglia di bronzo ai Mondiali in Corea del Sud e Giappone qualcuno avesse proposto l’edificazione in suo onore se non di una statua equestre, di una statua pedestre, probabilmente i migliori scultori del paese avrebbero fatto a gara per realizzarla. Adesso, invece, se dovesse tornare in patria e se la sua patria, nel frattempo, dovesse ripristinare la pena di morte, l’unico “monumento” a cui potrebbe aspirare è il patibolo. Hakan Sukur ancor più di Napoleone è caduto nella polvere: contro di lui, secondo una notizia diffusa dalla Reuters, è stato spiccato un mandato di arresto. Per Recep Tayyip Erdogan l’idolo delle folle, l’uomo che con le diverse rappresentative del Paese ha segnato la bellezza di sessanta gol (cinquantuno solo con quella maggiore, primato imbattuto) e con quella del Galatasaray, la squadra più famosa della Turchia, ben 228, che detiene ancora il titolo di goleador più veloce del Mondiale (contro la Corea del Sud nel 2002), altro non è che un terrorista legato a Fethullah Gulen. Terrorista figlio di terrorista visto che il padre, Sermet, è stato già arrestato venerdì scorso nella provincia di Sakarya, nord del paese.
Lo abbiamo conosciuto anche in Italia, Sukur. Tre maglie e la miseria di nove reti. Lo ingaggiò il Torino ma dopo cinque partite e un solo gol comunicò che aveva nostalgia di Istanbul. Cinque anni dopo, alla fine di un ottimo Europeo con la maglia della nazionale, Massimo Moratti provvide a farlo ritornare in Italia. Ma si intristì anche a Milano vestendo la maglia dell’Inter. Provò a ritrovare un po’ di entusiasmo con quella del Parma all’epoca ancora (per poco) di Calisto Tanzi. In patria, però, era una specie di semidio, utile anche a fini politici e così l’Akp lo trasferì quasi senza soluzione di continuità dalle panche degli spogliatoi agli scranni parlamentari. Era il 2011. L’idillio con Erdogan, però, durò poco perché nel 2013, in seguito allo scandalo (la Tangentopoli del Bosforo, come è stata chiamata e per la quale in Italia è inquisito il figlio del premier) che tirava in ballo direttamente il leader del partito, si dimise aderendo al movimento di Gulen.
Evidentemente conosceva il rischio di questa scelta e così vincendo la nostalgia di casa (quella che lo aveva indotto ad abbandonare anticipatamente il Torino), volò direttamente negli Stati Uniti, in California, con tutta la famiglia. L’ex “stella” del Galatasaray adesso fa parte di una lista di 350 persone che Erdogan insegue nei quattro angoli del mondo e contro i quali promette di far scattare i rigori della sua severissima giustizia. Qualche tempo fa era finito nel mirino dei magistrati turchi anche per un commento in rete che Erdogan aveva ritenuto offensivo. In attesa di metterlo in galera, Erdogan ha messo sotto chiave tutti i sui beni (oltre a quelli del padre, di Gulen e di tre collaboratori dell’Imam dissidente). Vittima della caducità del destino, Sukur si guarderà bene dal rimettere piede in patria dove le stesse folle che lo osannavano ora potrebbero condannarlo con giudizio popolare e sommario alla pena capitale. Per il medesimo motivo, in fondo, hanno evitato di rientrare ad Ankara trentadue diplomatici richiamati da Erdogan. D’altro canto questa chilometrica notte dei lunghi coltelli sembra ancora lontana dalla fine.