-di ANTONIO MAGLIE-
Tra canti, balli e sventolio di bandiere i giochi olimpici di Rio de Janeiro (i trentunesimi dell’era moderna) stanno per partire. Accompagnati dalle solite paure legate al terrorismo internazionale, alle non nuove prodotte da una società ad elevato tasso di violenza incrementato da una crisi, economica, politica e sociale, che ha fatto fare un notevole balzo all’indietro al Brasile, dagli allarmi sulla qualità (e forse anche sulla solidità) delle strutture. Poi, con il trascorrere dei giorni riemergerà un vecchio e mai risolto dibattito: che fine ha fatto lo spirito olimpico? In realtà, la domanda potrebbe, anzi dovrebbe essere più radicale: è mai esistito lo spirito olimpico nei modi in cui ci sono stati tramandati soprattutto a partire dalla “riesumazione” dei giochi voluta alla fine dell’Ottocento da de Coubertin? Nessun desiderio di smitizzare un avvenimento che suscita grande interesse e, in qualcuno, anche passione. Ma forse è opportuno sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni che ci fanno accostare all’avvenimento in maniera un po’ retorica finendo per non farcelo vivere e apprezzare (o disprezzare) per quello che è: un evento planetario spettacolare innestato su uno sfondo, diciamo anche una scenografia, sportiva.
Perché, poi, la strumentalizzazione del famoso spirito comincia dal principio, da de Coubertin, appunto. Facendole ripartire dalla Grecia, in uno stadio ai piedi del Partenone ancora architettonicamente molto bello, sembrò sottolineare il rapporto tra le nuove e le antiche Olimpiadi. In realtà, non era a quell’idea di sport che faceva riferimento. Per una di quelle coincidenze esemplificative, de Coubertin nei giorni di quei primi Giochi (e anche alla vigilia) fissò il suo quartier generale in un albergo tuttora esistente affacciato su piazza Syntagma: il Grande Bretagne. Ecco, l’idea di sport che il nostro eroe aveva faceva riferimento all’impostazione ludico-educativa anglosassone, cioè nulla a che vedere con lo spirito primigenio. Nella antica Grecia i giochi e quindi anche le Olimpiadi, avevano un carattere sacro, avevano cioè a che fare con la religione. Quelli che si svolgevano a Olimpia (in un periodo collocabile tra la mietitura e la vendemmia) erano dedicati a Zeus. Poi avevano anche una funzione pratica: preparare alla guerra gli uomini più vigorosi e ardimentosi.
La diversità dello “spirito” è ancora più chiara se si parte da una frase attribuita a de Coubertin, spesso citata, direttamente o indirettamente (lo ha fatto anche in questi giorni Matteo Renzi) che, però, ha un difetto: in realtà il diretto interessato non l’ha mai pronunciata. L’inventore delle Olimpiadi moderne non era così ingenuo da pensare che l’importante nello sport fosse partecipare e non vincere. La sua idea era un po’ diversa. E si legava ancora una volta alla visione anglosassone dello sport: la vittoria doveva essere la conseguenza di un combattimento leale. Insomma, bisognava lottare sino all’ultimo, con tutte le proprie forze ma lealmente. Non a caso de Coubertin si batté perché il mondo delle scommesse (esisteva già all’epoca) non inquinasse l’universo olimpico. I greci erano su un’altra lunghezza d’onda. A loro la lealtà interessava molto meno, chi partecipava lo faceva per vincere e per diversi motivi: perché si garantivano la certezza del futuro visto che le città riconoscevano dei generosi vitalizi; perché un successo era un trampolino di lancio formidabile per una brillante carriera, soprattutto politica.
De Coubertin, a sua volta, si è impegnato per fornire una interpretazione errata di alcuni fenomeni che si accompagnavano alle Olimpiadi a cominciare dalla famosa “tregua”, ora olimpica un tempo “sacra”. Quando il Cio è stato obbligato per via dei conflitti europei a sospendere i Giochi, immediatamente si sono levate voci che parlavano di violazione dello spirito. Ma in realtà le Olimpiadi non fermavano le guerre nemmeno in Grecia. L’Ekecheria garantiva una tregua, un mesetto prima e un mesetto dopo, per consentire ai pellegrini di raggiungere il luogo in cui si svolgevano i giochi e per tornare poi indenni alle proprie case. Potremmo parlare di un “corridoio umanitario” ante-litteram.
Semmai la coincidenza riguarda proprio un aspetto che si tende a negare, soprattutto da parte di quei dirigenti del Cio prodighi di retorica celebrativa, cioè l’uso politico dei Giochi. Avveniva, seppur in forme e modi diversi, anche nell’antichità. Ma ci sono pure altri luoghi comuni più prossimi a noi da cancellare. Gli atleti olimpici sono stati per troppo tempo visti come dei “dilettanti” che si battevano per il riconoscimento morale espresso da una medaglietta appesa al collo. Ovviamente non è vero. È vero, semmai, che ci sono discipline di cui non si parla per anni e che nei giorni dei giochi si guadagnano una visibilità che altrimenti non avrebbero. Quando chi scrive fu invitato a raccontare da Atlanta le “emozioni” del badminton incontrò qualche difficoltà a recuperarne una decente nel proprio animo giornalistico. Poi ci sono discipline che a noi appaiono sconosciute e che invece in altri posti sono straordinariamente popolari. Quando i Giochi si svolgono negli Usa davanti al palazzetto che ospitava il pattinaggio si formava una fila di appassionati anche solo per assistere agli allenamenti; una finale storica di hockey su ghiaccio tra Stati Uniti e Urss ha ispirato un famoso film americano.
Ma anche chi fa il tiro al piattello è un professionista avendo alle spalle sponsor che lo gratificano nelle giornate che intercorrono tra una Olimpiade e un’altra. Poi ci sono le garanzie offerte dai gruppi sportivi normalmente militari. Negli Stati Uniti c’è la corsa da parte delle università ad accaparrarsi il giovane atleta che vincerà anche per nome e per conto di quell’ateneo, cosa che si accompagna a notori privilegi in campo scolastico. Quindi ci sono i premi: la famosa “medaglietta” agli atleti italiani che la conquisteranno porterà in dote 150 mila euro lordi; ai tedeschi molto meno: ventimila. Quando poi si entra nel campo delle discipline di primo piano, a cominciare dall’Atletica, le cose assumono caratteri economici ancora più evidenti. “People with Money” ha valutato che tra luglio 2015 e luglio 2016 Usain Bolt, l’uomo attualmente più veloce del mondo, ha incassato qualcosa come 58 milioni di dollari. La medaglietta che eventualmente vincerà produrrà solo un ulteriore effetto moltiplicatore.
Il fatto è che le Olimpiadi sono allo stesso tempo una fabbrica di soldi e una idrovora di soldi. E, d’altro canto, ci deve essere pure un motivo se il Cio, la Fifa e la Uefa hanno deciso di prendere casa in Svizzera. Il motore dell’affare sono i diritti televisivi schizzati dai 636,1 milioni di dollari dei giochi di Barcellona (1992) ai 2,6 miliardi di Londra (vent’anni dopo). I diritti sono diventati così esosi da aver cambiato anche regole considerate in qualche maniera in rapporto al famoso “spirito”. Prima, quando costavano poco, il Cio preferiva che la trasmissione fosse affidata a una sola emittente per ogni nazione; adesso bisogna, come si dice in gergo, “spacchettare” e i padroni del vapore sono i tycoon alla Rupert Murdoch che lavorano sul versante delle tv a pagamento. È un processo che a ritmi più accelerati ha riguardato il calcio: oggi ci sono partite del Mondiale e dell’Europeo che vanno in chiaro sia sulle emittenti non criptate che su quelle criptate, mentre viene garantito un pacchetto di esclusive (solo criptate) per i “clienti” che pagano di più. E questa è una deriva inevitabile agli attuali prezzi.
Ma le Olimpiadi sono anche una idrovora di soldi. E qui torna in ballo la questione politica, il desiderio dei governi di esibire in mondovisione la propria potenza di fuoco (soprattutto quando ne hanno poca). Una spinta che è anche alla base di quei casi di doping generalizzato (doping di stato) di cui si è molto parlato in questi giorni a proposito della Russia ma non è che se ne sia parlato meno a proposito della vecchia e ormai inesistente Ddr o della Cina (ma sia chiaro: forme di doping esistevano anche nell’antichità, certo meno evolute, così come la corruzione a Olimpia veniva a volte utilizzata per raggiungere la vittoria). Per organizzare grandi avvenimenti si spende molto, tanto è vero che il prossimo Europeo di calcio avrà la forma di uno “spezzatino”: si disputerà in più nazioni. Ma pur di esibire il marchio dei “cinque cerchi” si fa tutto. La Grecia, ad esempio, lo ha fatto. Ha cominciato in sede di assegnazione distribuendo, si dice, “generosi regali” ad alcuni tra coloro che votavano. Le spese le fece Roma che fu anche oggetto di un “boicottaggio” interno: alcuni dei membri italiani votanti e influenti per garantire a Torino quelle invernali non si dannarono troppo l’anima nella difesa della candidatura della Capitale, insomma, assecondarono una sorta di “scambio politico”. Bisogna dire che, visto come sono andate le cose in Grecia, in fondo possiamo anche essere soddisfatti: le Olimpiadi di Atene con un costo che si è aggirato intorno ai 15 miliardi vengono considerate una della cause (forse non la principale) del sostanziale default del paese.
Se questo è, allora godiamocele (chi lo desidera) per quel che sono: un gradevole spettacolo al pari di un bel film, di una grande rappresentazione teatrale, di un varietà musicale particolarmente riuscito. Evitando di attribuire o di cercare spiriti retoricamente abusati e che in realtà non esistono più. Se mai sono esistiti.