-di ANTONIO MAGLIE-
Fra quattro giorni, venerdì 5 agosto, a Rio de Janeiro si apriranno i giochi della trentunesima Olimpiade dell’era moderna. Accompagnate da mille polemiche sullo stato delle strutture e da altrettante paure per i rischi legati al terrorismo internazionale. Il 1° agosto di ottanta anni fa, però, si aprirono i Giochi che diedero l’impressione ad alcuni leader democratici che l’Europa e il Mondo potessero confidare ancora in un futuro se non di pace, di accettabile convivenza. Come dice lo storico Gian Enrico Rusconi: l’ultimo inganno nazista perché pochi anni dopo saremmo ripiombati nella seconda, ancora più terribile, guerra Mondiale.
Le Olimpiadi di Berlino, quelle inaugurate da Hitler, con centomila persone che sui gradoni dello stadio progettato dall’architetto del regime, Albert Speer, accolsero le ultime parole del Fuhrer con il classico grido ritmato tedesco dell’epoca, “Heil Hitler”, appaiono oggi profondamente dentro quella tragica deriva che trasformò il continente in un grande mattatoio. Furono, infatti, i primi Giochi a intenso sfruttamento politico aprendo una strada che poi sarà più o meno seguita da tutti nel dopoguerra: dovevano fornire l’immagine di una Germania potente, proiettata nel futuro, unita dietro il proprio leader e addirittura ospitale. Per raggiungere questo obiettivo il Fuhrer le fece gestire direttamente al capo della propaganda, Joseph Goebbels, e affidò a Leni Riefenstahl l’incarico di realizzare un film che ancora oggi viene considerato uno dei capolavori della cinematografia dedicata allo sport: “Olympia”. Furono anche i primi Giochi ad alta intensità tecnologica con le telecamere della televisione che trasmisero alcune gare e punti di ascolto pubblici visto che lo strumento che riceveva quelle immagini non era ancora diventato l’elettrodomestico più amato nel mondo.
Ironia della sorte, nella nazione dai fortissimi e irrimediabili impulsi razzisti, conquistò quattro medaglie un atleta americano nero: Jesse Owens. Vinse nei 100, nel salto in lungo, nei duecento e nella staffetta 4 per cento. Si è molto discusso sul modo in cui Hitler accettò questa supremazia sportiva nei Giochi che dovevano santificare il predominio della “razza ariana”, piani che in definitiva vennero realizzati visto che la squadra tedesca si piazzò al primo posto nel medagliere con 33 ori, superando i possenti Stati Uniti che ne conquistarono ventiquattro (l’Italia occupò con 8 successi il quarto posto; la vittoria più famosa, quella di Ondina Valla negli 80 metri a ostacoli: primo oro italiano al femminile). Si è sempre detto che non volle premiarlo e che evitò di stringergli la mano. In realtà, uno scambio di saluti vi fu e Owens, semmai, lo sgarbo lo ricevette da Franklin Delano Roosevelt che per evitare polemiche preferì non riceverlo alla Casa Bianca. La sua corsa trionfale nei cento metri venne ripresa dalla Riefenstahl con un impiego massiccio di telecamere: ben otto, una dedicata alla moviola.
Per proiettare nel mondo l’immagine di un paese forte e, allo stesso tempo, rassicurante (quasi) i tedeschi non badarono a spese. Le Olimpiadi erano state assegnate alla Germania quando ancora era guidata da un governo democratico. In particolare furono i socialdemocratici a volerle perché lo sport, nella loro visione ideologica, rappresentava una espressione di grande cultura popolare. Hitler, al contrario, inizialmente non era molto convinto. Ma provvide Goebbels a convertirlo facendogli capire che quella manifestazione poteva tornare utile alla causa. Il fatto che tra l’assegnazione e la celebrazione il regime fosse cambiato, creò in numerosi paesi grandi imbarazzi. Negli Stati Uniti, dove era forte la comunità ebraica, si sviluppò un combattivo movimento favorevole al boicottaggio. Lo stesso Roosevelt lo sosteneva. Ma alla fine fu mandato in Germania a verificare la situazione un ultraconservatore con tendenze razziste che poi sarebbe diventato anche presidente del Comitato Olimpico Internazionale (Cio): Avery Brundage. Sarebbe stato lui a convincere i tedeschi a “smacchiare” un po’ la connotazione razzista della manifestazione, insomma a suggerire l’adozione di qualche “foglia di fico”.
E benché alla fine la squadra tedesca fosse quasi completamente ariana, un piccolo “schermo” venne adottato: Helena Mayer, fiorettista che salì sul podio e saluto con il braccio teso esibendo anche un certo trasporto. Brundage al ritornò negli Usa scrisse una relazione decisamente rassicurante. Alla fine solo due nazioni non parteciparono: l’Unione Sovietica e la Spagna che organizzò le olimpiadi popolari che, però, non si svolsero perché scoppiò la guerra civile (e anche a quella il Fuhrer partecipava, insieme a Mussolini).
E così da un lato ci fu la manifestazione, sportva dall’altro la narrazione propagandistica calata all’interno di una scenografia ricchissima. A quest’ultima si dedicò Speer progettando lo stadio olimpico berlinese, quello in cui settant’anni dopo, ancorché ristrutturato, l’Italia del calcio avrebbe vinto il quarto titolo mondiale. Speer, uomo organico al regime, sarebbe diventato un esponente di primo piano del governo assumendo la carica di ministro degli armamenti, estremamente efficiente visto che sotto di lui, nel ’44, la Germania riuscì a produrre il maggior numero di carri armati. Per raggiungere i suoi successi produttivi non si preoccupava di utilizzare la manodopera a costo zero garantita dai prigionieri dei campi di concentramento. Quando fu chiamato a rispondere di questo, si giustificò dicendo che non sapeva cosa avvenisse in quei luoghi. Riconoscendo, comunque, le sue responsabilità, se la cavò con una condanna a venti anni di carcere.
Nessuna punizione toccò, invece, a Leni Riefenstahl che riuscì ad uscire indenne da quattro processi. Toccò a lei dare corpo a una teoria che Goebbels sintetizzava in poche parole: “La propaganda è un atto creativo”. In realtà tra Goebbels e l’ex ballerina (molto bella ma significativamente soprannominata “la donna di ghiaccio”) i rapporti non erano affettuosi. In una puntata della bella trasmissione della Rai “il tempo e la storia”, Rusconi li ha illustrati parlando di stima da parte di Goebbels nei confronti della donna a cui, però, si aggiungeva una certa invidia a causa dei suoi rapporti diretti con il Fuhrer. Seppur girato in diretta, il suo film (come dice Rusconi, “Olympia non è un documentario ma è l’estetica dei Giochi”) fu decisamente costruito. Per la prima volta la fiamma olimpica arrivò da Atene per sottolineare il rapporto tra la Germania e la Grecia antica, quella delle grandi immagini mitologiche. La Riefenstahl provò e riprovò in maniera ossessiva l’ingresso della fiaccola nello stadio. A molti atleti chiese di ripetere per lei il gesto tecnico che avrebbero realizzato in gara (un supplemento di lavoro a cui, ad esempio, si sottopose un giavellottista americano che poi ha interpretato Tarzan al cinema).
Della donna il Fuhrer aveva una fiducia cieca anche perché aveva già servito la “causa” in maniera ineccepibile costruendo un film sul raduno nazista di Norimberga nel 1934; titolo (scelto personalmente da Hitler): “Il trionfo della volontà”. Per montare “Olympia”, la Riefenstahl impiegò due anni. Un lavoro certosino ma coronato da successo perché l’opera venne acclamata all’estero e per l’ultima volta il regime riuscì a offrire una immagine diversa da quella feroce che aveva già svelato e che avrebbe esaltato trascinando il mondo in una guerra sanguinosa e nella follia omicida della “soluzione finale”. I giochi di Berlino terminarono il 16 agosto con il presidente del comitato olimpico internazionale che esprimeva gratitudine al Fuhrer: chissà se qualche anno dopo Henri de Baillet-Latour avrà maledetto quelle frasi a dir poco incaute.