È in corso una rivoluzione demografica che può cambiare il corso della storia. E se Thomas Piketty nel suo libro più famoso e di successo, “il capitale nel XXI secolo”, sottolinea come il Pil sia il prodotto di due fattori, uno squisitamente economico e l’altro demografico nel senso che il Prodotto Interno Lordo fatica a crescere in quelle società in cui la popolazione non cresce (non a caso il nostro boom economico è stato accompagnato dal “baby boom), Ugo Intini, giornalista, parlamentare per quattro legislature, portavoce del Psi, sottosegretario e vice-ministro degli esteri, analizza un altro aspetto complesso della questione: l’inversione della piramide dell’età che condiziona oggettivamente l’evoluzione del nostro Paese, suscitando interrogativi che ancora non hanno trovato risposta. Intini ha sviluppato la sua analisi e l’ha sintetizzata in un libro dal titolo significativo: “Lotta di classi tra giovani e vecchi”. Perché sembra essere proprio questa la conseguenza immediata dell’inversione della piramide: una lotta non più di classe ma fra classi, con la temuta e temibile conseguenza della rottura del patto generazionele, cioè con lo smantellamento dell’architrave della coesione sociale stessa. Un libro complesso per il tema e per le questioni che pone degne, evidentemente, di un grande dibattito politico perché è su questo tema che si gioca gran parte del futuro del nostro Paese. Ecco perché domani, 27 luglio, sulle questioni proposte da Intini si confronteranno il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, il sociologo Giuseppe De Rita, il presidente della Fondazione Nenni, Giorgio Benvenuto, e l’autore del volume. A coordinare il dibattito che si svolgerà presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani a partire dalle 17,30 provvederà Stefano Folli, editorialista de “la Repubblica” ed ex direttore del “Corriere della Sera”. Il tema, di straordinaria attualità, merita l’attenzione di tutti noi perché tutti noi siamo coinvolti, chi in qualità di giovane e chi in qualità di anziano. Ecco perché abbiamo pensato di proporvi la prefazione al libro di Intini firmata da Giuseppe De Rita.
“PUO’ SALVARCI LA TRADIZIONE GUELFA”
-di GIUSEPPE DE RITA*-
L’antica amicizia che vige fra noi ha probabilmente negato ad Ugo Intini la lucidità necessaria per capire che non ero la persona più adatta a presentare questo libro, tutto centrato (anche emotivamente) sulla radicale rivoluzione innescata in Italia dallo straordinario processo di invecchiamento della popolazione, una rivoluzione che si centra nel declino irreversibile di ogni realtà (la società, la famiglia, l’azienda) in cui viene meno la vitalità giovanile e si afferma la prudenza dell’anziano.
Io onestamente dovrei entrarci poco: sono un vecchio ormai, più che un adulto (vado per gli 84…); ho una famiglia di vecchio stampo patriarcale, di 8 figli e 14 nipoti; ho una professionalità nata adulta e che tale rimarrà (sessanta anni di ricerca sociale); nel mio lavoro nell’approfondire il tema dell’invecchiamento ho anche trovato stimoli per una sua interpretazione positiva ed ottimistica di quel che si chiama “longevità attiva”; ed infine ho in passato avuto anche la ventura di scrivere la postfazione al De Senectute di Cicerone nella splendida traduzione di Gavino Manca per Scheiwiller. Al libro cioè cui Intini dedica sostanzialmente tutto il secondo capitolo di questo libro, per sottolineare quanto siamo lontani dal compiaciuto elogio ciceroniano della vecchiaia.
Tutto quindi avrebbe dovuto indurre autore ed editore a trovarsi un prefatore diverso da me. Ed invece eccomi qui a misurarmi con un saggio complesso, se si guarda alla qualità dei dati e dei riferimenti in esso contenuti e al tempo stesso radicale, solo se si avverte quanto sia convinto Intini della irreversibilità dell’invecchiamento. Ed alla fine l’impegno non mi dispiace, perché mi obbliga a ripercorrere un tema che avevo già trattato anni fa e che richiede assolutamente di essere “rivisto” in una prospettiva più lunga, decifrando le sue componenti più sottili, quelle che attengono alla cultura individuale e collettiva di una società tutta particolare quale è l’Italia.
In effetti un lettore di cultura non italiana si stupirà che il capitolo che fa da pilone fondante del volume (il n.2) ruoti tutto su Cicerone e il suo De Senectute. Ci vedo non soltanto il riflesso condizionato dell’ancoraggio alle radici più profonde della nostra cultura, ma anche la ricerca dei motivi che per migliaia di anni hanno reso “il vecchio” un soggetto centrale (e datore di senso) della comunità. Possono essere motivi retorici, simbolici ed ironici, di difesa categoriale, di polemica antigiovanilistica (“le nazioni più potenti sono state rovinate dai giovani, mentre sono state tenute in vita e rimesse in sesto dai vecchi”). Ma Cicerone ha qualcosa di più del retore ed ecco una frase che ha superato e supera i secoli perché è e sarà sempre attuale: per vivere bene la vecchiaia, la condizione essenziale è quella di “tenere lo spirito desto come un arco teso”. So bene che tanti vecchi di oggi non riescono a godere di tale condizione, ma ciascuno di noi commenterebbe tale frase con un “amen” sia pure sottovoce.
Ma la lucidità con cui Intini ha scritto questo libro vuole che si lasci quanto prima la aiuola arabica dei riferimenti ciceroniani e che si affrontino con coraggio gli aspetti più problematici, spesso drammatici, dell’esplosivo processo di invecchiamento riassumibile in uni solo dei tanti citati nel volume. La piramide delle età si è drasticamente capovolta negli ultimi 150 anni: nel 1862 gli anziani erano il 4,2 % della popolazione italiana, oggi sono il 21,7%; mentre i ragazzi con meno di 15 anni che erano il 34,2% della popolazione, ne rappresentano ora solo il 13,8%. C’è stata una totale inversione del peso delle diverse classi di età, una massa sempre più grande di anziani sovrasta un numero sempre più esile di giovani.
Ed è questa la condizione radicalmente mutata che impone un ripensamento di tutta la coscienza della collettività, specialmente in Italia. Perché è ben vero che il processo di invecchiamento è comune a quasi tutte le nazioni, ma dobbiamo sempre tenere in memoria che tale processo ha le sue punte di crescita in Giappone, in Italia, in parte in Germani. Si tratta delle nazioni che hanno perso l’ultima guerra mondiale, che dopo un dopoguerra tutto teso a “rientrare nel giuoco” hanno via via ridotto il proprio sistema di relazioni, rendendosi estranee alla moltiplicazione delle varianti (economiche, politiche, culturali, religiose) che sta caratterizzando l’attuale situazione mondiale. Colpa del loro invecchiamento, direbbe Intini; io sono propenso a pensare a un deficit più complesso, ad un calo del desiderio di potere, se si tiene conto che sistema altrettanto vecchi, politicamente, culturalmente e religiosamente (dalla Russia putiniana a crescente legittimazione ortodossa alla Cina a costante radicamento confuciano) dimostrano oggi un dinamismo che può essere spiegato solo dalla volontà di potere. E portata avanti non da giovanissimi rivoluzionari, ma da ristrette oligarchie, da “società strette” direbbe Leopardi. Ma è verosimilmente una mia valutazione personale forse limitata rispetto all’approccio globale seguito da Intini, che peraltro ha il vantaggio non secondario di poter trattare anche dell’Africa, il grande enigma del prossimo futuro.
Resta comunque chiaro, leggendo il volume, che sia la realtà italiana quella che più soffre l’inversione della piramide dell’età: sia perché tale inversione è stata così rapida da non permettere una adeguata maturazione di risposte culturali e di andamenti antropologici; sia perché anche il più grande processo di sviluppo che la storia italiana ricordi (quello avvenuto dal 1950 al 1990) non ha contrastato, anzi ha accentuato la inversione della piramide; sia perché neppure il flusso degli immigrati ha compensato l’inversione stessa, anzi, per le sue caratteristiche qualitative, rischia di renderla ancor più ampliata e difficile da gestire.
L’attenzione di Intini a questo punto si fa più vigile e scatta in lui la tentazione di usare la sua cultura politica ai fini di una lettura non fatalistica al fenomeno; e di mettere problemi e tensioni sotto la categoria del conflitto di classe, forse addirittura della lotta di classi, vedendo nella oggettiva contrapposizione fra interessi e comportamenti delle diverse classi di età una specifica “lotta di classi”. Per chi, come me, non si è mai infiammato alla secolare enfasi sulla “lotta di classe”, è difficile farsi coinvolgere da una improbabile variazione al plurale in “lotta di classi”. E mi limito a pensare che il carattere molecolare e policentrico del nostro sistema socioeconomico abbia creato un continuum antropologico che non consente divaricazioni nette, e conflittuali, fra i diversi segmenti e i diversi gruppi sociali.
Ma lascio al lettore la risposta sulla possibilità o meno di usare il temine “lotta di classi” per focalizzare gli effetti della inversione della piramide di età. Ritengo più opportuno andare nel concreto, cioè sull’analisi di come il rapporto tra le diverse classi di età (più o meno conflittuali o di ambigua continuità) si realizza nei tre grandi campi in cui si concentra l’attenzione di Intini: quello del lavoro, quello delle pensioni, quello della dialettica politica. Sono capitoli scritti con suprema chiarezza, il che per molti versi indurrebbe all’inutilità che ci si ritorni sopra in una nota di prefazione. Si può soltanto mettere in evidenza la determinazione a mettere in fila (ed illuminare adeguatamente) i temi centrali, e a non cadere negli abituali luoghi comuni.
Così quando affronta i temi del lavoro, Intini ricorda inevitabilmente i grandi temi della disoccupazione giovanile e del pensionamento anticipato; ma si confronta anche con fenomeni più “sottili” e problematici, tipo il peso che nella contrapposizione di interessi fra giovani e anziani hanno le variabili di livello di istruzione, di scelta fra materie scientifiche e altro; di “rendimento” del lavoro di marketing (i giovani per i target giovanili, i vecchi per quelli più contenuti); di relativa elasticità del lavoro autonomo rispetto al tradizionale lavoro dipendente. Contrapposizioni ce ne sono ma a mio avviso non si rischia l’esplicito conflitto e la “lotta” come era facile capitasse nei precedenti assetti del mondo del lavoro.
La stessa tensione a focalizzare i problemi la si ritrova nella trattazione di potenziali conflitti fra vecchi e giovani in materia previdenziale. Qui diritti e doveri non sono legati alla relazione di mercato fra persone e ruoli professionali ma da regole pubbliche e sulle regole pubbliche si può fare pressione, si può fare politica, si può fare conflitto di interessi esportando nella politica quelle istanze che il mercato non riesce a coprire. Ma spostare i bisogni previdenziali nella sfera politica non sempre corrisponde alla espressione e soddisfazione degli interessi, solo che si pensi quanta ambiguità regni nei diversi “privilegi”, alle sterminate furbizie individuali, categoriali, aziendali che si sono scaricate negli ultimi decenni sul nostro sistema previdenziale. Intini esprime un po’ di rimpianto per il modo in cui negli anni recenti è stata smantellata la riforma Brodolini che aveva stabilito un patto con i lavoratori che garantiva la pensione da rapporto con la vita e con il reddito da lavoro; uno smantellamento che si va attuando attraverso una azione congiunta di innalzamento dell’età pensionabile e di riduzione delle pensioni. Scelta che può essere giustificata dalla “fame di soldi” del governo che, nei fatti, si attua attraverso la strisciante colpevolizzazione dei pensionati, che rischia di “rompere il patto generazionale che da un secolo e più regge il rapporto tra giovani e vecchi”. In altre parole, se è vero che, in tema di pensioni, “la lotta di classe assume i toni più duri”, è anche vero che essa si esprime non fra le classi ma fra Stato e lavoratori, fra esigenze politiche e attese dei cittadini; è un conflitto triangolare, dove alla fin fine il tema è intestato alla politica e alla sua responsabilità collettiva e di sistema.
E qui entriamo nel terzo dei campi, dissestati dall’invecchiamento, il campo della politica. Leggendo gli ultimi due capitoli del libro, si avverte subito che la preoccupazione che l’autore avverte in modo speciale è oggi quella di gestire un tema nuovo ed inaspettato (quello dell’inversione della piramide delle età) con una visione politica altrettanto nuova. Ma per farlo, per tale visione bisogna macinare tanti stimoli di rottura rispetto ad un Paese che è invecchiato anche culturalmente, si potrebbe dire antropologicamente.
Intini lo sa e dedica pagine e pagine a spiegare quanto la collettività abbia atteggiamenti e comportamenti da vecchi. Siamo un Paese che consuma poco; dove il cavallo non beve; dove si compra poco; dove i negozi chiudono e si moltiplicano i mercatini di roba antica o vecchia; dove le aziende investono poco per rintanarsi nelle prudenze familiari, dove sono diventati vecchi la letteratura, il cinema, gli stessi amori musicali; dove i programmi televisivi di successo datano all’inizio addirittura dell’altro secolo; dove i quotidiani risultano sempre più estranei alle nuove generazioni; dove i protagonisti dei media sono sempre gli stessi; dove gli stessi giardini e parchi non risuonano più di schiamazzi dei bambini ma ospitano silenziose panchine di anziani; dove addirittura le pubblicità non propagandano più prodotti avveniristici ma prodotti (anche cosmetici magari) per il pubblico anziano. Non c’è bisogno di ricerche demografiche ed attuariali per prendere atto che siamo invecchiati di brutto, se è vero che le stesse barzellette non hanno più circolazione (“ed infatti le racconta solo Berlusconi, che viene da altri tempi” scrive sarcastico l’autore).
Ma in un Paese così vecchio è possibile pensare ad una visione politica orientata al futuro?
Intini sa bene che ad una tale domanda non si può rispondere lanciandosi in avanti, con piglio giornalistico e con la coazione ad un qualunque cambiamento: ha vissuto, anzi patito, troppe istanze di nuovismo, di passaggi “epocali”, di rivoluzioni annunciate, di seconde e terze repubbliche, di scelte sempre lì lì per arrivare, di discontinuità più promesse che messe in atto. E si pone quindi, alla fine del suo percorso, in un atteggiamento prudente, quasi cercando di collegare la necessaria evoluzione della politica alla psicologia del momento, si rende conto cioè che oggi (sia colpa o no dell’invecchiamento) la società esprime la sua domanda politica in due parole: sicurezza collettiva e certezze valoriali.
Io, da cattolico e patriarca, mi orienterei a una politica guelfa (stabile comunità locale con copertura religiosa più o meno interiorizzata) ma temo che l’anima laica di Intini non mi seguirebbe, anche se ci rendiamo conto che a livello internazionale alcune grandi potenze (la Cina, totalitaria e confuciana, la Russia putiniana e ortodossa) sono incamminate sulla strada della “collaborazione” fra sicurezza collettiva e certezze religiose.
Sono altri mondi, anche lontani dalle tradizioni politiche e religiose italiane. Ma vale la pena di pensarci su con un minimo di serietà: la tradizione “guelfa” è nella storia di questo Paese, avendo innervato buona parte del nostro Medioevo, dall’epopea dei liberi comuni (sempre coperti, da Bonifacio VIII in poi, dal potere pontificio) fino al formarsi delle grandi signorie rinascimentali anche se poi la nascita dello stato nazionale è stata caratterizzata dal contrasto con la Chiesa e da una cultura laicista, quasi ghibellina.
Il tempo è passato ed ha portato conseguenze radicali, nella società come nella politica. E chiunque faccia oggi vita pubblica se che è difficile, quasi impossibile, ritornare a “pensare guelfo”, anche perché la stessa Chiesa ha incorporato una buona dose di laicità (è difficile ad esempio vedere in papa Francesco un nuovo Bonifacio VIII). C’è però un unico spunto ancora aperto, dato dal bisogno che tutti abbiamo di coniugare sicurezza quotidiana e certezze emotive (e spirituali) all’interno di una antica e nuova vigoria della vita e della dimensione locale.
Solo su questa potenziale piattaforma comunitaria credo sia possibile da un lato sfuggire alle paure che vengono globalizzate (dal terrorismo come dalla finanza internazionale) e dall’altro provvedere al deficit di identità storica e religiosa che dobbiamo riscontrare nel declino della grande cultura illuminista. Se il recupero di un po’ di guelfismo potesse procedere sulla attenzione alle faglie di insicurezza e di incertezze dell’attuale cultura occidentale, varrebbe la pena di tentare. Avrebbe almeno più dignità di tutti i maldestri tentativi di concentrare in un rozzo populismo le paure e i risentimenti di un popolo che diventando informe moltitudine.
Sarà, spero e temo, un recupero affidato alla generazione che ci segue; ma sono grato a questo libro di avermi dato modo di ritornare alle mie tentazioni guelfe. In fondo, da vecchio posso anche avere il coraggio di pensare che il futuro possa avere un cuore antico. E libero dalle regressioni umane che Intini ha ben indicato e commentato nelle pagine che seguono.
*Prefazione al libro di Ugo Intini: “La lotta di classi tra giovani e Vecchi”, Edizioni Ponte Sisto, 2016, pagg. 158, euro 12,00