Boeri: pensioni, stato sociale, come cambiare

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-di TITO BOERI*-

Dietro alle spinte centrifughe che oggi sembrano mettere in discussione la sopravvivenza stessa dell’Unione Europea c’è una tensione latente fra domanda di protezione sociale e immigrazione. Da una parte, anni di crisi e una crescente vulnerabilità ai cambiamenti tecnologici e alla globalizzazione di vasti strati della popolazione alimentano la domanda di protezione. Dall’altra, si teme che i massicci flussi migratori in atto possano minare le fondamenta del welfare state. La paura che la libera circolazione del lavoro nell’ambito dell’Unione Europea si potesse tradurre in turismo sociale, in welfare shopping, ha giocato un ruolo rilevante nel referendum sulla Brexit. In molti paesi dell’Unione Europea, soprattutto in quelli con uno stato sociale più generoso, vi sono partiti che capitalizzano su questi timori descrivendo tutti gli immigrati, siano questi comunitari o extra-comunitari, come vere e proprie “spugne dello stato sociale”. Non c’è evidenza che questo avvenga. In Italia, ad esempio, gli immigrati versano ogni anno 8 miliardi di contributi sociali e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi. Certo, a fronte di questi contributi netti vi saranno un domani prestazioni: gli immigrati di oggi faranno parte dei pensionati di domani. Ma è anche vero che in molti casi i contributi previdenziali degli immigrati non si traducono poi in pensioni. Abbiamo calcolato che sin qui gli immigrati ci abbiano “regalato” circa un punto di PIL di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni. E ogni anno questi contributi a fondo perduto degli immigrati valgono circa 300 milioni di euro. Sono ben altre le categorie che ricevono di più, spesso molto di più di quanto hanno versato al nostro sistema di protezione sociale. Lo documentano la sezione “A Porte Aperte” del nostro sito e le nostre audizioni parlamentari sui vitalizi per cariche elettive.

Chiudersi al resto dell’Europa, chiudere le proprie frontiere è la risposta sbagliata a queste tensioni. Le vere minacce alla protezione sociale vengono proprio da chi vuole impedire la libera circolazione dei lavoratori. Chi si sposta e trova lavoro altrove rende il finanziamento dello stato sociale meno oneroso perché non rende necessari i trasferimenti destinati a chi perde il lavoro. La possibilità di cambiare paese rappresenta la migliore assicurazione contro il rischio di non trovare lavoro per molti giovani europei. Non è un caso che i giovani abbiano votato massicciamente per far rimanere la Gran Bretagna nell’Unione. Il vero e proprio esodo di giovani italiani intervenuto negli ultimi 6 anni è stato contestuale alla forte crescita della disoccupazione giovanile. La mobilità del lavoro favorisce anche la crescita soprattutto nei paesi che ricevono gli immigrati, rendendo più facile finanziare lo stato sociale.

Ma le preoccupazioni di molti nostri concittadini, soprattutto quelli meno mobili e più a rischio di perdere il lavoro, non possono essere ignorate. E non bisogna negare che l’Unione Europea sin qui non si è data strumenti adeguati per monitorare la mobilità dei lavoratori all’interno delle sue frontiere. Non si è coordinata tra amministrazioni dello stato sociale per prevenire potenziali abusi, con persone, ad esempio, che ricevono i sussidi di disoccupazione in un paese e lavorano in un altro. Per questo motivo l’Inps ha proposto alle sue istituzioni partner in Europa di istituire un codice di protezione sociale che valga per tutti i paesi dell’Unione Europea. Questo European Social Security Identification Number (ESSIN) dovrebbe permettere la piena portabilità dei diritti sociali tra paesi e un migliore monitoraggio dei flussi migratori all’interno dell’Unione, impedendo il welfare shopping. Il principio deve essere quello che, in caso di disoccupazione o di pensionamento, ogni sistema nazionale paghi in base ai contributi sociali versati in quel paese dal richiedente. È un modo di separare la fornitura di protezione sociale dal problema dell’immigrazione. Il codice di protezione sociale può diventare anche un fattore identitario, un modo di acquisire nei fatti la cittadinanza europea, così come è stato il Social Security Number nella storia degli Stati Uniti.

Protezione sociale come libertà

Il welfare state europeo non è morto. Né appare destinato a scomparire. Ma deve essere reso più efficiente nel contrastare la povertà e nel rendere i contribuenti consapevoli del fatto che non rappresenta una tassa, ma una assicurazione sociale. La portabilità dei diritti sociali e la trasparenza sulle carriere contributive in paesi diversi resa possibile dall’ESSIN possono favorire la concorrenza fra paesi nel migliorare le proprietà del proprio sistema, rendendolo più equo e, al contempo, più leggero agli occhi dei contribuenti perché percepito come un’assicurazione contro rischi che altrimenti non troverebbero copertura nel mercato.

Un’assicurazione sociale che amplia la libertà di scelta degli individui permettendo loro di prendere dei rischi, ad esempio cercando un lavoro meglio corrispondente alle proprie competenze e aspirazioni, sapendo di poter contare su di un paracadute nel caso in cui le cose andassero male. Un’assicurazione sociale che, come una mamma, rimedia alla scarsa lungimiranza di chi non pensa a cosa farà al termine della propria vita lavorativa: i contributi obbligatori al sistema previdenziale pongono dei limiti oggi ai consumi di chi lavora per evitare la povertà o comunque un brusco ridimensionamento dei propri standard di vita quando smetterà di lavorare. Questi limiti imposti oggi ampliano la libertà di scelta di domani.

Potrebbero anche essere meno stringenti se ci fosse maggiore consapevolezza previdenziale. E più chiare a tutti le regole che presiedono al funzionamento del sistema, più facile per gli individui capire che quei contributi obbligatori non sono tasse, ma qualcosa che, più in là nel tempo, ci darà maggiore libertà di scelta. L’investimento che l’Inps ha compiuto nell’ultimo anno nell’informare i contribuenti su quanto hanno sin qui accantonato per la propria vecchiaia e su quanto potrebbero aspettarsi di ricevere dal sistema pensionistico in futuro è perciò una scelta di libertà. Spinge tutti, soprattutto i giovani, a prendere in mano il proprio futuro. Più forte la consapevolezza che operazioni come “la mia pensione” e l’invio delle cosiddette “buste arancioni” riescono ad offrire, più ampia la libertà che si può oggi accordare agli individui nello scegliere quando ritirarsi dalla vita attiva. Più informati e consapevoli i contribuenti, minori i vincoli che si dovranno imporre ai lavoratori nel metter da parte risorse per la propria vecchiaia.

Abbiamo ricevuto molte critiche per aver dato queste informazioni, soprattutto da parte di chi non ha ricevuto (e non è destinato a ricevere) le buste arancioni perché ha posizioni previdenziali che non sono gestite dall’Inps. Ci è stato detto che abbiamo creato inutili preoccupazioni alle famiglie, siamo stati tacciati di terrorismo e di aver addirittura influenzato i risultati elettorali (paradossalmente in città in cui non era ancora stata spedita alcuna busta arancione!). Queste reazioni spiegano perché ci sono voluti vent’anni per informare i cittadini sulle implicazioni di quella riforma che dalla metà degli anni ’90 ha cambiato radicalmente le regole del nostro sistema pensionistico, col passaggio dal metodo retributivo al metodo contributivo, responsabilizzando molto di più i contribuenti. Si teme di dire la verità, un atteggiamento figlio di una visione profondamente illiberale dei compiti dell’operatore pubblico. Chi ha acceduto al servizio “la mia pensione” ha, invece, espresso apprezzamento per questa nostra iniziativa, anche quando le notizie ricevute non erano del tutto gradite. Anche tra chi si aspettava di essere destinato ad avere una pensione più alta, c’è una netta maggioranza (attorno al 70%) di persone che ritiene il servizio utile o molto utile.

Questa operazione di trasparenza sarà ancora più utile alla luce delle opzioni che si prospettano all’orizzonte riguardo alla cosiddetta “uscita flessibile”. Siamo stati i primi a sottolineare l’importanza di stemperare con un intervento organico le rigidità imposte dalla riforma operata con la legge 214 del 2011 con il suo brusco innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi per percepire la prima pensione. Nel terzo capitolo del rapporto che viene oggi qui presentato offriamo ulteriori ragioni per concedere maggiore libertà agli individui in queste decisioni. La riforma del 2011 ha, infatti, creato forti disagi sociali fra i lavoratori con più di 55 anni e ha reso più difficile l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani, contribuendo ad aumentare (cosa di cui non si sentiva certo bisogno) la disoccupazione giovanile. I correttivi apportati successivamente per rimediare parzialmente a questi effetti indesiderabili della riforma (a partire dalle 7 salvaguardie sin qui varate) hanno finito per creare nuove asimmetrie di trattamento e non hanno certo risolto il problema dei giovani e della povertà nella transizione fra lavoro e pensione, mentre hanno eroso in modo significativo i veri benefici della riforma del 2011, quelli in termini di contenimento del debito pubblico.

È molto positivo che il Governo e le parti sociali siano in queste settimane al lavoro per individuare i possibili correttivi. Fin dall’inizio di questo confronto, l’Inps ha, come sempre, messo a disposizione dei processi decisionali dati, conoscenze istituzionali e amministrative e proposte normative. Ci stiamo attrezzando per meglio contribuire all’attuazione di misure che si annunciano non prive di una certa complessità. Proprio alla luce di questa complessità è fondamentale assicurare che tutti coloro che potranno un domani esercitare opzioni di uscita flessibile siano in grado di capire fino in fondo le implicazioni delle loro decisioni. Troppe volte in passato si è giocato sulla cattiva informazione di contribuenti e pensionati per attuare riforme delle pensioni. Noi ce la metteremo tutta con aggiustamenti del programma “la mia pensione” e con l’invio delle “buste arancioni” per favorire una piena consapevolezza delle implicazioni di scelte diverse quanto alla data in cui prendere la pensione o il prestito pensionistico. E ci aspettiamo altrettanta attenzione da chi, politici e soprattutto sindacati, dovrà alla fine presentare le varie opzioni ai lavoratori. Ad esempio, non si può negare che rate ventennali di ammortamento di un prestito pensionistico costituiscano una riduzione pressoché permanente della pensione futura. Né si può negare che, continuando a lavorare, il contribuente avrebbe potuto accumulare un più alto montante contributivo e, dunque, il diritto ad una pensione più alta. L’obiettivo di fondo delle riforme che vogliono introdurre flessibilità in uscita è quello di garantire maggiore libertà di scelta consapevole senza aumentare il debito pensionistico e senza creare generazioni di pensionati poveri. L’obiettivo non dovrebbe essere certo quello di spingere più persone possibile ad uscire dal mercato del lavoro.

Un rapporto diretto coi cittadini

Non è da oggi che l’INPS informa. L’informazione è nel DNA di questo istituto. L’INPS non potrà mai rinunciare a questa funzione. Il nostro acronimo forse potrebbe essere meglio declinato come Informazione sulla Protezione Sociale. Informare è quello che ci chiedono i nostri utenti principali, contribuenti, pensionati e imprese. Secondo i risultati di un’indagine effettuata su un campione di nostri utenti oltre il 90% ritiene che sia compito dell’Inps informare i contribuenti e aumentare la trasparenza del sistema previdenziale. Non vedono in noi semplicemente degli ufficiali pagatori, ma dei fornitori di servizi. Il primo di questi servizi è l’informazione sulle prestazioni sociali cui hanno diritto e sui contributi che devono versare per acquisirne il diritto. Data la complessità delle norme sul lavoro e la protezione sociale nel nostro paese — una complessità che non appare affatto destinata ad attenuarsi nonostantetanti proclami e svariati ministeri per la semplificazione – quella che ci viene richiesta è una vera e propria consulenza personalizzata. Dirò poi di come ci stiamo attrezzando, come stiamo cambiando la nostra struttura organizzativa, per meglio fornire questo servizio sul territorio. Sarà un processo che contiamo di portare a termine nel giro di due anni.

Nel frattempo abbiamo già modificato il modo con cui fornire i nostri servizi on line, la modalità prescelta da un numero crescente di utenti, abbiamo un milione e mezzo di accessi giornalieri. Nel nuovo sito che stiamo progettando, il cui prototipo è online a partire da oggi, abbiamo dato priorità a tre aspetti chiave: centralità dell’utente, personalizzazione e semplificazione del linguaggio. Fino ad oggi sul sito gli utenti erano costretti a districarsi fra gli oltre 400 servizi dell’Inps, cercando quello di loro interesse, fra l’altro senza necessariamente conoscere tutte le prestazioni a loro accessibili. Nel nuovo sito sarà invece possibile navigare sia per categoria di utente che per area tematica. Questo rende più facile e veloce trovare ciò che si cerca e scoprire tutte le prestazioni riservate a diverse tipologie di utenti. Spesso la stessa persona è dipendente e datore di lavoro al tempo stesso. Abbiamo, inoltre, creato un nuovo portale, chiamato

MyINPS, che impara a conoscere i bisogni specifici del cittadino ed è in grado di presentarli in modo personalizzato, anticipandone le esigenze. Un cambiamento importante nel nuovo sito è il linguaggio. Vogliamo che sia semplice e immediato comprendere le modalità di accesso e di richiesta dei servizi offerti. Per questo, stiamo procedendo ad una attenta riscrittura di tutti i contenuti informativi, ideando nuove soluzioni di assistenza online, utilizzando l’ipertesto e rendendo più efficace il motore di ricerca.Tutto questo ha l’obiettivo di rendere il nuovo portale un vero e proprio facilitatore della vita dell’utente: non più una giungla di informazioni in cui districarsi. Vi invitiamo tutti a visitare il prototipo (sul sito http://www.inps.it) e a farci avere vostre osservazioni.

Trasparenza e democrazia

Sono molte le informazioni che raccogliamo nell’esercizio delle nostre funzioni. Nel rispetto delle normative sulla privacy abbiamo scelto di metterle a disposizione non solo di chi decide,ma anche di chi vuole formarsi un’opinione su chi decide. I dati amministrativi servono per esercitare il controllo democratico sull’operato dei governi e delle istituzioni, a partire dallo stesso Inps. È con questo spirito che il rapporto annuale che oggi vi presentiamo non si limita a tracciare un bilancio di ciò che l’istituto ha fatto negli ultimi 12 mesi. Vuole anche offrire i nostri dati per capire cosa sta accadendo al mercato del lavoro, quale copertura assicura il nostro sistema di protezione sociale, quali sono stati gli effetti di cambiamenti introdotti nel nostro ordinamento sulle materie di pertinenza del nostro istituto. È lo stesso spirito con cui abbiamo creato nuovi osservatori, come l’Osservatorio sul Precariato, che ha permesso da maggio 2015 il monitoraggio della quota di assunzioni con contratti diversi da quelli a tempo indeterminato e della crescita dei voucher per il lavoro accessorio. Stupisce notare che alcuni tra coloro che, di professione fanno il mestiere di informare l’opinione pubblica, ci abbiano criticato per avere offerto troppe informazioni, non sempre convergenti, a loro giudizio, con quelle fornite dal nostro istituto di statistica. Sarebbe stato meglio, secondo loro, coordinarsi con l’Istat per offrire un messaggio coerente ai giornalisti, prima ancora che ai lettori, sull’andamento del nostro mercato del lavoro. Ma coerenza non significa coincidenza quando le fonti sono diverse e i dati servono per farsi un’opinione solo se sono credibili. Quanto credibili potrebbero essere dei dati che vengono resi pubblici solo quando sono coincidenti con altre fonti statistiche? Non c’è forse il rischio che, in nome della coerenza con altre fonti statistiche, un governo possa un giorno chiedere di posticipare l’uscita di un osservatorio con numeri indigesti? Peraltro i dati dell’Osservatorio sul Precariato sono stati in questi mesi fortemente coerenti con quelli dell’Istat. Le informazioni date dall’Inps hanno di fatto anticipato dinamiche poi registrate dalle Indagini sulle Forze Lavoro.

Le fonti amministrative, i dati forniti dall’Inps, sono per natura diversi dalle statistiche fornite sulla base di indagini campionarie. Sono dati che risentono di cambiamenti nelle pratiche amministrative oltre che nelle politiche: ad esempio, i dati sulla Cassa Integrazione nella prima metà del 2016 risentono dei tempi con cui i nuovi criteri per la concessione della CIGO diventano operativi e non sono dunque comparabili con le osservazioni dei mesi precedenti. Al tempo stesso, i dati di fonte amministrativa garantiscono maggiore tempestività nel monitoraggio di alcuni fenomeni, ad esempio i flussi sul mercato del lavoro, perché vengono raccolti in continuazione. Sono in grado, inoltre, di descrivere fenomeni che avvengono su scala limitata (una provincia, un settore circoscritto, un’età particolare) con maggiore accuratezza delle indagini campionarie condotte a livello nazionale, che raramente hanno la numerosità necessaria per rappresentare adeguatamente realtà limitate. Vorrei offrirvi un esempio dell’utilità delle fonti amministrative, tratto da un paragrafo del primo capitolo di questo rapporto, che rischia altrimenti di passare inosservato. Ricostruisce cosa è successo alla creazione e distruzione di posti di lavoro nelle imprese con più di 15 dipendenti durante gli anni della crisi. Ci dice che, dal 2008 al 2014 sono stati distrutti in Italia circa due milioni e mezzo di posti di lavoro (per la precisione 2.453.000), tre su quattro dei quali (1.840.000) per la chiusura di imprese che erano attive nel 2008 e il restante 25% (613.000) per riduzioni nella dimensione di imprese che hanno continuato ad essere in vita in tutto questo periodo. Al contempo sono stati creati circa 2,2 milioni di posti di lavoro (2.236.000), di cui poco più della metà (1.170.000) per via della nascita di nuove imprese e la parte restante per l’espansione di imprese che erano già attive nel 2008. Il forte turnover delle imprese negli anni della crisi ha comportato una loro maggiore concentrazione. La dimensione media delle imprese è aumentata passando da 68 a 74 addetti per impresa.

Certo, per valutare le politiche ci vogliono analisi più approfondite di queste semplici statistiche descrittive. Alcuni degli effetti che ci sembra vedere dopo una qualche riforma potrebbero essere attribuibili ad altri eventi intervenuti contestualmente. Al contempo è opportuno verificare la presenza (e la direzione) di nessi causali tra politiche e andamento di variabili (come occupazione e disoccupazione) che queste politiche si propongono di influenzare. È per questo motivo che abbiamo voluto nell’ultimo anno ampliare le capacità di utilizzare i dati raccolti dall’istituto per valutare la politica economica in Italia. Il programma VisitINPS dal gennaio di quest’anno permette a 32 ricercatori delle migliori università straniere ed italiane di interrogare a fondo i dati dell’Inps per porsi quesiti rilevanti per la valutazione delle politiche pubbliche, soprattutto quelle attinenti ai compiti istituzionali dell’Istituto. Le ricerche svolte da questi studiosi coprono un’area molto vasta che spazia dalle scelte di pensionamento, all’assistenza ai disabili, dagli effetti sui consumi e offerta di lavoro della campagna “la mia pensione” ai rapporti di lavoro nel mondo delle cooperative.

Alcuni risultati preliminari di queste ricerche sono stati utilizzati nella stesura di questo rapporto. Ad esempio, l’analisi dei blocchi sull’età di pensionamento introdotti dalla riforma 214 del 2011 sulle singole imprese ci ha permesso di identificare effetti rilevanti e negativi di quella riforma sull’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Questi rilievi serviranno, se non sono già serviti, nell’apportare i correttivi di cui si discute al tavolo fra Governo e sindacati.

Le donne della generazione di mezzo

Un buon sistema di protezione sociale permette anche una migliore condivisione dei rischi, parzialmente sgravando le famiglie di compiti che possono sempre meno assolvere, data la diminuzione della dimensione media dei nuclei famigliari. Oggi questi oneri gravano soprattutto su quella che viene spesso chiamata la generazione “sandwich” (50-65 anni) perché, come un panino, rischia di rimanere schiacciata dal morbido peso degli affetti. Da una parte i genitori anziani, spesso non più autosufficienti. Dall’altra i figli che non trovano o che perdono spesso il lavoro e che rimangono perciò a loro carico. Per non parlare dei nipoti. In un paese che ha una carenza strutturale di servizi per l’infanzia, i nonni, che sono al tempo stesso anche figli e genitori, assumono su di loro anche i compiti della cura dei nipoti per buona parte della settimana. La compressione da carichi famigliari agisce soprattutto sulle donne dato che nel nostro paese le responsabilità famigliari gravano in grandissima parte su di loro. Per molte donne non è una scelta, ma una rinuncia imposta da sanzioni sociali contro le mamme che lavorano con figli piccoli, e da un minore peso contrattuale all’interno della coppia. La crisi ha peggiorato questa situazione obbligando molte famiglie a rinunciare ad un aiuto esterno come testimoniato dal calo di colf e badanti straniere, registrato dal nostro osservatorio sul lavoro domestico. Alleggerire gli oneri che gravano sulle generazioni di mezzo significa perciò liberare tempo soprattutto per le donne. Opportuno al contempo prevedere misure volte a una ripartizione più equa degli oneri di cura famigliari a partire dalle giovani coppie, in modo tale da rafforzare cambiamenti culturali in atto. Si potrebbero, ad esempio, incentivare i congedi di paternità offrendo di estendere la durata dei congedi parentali in modo proporzionale ai giorni di congedo paterno, come avviene in Norvegia e Svezia da più di 20 anni con effetti importanti nel responsabilizzare i padri nella cura dei figli.

Nel rapporto abbiamo voluto dedicare particolare attenzione alla generazione sandwich pensando a cosa si può fare per alleggerirne i compiti. Nel primo capitolo del rapporto ci occupiamo soprattutto dei giovani, di come le riforme in atto nel nostro mercato del lavoro abbiano modificato i canali di ingresso e la stabilità degli impieghi offerti a chi ha meno di 30 anni oltre che le coperture assicurative offerte quando si perde un lavoro con brevi anzianità contributive. Nel secondo capitolo trattiamo degli anziani non più autosufficienti e delle cure di lungo periodo. Nel terzo capitolo ci occupiamo proprio di chi sta in mezzo e aspetta con ansia misure che potrebbero maggiormente alleggerire il proprio carico di lavoro, consentendo una uscita anticipata verso la pensione.

Jobs Act e Youth Act

Con il cosiddetto il Jobs Act si è davvero finalmente pensato ai giovani e al loro ingresso nel mercato del lavoro. Non c’è dubbio che il 2015 sia stato un anno di grande cambiamento nelle modalità d’ingresso dei giovani nel nostro mercato del lavoro. C’è stato un forte incremento nella quota di assunzioni con contratti a tempo indeterminato ai danni dei contratti a tempo determinato. Il numero dei contratti senza una data di scadenza è aumentato del 62%, addirittura del 76% per i giovani con meno di 30 anni. In questa fascia di età la percentuale di occupati con contratti a tempo determinato o stagionali è scesa dal 37% al 33%. Insomma, finalmente un anno positivo per il mercato del lavoro dei giovani. Ce ne vorrebbero tanti altri per riassorbire i livelli inaccettabili della disoccupazione giovanile e per capitalizzare sulla stabilizzazione, legando le assunzioni con contratti a tempo indeterminato a investimenti in formazione sul posto di lavoro, in modo da creare lavori più produttivi e meglio retribuiti.

Gli interrogativi più importanti riguardano perciò la durata di questi miglioramenti. Non vi è dubbio che l’esonero contributivo triennale abbia giocato un ruolo cruciale nel cambiare la natura delle assunzioni. Evidente, anche a occhio nudo, il forte incremento delle assunzioni con contratti a tempo indeterminato nel dicembre 2015, l’ultimo mese disponibile per fruire dell’esonero. Altrettanto evidente il calo delle assunzioni con questi contratti nei mesi immediatamente successivi. Com’era legittimo aspettarsi e come è regolarmente avvenuto,le imprese hanno preferito anticipare assunzioni previste per il 2016 nell’ultimo mese del 2015 in modo tale da poter fruire dello sgravio. Dovremmo preoccuparci se, dopo questa impennata, la riduzione delle assunzioni (o l’aumento delle cessazioni) fosse tale da riportarci al numero di contratti a tempo indeterminato precedente il 2015. Così non è, per fortuna.

Al netto del “calo fisiologico” di inizio 2016, il numero di contratti a tempo indeterminato è aumentato di più di mezzo milione nel 2015. Inoltre, a partire da marzo 2016 il saldo mese per mese di assunzioni e cessazioni in questi contratti sta ricalcando le dinamiche degli anni precedenti al 2015. I contratti a tempo indeterminato sembrano, perciò, destinati nel 2016 a stabilizzarsi su questi livelli più alti. Difficile che, dopo il grande balzo del 2015, possano crescere ulteriormente quest’anno tenendo conto della lenta ripresa della nostra economia.

Dovremmo preoccuparci, ancora, se la maggiore stabilizzazione dell’impiego conseguita da inizio 2015 fosse attribuibile solo agli incentivi fiscali, dato che questi incentivi sono destinati a ridursi se non ad esaurirsi nei prossimi anni. Nella maggiore stabilizzazione dell’impiego sembrano, in verità, avere giocato un ruolo anche le nuove norme sul lavoro, con la progressiva applicazione dei contratti a tutele crescenti a tutti i lavoratori con contratti a tempo indeterminato. Lo si vede comparando la crescita delle assunzioni con contratti a tempo indeterminato nelle imprese tra i 15 e i 19 dipendenti (per cui il contratto a tutele crescenti ha effettivamente modificato profondamente il regime dei licenziamenti) con quella intervenuta nelle imprese più piccole, per le quali le regole sui licenziamenti sono cambiate in modo del tutto marginale. La stabilizzazione è stata più accentuata nel primo tipo di imprese che nelle seconde e questa differenza è statisticamente significativa.

Si temeva che il superamento della cosiddetta “reintegra” avrebbe aumentato i licenziamenti. Non sembra essere stato così. L’incidenza dei licenziamenti nel 2015 è diminuita del 12% rispetto all’anno precedente, molto di più di quanto ci si sarebbe potuto aspettare alla luce del miglioramento del quadro congiunturale (ad esempio nel 2010 il tasso di licenziamento era diminuito del 3% rispetto al 2009, nonostante la ripresa quell’anno fosse stata più accentuata). Il contratto a tutele crescenti non è fatto per licenziare, ma per stabilizzare l’impiego, incentivando investimenti in capitale umano. Ci vorrà comunque del tempo per compiere una valutazione approfondita della riforma.

È bene tener conto che non sempre la stabilizzazione dei contratti di lavoro è accompagnata da una stabilizzazione nel tempo pieno. Come documentato nel primo capitolo di questo rapporto, 4 lavoratori su 10 assunti con contratti a tempo indeterminato hanno impieghi part-time. E una quota importante degli impieghi full-time (uno su due in Lombardia e tre su quattro in Campania), comportano meno di 312 giorni remunerati direttamente dall’impresa all’anno. Può essere un modo surrettizio per ridurre il costo del lavoro, agendo sugli orari anziché sui salari, che hanno una variabilità tra regioni e province relativamente contenuta (la retribuzione media nelle 20 province con retribuzioni più basse è attorno all’80% di quella nelle 20 province con retribuzioni più alte), nonostante i forti divari nei tassi di disoccupazione e nel valore aggiunto per lavoratore fra diverse parti del paese. Bene tenerne conto nel confronto in atto sulla riforma della contrattazione. I dati dell’Inps sulle retribuzioni possono essere molto utili per colmare molti vuoti conoscitivi sulle retribuzioni in Italia.  Non è da oggi che sottolineiamo le patologie sottese al boom dei voucher per il lavoro accessorio. Solo poco più di un voucher su dieci corrisponde a un secondo lavoro e, in non pochi casi (in 4 casi su 10), rappresenta l’unica fonte di reddito. Raramente il voucher comporta emersione di lavoro nero: se consideriamo gli uomini in età centrali, individui che nella stragrande maggioranza dei casi lavorano, troviamo pochissime persone (attorno allo 0,2% dei percettori di voucher) prive di una posizione contributiva al di fuori del voucher. Ci sono poi vere e proprie forme di cronicità nell’uso di questo strumento con un lavoratore a voucher su 6 che risulta privo di una qualsiasi posizione previdenziale. Le analisi svolte dall’Inps in collaborazione con Veneto Lavoro (la regione con maggiore utilizzo relativo dei voucher) dimostrano come i voucher siano stati utilizzati spesso con finalità molto diverse da quelle che si era posto il legislatore all’atto della loro prima introduzione, coinvolgendo una platea molto più ampia di quella inizialmente prefigurata.

Anche in questo caso, la scelta di rendere pubblici e accessibili a tutti i dati raccolti nell’esercizio delle nostre funzioni è servita ad avviare un confronto informato su questo fenomeno. Crediamo siano stati utili anche nel prendere provvedimenti, come la comunicazione preventiva della prestazione di lavoro, che hanno posto un freno alla prassi legislativa di ampliare sempre di più il raggio d’azione dei voucher. Vedremo nei prossimi mesi quanto la tracciabilità sia efficace nel riportare l’utilizzo dei voucher nell’alveo inizialmente considerato dal legislatore e coerente con misure analoghe prese in altri paesi europei (come i titres de service in Belgio e Francia). In caso contrario, occorrerà valutare l’opportunità di circoscrivere l’utilizzo dei voucher a prestazioni e settori in cui è maggiormente diffuso il lavoro nero.

Il 2015 è stato anche l’anno di entrata a regime della NASPI. Più di un milione e mezzo di persone hanno fruito di questo trattamento che vuole semplificare e unificare i sussidi di disoccupazione fra diverse categorie di lavoratori. Il principio è semplice: per ogni mese di contributi si ha diritto a mezzo mese di prestazioni in caso di perdita del posto di lavoro fino a un massimo di due anni. Il passaggio da ASPI a NASPI ha allungato la durata massima delle prestazioni dei sussidi di disoccupazione di quasi due mesi in media per chi ha perso il lavoro negli ultimi due anni. Spiace notare come vi siano ancora dei lavoratori – come quelli del settore agricolo – che sono trattati diversamente dagli altri. Non ci devono essere disparità nel sostegno offerto a lavoratori cheperdono il lavoro, quale che sia il settore in cui operano o la dimensione delle imprese da cui provengono. Per lo stesso motivo viene da chiedersi se la riforma dei trattamenti in costanza di rapporto di lavoro sia stata lasciata a metà. Come documentiamo, solo circa il 45% dei lavoratori è coperto dalla Cassa Integrazione. Il decollo dei fondi di solidarietà è di una insostenibile lentezza e i trattamenti che questi riservano ai lavoratori sono molto diversi da categoria a categoria. Non sarebbe questo necessariamente un problema se i fondi di solidarietà dessero luogo a prestazioni integrative, ma in non pochi casi si tratta di prestazioni esclusive, dell’unico tipo di prestazioni in costanza di rapporto di lavoro.

Quando la famiglia non basta

Nei prossimi 60 anni il numero di persone con più di 80 anni è destinato a triplicarsi. Le generazioni maggiormente a rischio di non autosufficienza passeranno da un quinto a un terzo della popolazione italiana. Non è pensabile rispondere a una domanda crescente di assistenza di lungo periodo basandosi pressoché interamente sul contributo delle famiglie delle persone non autosufficienti, sia in termini di cura informale dei familiari che di assunzione di assistenti familiari. Come documentato nel secondo capitolo del nostro rapporto, il numero di caregiver famigliari dovrebbe triplicarsi per mantenere gli stessi carichi di sostegno famigliare alle persone non autosufficienti. Ma le famiglie diventano più piccole, ci sono sempre meno figli per genitore anziano che possano condividere tra di loro gli oneri di questa assistenza, e più anziani, soprattutto donne, che vivono da sole senza poter contare sull’aiuto del loro consorte. Bene perciò prepararsi sin d’ora a questi cambiamenti.

C’è bisogno di una maggiore mutualizzazione del rischio di non autosufficienza tra famiglie (anzichè solo all’interno di ciascuna famiglia) in Italia e anche di una maggiore condivisione dell’assistenza in quanto tale, con servizi (anziché solo prestazioni monetarie) forniti a gruppi di persone che hanno bisogno di cure di lungo periodo. Questo può portare a un ampliamento del grado di copertura dell’assistenza pubblica, che oggi, secondo le nostre stime, non raggiunge più del 45% delle persone non autosufficienti, senza necessariamente richiedere maggiori risorse.

La bassa copertura degli interventi pubblici per la Long-term care in Italia riguarda anche l’ammontare delle prestazioni. I 512,34 euro erogati per 12 mensilità con le indennità di accompagnamento, il principale programma pubblico di assistenza alle persone non autosufficienti, non bastano per coprire costi di cura che sono generalmente molto più alti alla luce della gravità e continuità dei bisogni assistenziali. Bene perciò riflettere circa l’opportunità di graduare l’entità delle indennità di accompagnamento in base al grado di bisogno assistenziale e alle condizioni economiche delle famiglie. L’obiettivo deve essere quello di fornire un aiuto più consistente a chi ne ha maggiormente bisogno. Un’operazione di questo tipo può essere in parte rilevante finanziata razionalizzando l’accesso ad altre prestazioni che oggi non sempre vengono concesse a chi ne ha davvero bisogno.

Come documentiamo nel rapporto, vi sono fondate ragioni per pensare che i permessi retribuiti della 104 vengano allocati senza sempre verificare se questi permessi vengono utilizzati davvero per assistere persone con disabilità gravi. Troppo alta l’incidenza dei permessi retribuiti nel pubblico impiego rispetto al settore privato (fino a 6 giorni pro-capite all’anno nel pubblico impiego rispetto a un giorno e mezzo nel settore privato secondo le nostre stime). Troppo forte la variabilità tra settori della PA, non sempre spiegata dalla struttura per età e genere dei lavoratori. La 104, peraltro, non ha costi irrisori, come talvolta si ritiene: includendo nel calcolo le prestazioni di lavoro non rese ma retribuite nel pubblico impiego, questa misura costa più di 3 miliardi di euro all’anno. Controlli oggettivi sull’utilizzo di questi permessi sono tanto più necessari e giustificati quanto più si punti su un’assistenza pubblica di qualità piuttosto che affidarsi unicamente sulle cure informali delle famiglie.

Un’altra fonte di sprechi è legata alla complessità degli accertamenti delle condizioni di disabilità. Mantenere un doppio accertamento, prima da parte delle ASL, poi da parte dell’Inps, allunga i tempi di erogazione delle prestazioni e rende più difficile garantire uniformità su tutto il territorio nazionale nel verificare le condizioni di accesso. Oggi vi sono differenze molto marcate tra province nell’incidenza delle indennità di accompagnamento anche quando si tenga conto della struttura per età della popolazione e della pressione epidemiologica. Nelle regioni e province in cui è stato chiesto all’Inps di accentrare su di sé l’intero processo di accertamento, si sono dimezzati i tempi in attesa dell’esito della valutazione, risparmiando risorse pubbliche altrimenti assorbite dalla duplicazione delle commissioni mediche. L’unificazione del processo valutativo tende anche a ridurre il contenzioso, che spesso trae spunto da giudizi diversi a monte e a valle del processo.

Anche riducendo gli sprechi e migliorando la capacità di raggiungere chi ha maggiormente bisogno di assistenza, la spesa per la cosiddetta Long-term care è destinata a crescere nei prossimi decenni, perché aumenteranno le persone a rischio di non autosufficienza e i costi nell’offrire servizi socio-sanitari di qualità. Soprattutto in un contesto in cui si potessero gradualmente ridurre i contributi previdenziali obbligatori, potrebbe essere opportuno introdurre una contribuzione obbligatoria come assicurazione contro il rischio di non-autosufficienza. Se estesa ai pensionati, questa contribuzione potrebbe essere relativamente contenuta. Ad esempio, potrebbe essere dell’ordine dello 0,35% del salario come quella oggi utilizzata nel pubblico impiego per finanziare,inter alia programmi di assistenza domiciliate come l’Home Care Premium.

L’uscita flessibile

Una maggiore libertà di scelta delle persone riguardo a quando percepire la prima pensione può anch’essa contribuire ad alleggerire il peso che oggi grava sulla “generazione sandwich”, agendo su di un doppio versante.

Da una parte, l’uscita flessibile e sostenibile dal mercato del lavoro può permettere a molte persone che volgono verso la fine della loro carriera lavorativa di dedicare più tempo alla loro famiglia. Dall’altro l’uscita flessibile può facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani rendendoli indipendenti prima. Nel capitolo terzo del rapporto documentiamo le conseguenze del brusco innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi per andare  in pensione imposto sul finire del 2011 dalla legge 214. Secondo le nostre stime, questa riforma attuata nel mezzo di una pesante crisi finanziaria potrebbe avere ridotto in modo consistente le opportunità di impiego per i giovani perché imprese con vincoli di liquidità  si sono trovate di colpo a dover trattenere lavoratori che erano in procinto di ritirarsi dalla vita attiva, dunque spesso demotivati. Le conseguenze sull’occupazione giovanile di queste mancate uscite sono ancora più evidenti nel pubblico impiego.

I correttivi sin qui apportati per stemperare le conseguenze di questo blocco, a partire dalle 7 salvaguardie, appaiono molto costosi e inadeguati. Le salvaguardie hanno eroso fino a un sesto dei risparmi conseguiti dalla riforma del 2011 e questo senza contare gli alti costi amministrativi di queste misure sia a livello centrale che sul territorio. Stimiamo che queste operazioni abbiamo assorbito 181 posizioni a tempo pieno per un anno, distogliendo il personale dell’istituto da altre attività, con un costo ombra di quasi 34 milioni di euro. Pur essendo state introdotte per affrontare situazioni di emergenza sociale, le salvaguardie non tengono conto del livello di reddito delle famiglie dei beneficiari. Una pensione salvaguardata su 8 vale più di 3.000 euro al mese.

Sarebbe perciò paradossale che il confronto in atto fra Governo e sindacati sulla flessibilità in uscita si concludesse ancora una volta con interventi estemporanei e parziali. Nello studiare i correttivi bene valutare i costi amministrativi in rapporto al numero di beneficiari.

Ad esempio, sin qui il part-time agevolato introdotto con l’ultima legge di stabilità (poco più di 100 beneficiari nel primo mese) è destinato ad avere costi amministrativi superiori alle somme erogate. Nel valutare i costi di riforme che introducano in modo organico ed equo maggiore libertà di scelta quanto alla data in cui percepire la prima pensione opportuno poi tenere conto del fatto che gli individui reagiscono agli incentivi. Quando ritardare la pensione comporta un aumento nel livello della pensione, non tutti gli aventi diritti decidono di percepire la pensione prima possibile. Come documentato nel capitolo 3, il cosiddetto “take-up” è stato inferiore al 20 % nel caso dell’opzione donna, anche difronte al brusco innalzamento dell’età pensionabile imposto dalla riforma del 2011. Le pur modeste penalizzazioni introdotte nel 2011 per chi va in pensione prima dei 62 anni di età hanno parimenti comportato una maggiore gradualità nei pensionamenti. Bene perciò che si discuta di uscita flessibile definendo opzioni che siano al contempo chiare a chi dovrà scegliere e neutrali rispetto al debito pensionistico.

Incoraggiante notare come anche la necessità di abolire l’istituto delle ricongiunzioni onerose si sia imposta al centro del confronto pubblico. Per tornare a crescere, il nostro paese ha bisogno di promuovere un migliore incontro fra domanda e offerta di competenze.

Per questo non può permettersi di penalizzare chi vuole ricostruire i diritti pensionistici accumulati in gestione previdenziali diverse.

Il nuovo modello di servizio

Fornire protezione sociale significa fornire servizi. L’Inps è oggi il principale fornitore pubblico di servizi ai cittadini. È a loro che abbiamo pensato nel riformare la macchina, nel renderla maggiormente orientata a utenti con domande sempre più complesse.

Nella nostra operazione di trasparenza abbiamo voluto dare risalto al bilancio gestionale dell’Inps, oltre che alle misure di natura strettamente assistenziale. La macchina Inps costa poco in rapporto alle somme intermediate dall’istituto, anche in comparazione con altri istituti di sicurezza sociale presenti a livello europeo. Circa l’1 per cento del bilancio dell’istituto serve a coprire le spese gestionali. In termini assoluti, il costo della macchina Inps è di 3,6 miliardi, di cui circa la metà spese di personale e l’altra metà acquisti di beni e servizi.

Questa macchina contribuisce ogni anno circa un punto di pil alla riduzione del debito pubblico mediante il contrasto dell’evasione ed elusione contributiva e il controllo sulla permanenza dei diritti alle prestazioni sociali. Ogni euro speso per la macchina Inps genera così quattro euro, tra minori spese per prestazioni ed entrate aggiuntive, di trasferimenti alle casse dello Stato.

Si danno molte notizie allarmistiche sul bilancio dell’Inps. Bene, dunque, mettere i puntini sulle “i”.

Primo, l’Inps opera per conto dello Stato. Le sue prestazioni verranno comunque erogate, perché garantite da leggi dello Stato. Quello che conta per lavoratori, pensionati e imprese è, in altre parole, il bilancio consolidato dello Stato italiano, non il bilancio dell’Inps.

Secondo, le stime del disavanzo e del debito pubblico dell’Italia incorporano già i trasferimenti che saranno richiesti per ripianare i disavanzi dell’Inps.

Terzo, il saldo annuale di bilancio dell’INPS riflette i trasferimenti dal bilancio dello Stato, alcuni dei quali sono effettuati a consuntivo. Stiamo lavorando con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per riordinare e rendere più tempestivi i trasferimenti dal bilancio dello Stato. Analogamente stiamo lavorando per procedere a compensazioni di debiti e crediti dell’Istituto verso lo Stato così da migliorare anche le rappresentazioni del nostro stato patrimoniale.

Dopo il varo dell’ispettorato nazionale del lavoro – che auspichiamo venga reso operativo al più presto perché non possiamo permetterci di indebolire minimamente la macchina dei controlli – l’istituto ha voluto fortemente investire sulla cosiddetta “vigilanza documentale”, basata sull’incrocio di banche dati nella lotta all’evasione ed elusione contributiva. I risultati di questa attività sono molto incoraggianti: nel biennio 2014-2015, grazie all’attività di vigilanza documentale, sono stati accertati 410 milioni di euro di contributi elusi o evasi e oscurate oltre 28.000 posizioni di lavoro fittizie evitando che dessero luogo a prestazioni a sostegno del reddito e a contributi figurativi (per un risparmio stimato di circa 240 milioni di euro). Sono risultati ottenuti grazie anche all’effetto deterrenza creato da questi controlli.

Perché questa attività sia ancora più efficace, abbiamo bisogno della piena collaborazione degli intermediari. Nelle nostre ricognizioni abbiamo notato che, a fianco di una stragrande maggioranza di intermediari che ci aiutano grandemente nel nostro lavoro e a cui va la nostra gratitudine, vi è un piccolo gruppo di commercialisti e consulenti del lavoro che sistematicamente aiuta i propri clienti ad andare contro la legge. Abbiamo chiesto agli ordini professionali in questione di aiutarci nell’isolare questi comportamenti e siamo lieti della collaborazione che ci è stata offerta. Dopotutto gli ordini professionali hanno proprio questa funzione. Non sono un sindacato degli iscritti, ma una garanzia sulla qualità del servizio offerto ai cittadini.

L’Inps sul territorio

Nel nuovo modello di servizio che stiamo mettendo in atto intendiamo rafforzare la nostra presenza sul territorio. Continuerà la razionalizzazione delle sedi, dopo l’incorporazione di Inpdap ed Enpals. Ma vogliamo non di meno aumentare le opportunità di contatto personale sul territorio, consapevoli dell’importanza del patto fiduciario che hanno con noi i lavoratori, le imprese e i pensionati.

Per questo riequilibreremo il rapporto fra posizioni dirigenziali apicali presso la Direzione Generale a Roma e presso le sedi sul territorio. Ci serviranno anche nuove risorse per frenare l’emorragia di quadri dovuta al blocco del turn over nella P.A. che si protrae ormai da 15 anni. Chiederemo di poter bandire un concorso per funzionari nei profili in cui lamentiamo le maggiori carenze di organico.

Il presidio del territorio ci permetterà anche di rafforzare il raccordo con gli enti locali nel fornire protezione sociale. Sono i Comuni i veri depositari dell’esperienza accumulata in Italia nelle misure di contrasto alla povertà. E diverse regioni hanno introdotto, almeno sperimentalmente, schemi di contrasto alla povertà, come redditi minimi garantiti, cui l’Inps può offrire il proprio supporto informativo e amministrativo. Avremmo tanto voluto che il 2016 diventasse l’anno dell’introduzione in Italia di misure universali di contrasto della povertà.

Purtroppo la legge delega in discussione in Parlamento ha perso molti pezzi da quando ha varcato le porte di Montecitorio e rischia di perderne altri al Senato. Anche se il nostro Paese dovesse tornare a crescere ai tassi che sono alla nostra portata il problema della povertà, esploso durante la crisi, non si risolverà perché ci sarà sempre qualcuno che, in assenza di una rete di protezione adeguata, cadrà tra le crepe dello stato sociale. L’Inps è pronto a offrire la propria infrastruttura per raggiungere i più poveri ed erogare loro le prestazioni su tutto il territorio nazionale sulla base di criteri e modalità uniformi. C’è chi ci ha chiamato, non senza una certa ironia, Ministero della Povertà. è un appellativo che facciamo nostro, con un certo orgoglio, in un paese in cui la povertà estrema è stata a lungo derubricata dall’agenda politica.

*Relazione del presidente dell’Inps al XV Rapporto annuale (2015)

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