-di SANDRO ROAZZI-
Basta uscire dalle previsioni a colpi di decimali e l’economia italiana ritrova una sua fisionomia più precisa ma non incoraggiante.
E’ il caso delle cifre prospettate nel corso delle giornate nazionali della bilateralità edile che ha documentato la situazione della crescita “anemica” nel mondo ed in Italia. Per capire la devastazione della lunga crisi nel nostro Paese basta questo raffronto, illustrato dall’economista Enrico D’Elia: Il Pil dopo la grande recessione è salito nel mondo dal 2007 del 18,1%, negli Usa, attorno al 10%, nella vecchia Europa dell’1,9%, ma in Italia è calato a capofitto… dell’8,5%.
Compito davvero improbo quello di risalire la corrente. Certo è successo di tutto nel mondo dal terrorismo alle crisi regionali fino alla Brexit. Ma se guardiamo al percorso compiuto dalla nostra economia dal 1970 ad oggi ci accorgiamo che i nostri ritardi vengono da molto lontano. Si tiene il passo dell’Ocse fino a metà degli anni ’80, dagli anni ’90 ecco acuirsi la divaricazione della crescita in modo inesorabile a nostro svantaggio. La recessione darà il colpo di grazia. Solite cause, ma con alcune accentuazioni su cui non si riflette mai abbastanza: assenza di politiche industriali, troppe piccole imprese che non crescono, tanto da far dire a Massimo Calzoni Presidente di Formedil che ormai nel settore edile proliferano con mille affanni imprese con meno di due dipendenti.
C’è poi il peso del debito pubblico temuto ma che poi continua a gonfiarsi imperturbabile. Il cantiere insomma è casa nostra. Basta guardare al confronto, esibito nel convegno, Italia-Germania sulla produttività, stravinto dai tedeschi. Il differenziale è da capogiro: un -27,4% che grava sull’Italia e che per un -17% dipende dalla dimensione aziendale. Intendiamoci le nostre medie aziende (poche purtroppo) non hanno nulla da invidiare a quelle tedesche e la nostra qualità è quella che ci tiene a galla: ma è troppo poco in tempi di globalizzazione difficile come questi. Recuperare non è facile anche perché il debito pubblico sottrae risorse allo sforzo per dare stabilità alla crescita. Si pensi che il costo annuale degli interessi (che per noi cittadini sono tasse, attenti) nell’Eurozona è del 2,8% del Pil, in Francia e Germania oscilla attorno al 2%, in Grecia siamo al 4,1% ma l’Italia è capace di fare peggio: 4,7%. Certo, spiragli, minimi, ci sono: consumi, credito, occupazione. Nel settore edile, il più disastrato, le attente stime del Cresme segnalano il miglioramento di alcuni fondamentali con molta lentezza: investimenti, opere, immobiliare non residenziale, compravendite (ma con prezzi ancora calanti per ora). Ma le prospettive non fanno fare salti di gioia a nessuno. E sullo sfondo resta il nodo lavoro: in Cina tempo fa un imprenditore di Pechino ha immesso dosi massicce di robotizzazione nella sua azienda per ridurre il… costo del lavoro. Risultato: 60 mila lavoratori in mezzo ad una strada. Letto bene: 60 mila. In dieci anni o qualcosa di più il 40% dei posti di lavoro attuali nel mondo verranno meno per la robotizzazione. Andranno sostituiti, già ma con che cosa? Sarebbe il caso di smetterla intanto di ridere in faccia a chi chiede di ragionare su nuovi modelli di sviluppo. Non è nostalgia del passato, può essere l’unico futuro possibile.