-di EDOARDO CRISAFULLI-
Come categorizzare in termini politologici il voto dei Brexiters? Le città cosmopolite, Londra in testa, e i giovani hanno votato in blocco il Remain. Il “contado” inglese, gli abitanti delle periferie, i vecchi, i nostalgici, hanno preferito la Brexit. A prima vista sembrerebbe un voto reazionario. Che sull’esito referendario in Inghilterra abbiano pesato moltissimo il patriottismo insulare e la nostalgia per un passato glorioso (il miraggio del Commonwealth, il cui cuore pulsante è il Regno Unito…), lo dimostra il fatto che fra i lavoratori scozzesi e nordirlandesi, che sono meno sensibili alla retorica del Commonwealth, sia prevalso invece il Remain. Ma attenzione a non scivolare nel facile sillogismo “gli europeisti sono progressisti, gli scozzesi sono in maggioranza europeisti, dunque gli scozzesi sono progressisti.”
Il quadro è ben più complesso. Gli scozzesi si sono espressi contro l’idea di resuscitare una piccola patria britannica al di fuori dell’UE. Ma non sono affatto contrari in blocco all’indipendenza della loro piccola patria. Nello Scottish Independence Referendum del 2014, il 44% votò per la secessione dalla Gran Bretagna. E la storia non finisce qui: lo Scottish National Party, sulla scia spumeggiante di quel referendum assurdo, miope ed egoistico, ha letteralmente spazzato via il Partito laburista dalla mappa politica scozzese. Com’è noto la Scozia era, insieme al Nord dell’Inghilterra, uno dei bastioni del movimento operaio britannico. Ipotesi di storia virtuale: se gli scozzesi avessero votato in massa il Labour di Miliband nelle elezioni politiche del 2015, forse Cameron avrebbe perso (conservatori: 330 deputati, Labour 232, Scottish National Party: 56 — nelle precedenti elezioni i nazionalisti scozzesi erano solo 6).
La campagna indipendentista partita da Edinburgo nel 2014 è stata come il folle disboscamento della foresta che prelude agli smottamenti e alle slavine. L’anno seguente gli animi erano surriscaldati dalla prospettiva autonomista, con tutto il suo strascico di recriminazioni. Farage, fortunato leader del risorto nazionalismo inglese, ha ricevuto in dono un argomento in più per rinsaldare i ranghi dei suoi seguaci. Così lo Scottish National Party ha piantato due chiodi nella bara della sinistra britannica: oltre a sottrarre il prezioso consenso scozzese al partito laburista, ha contribuito all’emorragia di tanti voti Labour a favore dello UKIP. E quindi, chissà, senza il nazionalismo scozzese – che è antistorico non meno di quello inglese – questo benedetto/maledetto referendum sul Brexit non si sarebbe mai svolto. Questa è una ipotesi, certo. Fatto sta che gli indipendentisti hanno spezzato l’unità della classe lavoratrice britannica, il che mi pare difficile da classificare come un fatto “progressivo”.
Va detto, per onestà, che la piattaforma politica dello Scottish National Party è più a sinistra del Labour post-blairiano. Ma la sinistra arretra, mica progredisce, se si divide in vari tronconi, uno per ogni comunità etnica o linguistica o geografica di cui si compone lo Stato nazionale. Sarebbe forse giusto se la “Padania” realizzasse una società socialista per conto suo, abbandonando il Centrosud al sottosviluppo e alla marginalità? Questa ricetta puzza di nazional-socialismo.
Queste riflessioni ci impongono di andarci cauti nell’etichettare come “reazionari” i lavoratori e i pensionati inglesi favorevoli alla fuoriuscita della Gran Bretagna dall’UE. In senso generico non è improprio ricorrere al concetto di reazione, ovvero: “ogni comportamento collettivo che, opponendosi a un determinato processo evolutivo in atto nella società, tenta di far regredire la società medesima a stadi che quella evoluzione aveva oltrepassato” (Giorgio Bianchi, “Reazione”, in Dizionario di politica, diretto da Bobbio Matteucci, Pasquino). Sappiamo bene però che, nel lessico politico della sinistra, dare del reazionario a qualcuno equivale a marchiarlo d’infamia: quel termine puzza di controrivoluzione, di sanfedismo, di fascismo strisciante. O, per dirla più elegantemente, “le spinte razionarie traggono origine, in primo luogo, dall’ostilità di quelle componenti sociali che dal progresso sono danneggiate nei loro privilegi.” (ibid) Ma quali gretti privilegi di un immaginario Ancien Régime difenderebbero i lavoratori e i pensionati inglesi?
Il vocabolo “reazionario” ha senso, in questa vicenda, solo in un’accezione neutra, meramente etimologica: “reazione a uno stato di cose sgradito e sgradevole”. Se l’Europa fosse una Disneyland, la terra del latte e miele, se avesse garantito sicurezza e benessere a quasi tutti i suoi cittadini, perché mai gli inglesi se ne sarebbero andati sbattendo la porta? Delle due l’una: o a 17 milioni di inglesi ha dato di volta il cervello, o qualcosa che non va in Europa c’è. L’economia inglese è tutt’altro che depressa, e quindi gran parte dei Brexiters stava alla finestra a osservare i problemi altrui. Sarà allora che quello che hanno visto non gli è piaciuto? Pensiamo agli sbarchi degli immigrati a Lampedusa. I Paesi nostri amici, all’inizio della crisi, hanno abbandonato l’Italia. Solo l’intervento di Renzi, con la sua proposta alla UE, il “Migration Compact”, ha impedito l’aggravarsi della situazione. Pensiamo anche alla Grecia, umiliata e offesa. Eppure sarebbe bastato poco per non farla sprofondare nella melma. E’ forse questa la solidarietà europea che gli europeisti strombazzano? Per non dire dell’atteggiamento di chiusura totale nei confronti dell’immigrazione da parte di alcuni Paesi dell’Est Europa, che pure sono esportatori di manodopera verso la Gran Bretagna e il resto dell’Europa.
Queste considerazioni sono brutalmente semplici. Bisogna aggiungere che i Brexiters qualche problema lo vivono anche a casa loro: l’immigrazione incontrollata. Nonostante ciò non categorizzerei la Brexit come il frutto avvelenato della xenofobia: l’Inghilterra, benché non sia immune dal razzismo, è uno dei Paesi più liberali e libertari del mondo. È la nuova questione sociale – la paura dell’incertezza e della precarietà – che ha tenuto banco. La Brexit è quindi più un voto regressivo che reazionario. Una battuta d’arresto sulla via del progresso, insomma. Non la spia del desiderio di tornare all’Impero che dominava gli oceani. Per giudicare politicamente l’atteggiamento mentale dei Brexiters, dobbiamo anzitutto comprenderli. Condannarli è troppo facile, e non ci porta da nessuna parte. Il mestiere dei politici – inclusi quelli di sinistra – consiste nel tener conto anche dei sentimenti meno nobili dell’elettorato.
E’ innegabile che la classe operaia, in certi momenti, rifiuti il cambiamento rinchiudendosi nel suo guscio. A metà Ottocento, una parte consistente del Partito democratico americano al Nord era contrario all’emancipazione dei neri perché la sua base sociale, costituita da operai, temeva la concorrenza con la manodopera che sarebbe accorsa dal Sud. Erano soprattutto i nuovi immigrati, gli irlandesi, a non volere un forte aumento della forza lavoro al Nord, fatto che avrebbe abbassato i salari. Parte della stampa democratica agitò lo spettro dell’invasione con toni apertamente razzistici. I repubblicani, guidati da Lincoln, invece erano vicini agli interessi degli industriali, che desideravano l’opposto: più manodopera a prezzi competitivi – la schiavitù intralciava lo sviluppo del capitalismo industriale. Quindi erano ben predisposti verso la causa antischiavista. E’ per questo che, in varie elezioni dopo la guerra Civile, molti neri votarono per loro. I repubblicani avevano ragione, nel senso che erano dalla parte giusta, quella progressiva, della storia. Tuttavia, nel dopoguerra, il partito repubblicano gettò la maschera e mostrò il suo volto classista. La ricostruzione materiale e “morale” della nazione seguì l’agenda politica dettata dai poteri forti industriali. I repubblicani, che di quei poteri erano emanazione, strinsero un’alleanza con il blocco sociale sudista più conservatore. Un blocco, questo sì reazionario, il cui scopo era scongiurare l’ipotesi di una riforma agraria che, distribuendo terre e fornendo crediti agevolati, avrebbe creato una ceto sociale di piccoli proprietari.
Bisognava soffocare sul nascere il breve esperimento democratico postbellico durante il quale i bianchi poveri e i neri appena liberati parevano sul punto di coalizzarsi contro i residui dell’aristocrazia terriera. Morale della favola: i quattro milioni di afroamericani erano, sì, liberi, affrancati dalla schiavitù, ma ora avrebbero sperimentato una nuova forma di sfruttamento, più moderna, più in linea con i tempi. (William F. Ward (George Novack), “Some Thoughts on The Emanciption Proclamation”, International Socialist Review, 1963) Il Sud fu così guarito da una pericolosa febbre democratica o, più precisamente, social-democratica. Il grande capitale aveva ottenuto ciò che voleva: l’apertura dei mercati e la libera circolazione di merci ed uomini, senza gli intralci rappresentati dai diritti dei lavoratori. Questa situazione poneva le basi per un’alleanza di classe tra gli ex schiavi, i poveri bianchi del Sud e gli operai sfruttati del Nord. Del resto, non erano mai venute meno le ragioni dell’unità dei lavoratori americani: non tutti gli operai “nordisti” condividevano l’atteggiamento razzistico che aveva contagiato la manovalanza spaesata, appena immigrata dall’Europa. Gli esponenti più illuminati della sinistra democratica tuonavano da sempre contro il “wage slavery”, la schiavitù dei salariati, condizione che, secondo loro, avrebbe dovuto spingere i lavoratori delle aree più progredite del Nord a solidarizzare con i più sfortunati raccoglitori di cotone nelle piantagioni.
È dunque vero che molti lavoratori americani scivolarono su posizioni regressive. Ma i loro ideali erano pur sempre la libertà da ogni servitù, fisica o economica, la democrazia, la dignità universale. Nel partito democratico la fiammella libertaria rimase accesa, ed è per questa ragione che, nel corso del Novecento, i suoi leader ricompattarono la classe lavoratrice, che il fronte conservatore voleva dividere su basi razziali. Il partito democratico, privo di un’anima socialista, non poteva risolvere alla radice la questione sociale. Ma divenendo il paladino dei diritti civili riuscì a riconquistare gradualmente il consenso dei neri.
Ci sono insegnamenti in questa vicenda. Marx aveva ragione nel dire che la classe lavoratrice è, per vocazione, progressista, tende all’unità in nome dell’emancipazione e dell’eguaglianza. Il fatto che talora si arrocchi su posizioni conservatrici, non vuol dire che dobbiamo abbandonarla al suo destino, o sferzarla sprezzantemente. Gli operai disoccupati o precarizzati, i pensionati che temono di non poter più contare su un Servizio Sanitario Nazionale efficiente – la base sociale dell’antieuropeismo inglese – non sono equiparabili ai sanfedisti borbonici. Non pretendono privilegi bensì diritti, chiedono di non soffrire nel periodo di transizione verso il nuovo che avanza a tappe forzate. Se la classe operaia sbaglia perché non capisce cosa ci porterà in sorte il progresso, consiglio di seguire l’insegnamento di Nenni: meglio stare con la nostra gente sbagliando, che starle contro avendo ragione. Il che è l’opposto di ciò che hanno fatto le leadership europeiste di sinistra in questi ultimi anni. Di qui la catastrofe incombente.
Il politico di sinistra non può permettersi il lusso di profetizzare e filosofeggiare come l’accademico nella torre d’avorio. Guai a ignorare le sofferenze della gente comune, in nome del progresso e della modernità incalzante. Il paradosso della situazione in Europa, oggi, è che le élite politiche – destra e sinistra storiche: c’è poca differenza – sono letteralmente progressiste: a favore di questa globalizzazione selvaggia, che tutto travolge, e apparentemente indifferenti ai costi pagati dai ceti più deboli. E la destra xenofoba, quella retrograda, che vuole riesumare le piccole patrie, è invece dalla parte del popolo minuto. O, quanto meno, sa ascoltarlo.