Ora facciamo l’Europa dei Popoli

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-di EDOARDO CRISAFULLI-

Siamo sommersi da un diluvio di commenti emotivi sulla Brexit, soprattutto sui social media. Prevale un sentimento misto di stupore e di delusione. Persino, in alcuni casi, di malcelata rabbia verso gli inglesi, accusati d’essere colonialisti per vocazione (si credono un popolo superiore…). Non tutti ragionano a mente fredda, non tutti si documentano. Anch’io sono rimasto basito, anzi: frastornato, da un esito referendario inatteso e inimmaginabile come una sberla appioppata dal vicino di casa. Ma prima di farci prendere da desideri di rivalsa, ripassiamo la storia. L’Europa deve la propria libertà alla resistenza eroica del popolo britannico nel 1940. Inglesi, scozzesi, gallesi e nordirlandesi fecero tutti la loro parte, nessuno si tirò indietro. Ma l’Inghilterra era, ed è, lo Stato più grande e più popoloso della Gran Bretagna. Senza la determinazione e la straordinaria leadership di Churchill, il quale era attorniato da una classe dirigente degna di tal nome e da cittadini coraggiosi, disposti a lottare fino in fondo per la libertà di tutti, l’Europa sarebbe rimasta nelle grinfie dei nazi-fascisti per chissà quanto tempo. Se gli inglesi (o i britannici) fossero colonialisti “nel sangue”, egoisti cui preme solo il proprio tornaconto, avrebbero salvato allora l’impero, perché questo era ciò che Hitler aveva offerto loro, in cambio di un armistizio: a noi l’Europa e la Russia, a voi i dominions e le colonie. E invece scelsero come sappiamo: così persero i loro possedimenti coloniali ma guadagnarono la nostra immensa gratitudine.

Queste le riflessioni sul Brexit di un riformista europeista che si confessa un po’ anglofilo.

  1. Non è stato un errore ciclopico aver chiesto al popolo britannico di pronunciarsi sull’Unione Europea – al limite, si può pensare che il momento fosse inopportuno, ma questo è un altro discorso. Non è mai sbagliato coinvolgere i cittadini in scelte decisive per il futuro del proprio Paese. C’è chi punta il dito contro i politici inglesi: chiedendo il referendum avrebbero ammesso la loro incapacità di elaborare proposte e/o di gestire la situazione, si sarebbero spogliati delle loro responsabilità scaricando sulle spalle degli elettori una decisione che a questi non spettava. Del resto si sa che anche le leadership dei partiti storici rincorrono gli umori della gente, per opportunismo o viltà. Questo ragionamento è fuorviante. Ma vi sono questioni vitali, che riguardano la vita di un popolo, il suo destino, su cui i cittadini devono potersi esprimere: l’approvazione di serie modifiche costituzionali, la scelta della forma di governo, e infine, perché no, la decisione se far parte o meno di un’entità sovranazionale. Detto ciò, so benissimo che la democrazia diretta è un’utopia. Su tantissime questioni, soprattutto quelle più tecniche, che richiedono competenze specifiche, è giusto delegare ai professionisti della politica, inquadrati nei partiti (il referendum sulle trivelle è stato inutile). Il recente referendum sulla Brexit, per quanto abbia ricadute e ramificazioni complesse e imprevedibili, non rientra fra queste questioni minuziose. La battuta sul primo referendum della storia, quello che avrebbe coinvolto gli ebrei nella scelta fra Gesù e Barabba, sarebbe divertente se non fosse un falso storico, riesumato in chiave anti-democratica: “e sarebbe questo il popolo?”. Ponzio Pilato non era un leader democratico, e la Palestina non era casina sua, né la folla radunatasi al suo cospetto era costituita da rappresentanti del popolo ebraico, legittimamente eletti. Era una accozzaglia inferocita di sconosciuti sobillati e prezzolati da chi, nell’establishment, voleva togliere di mezzo un sovversivo. I Brexiters – 17 milioni circa di liberi cittadini – hanno votato in maniera trasparente e civile. Hanno dimostrato di credere nella democrazia, il cui fondamento è unico ed universale: la sovranità appartiene, appunto, al popolo, che la esercita legalmente tramite il voto. E che altro strumento avrebbero avuto, quei 17 milioni di britannici, se non il voto, per poter contare, per fare sentire la loro voce? E’ molto più preoccupante, rispetto alla Brexit, lo scenario prediletto dagli apostoli del neoliberismo: il 20% (gli intelligenti, i benestanti) vanno a votare, gli altri si limitano a produrre, a consumare e a crepare. Capisco che i politologi amino classificare il voto – di cambiamento o di protesta? Reazionario o progressivo? Prima di qualsiasi analisi sociologica sofisticata, bisogna dire che il voto è sacrosanto, ci piacciano o meno i risultati. Ricordo la posa boriosa di Dario Fo negli anni Novanta: gli italiani che votano Berlusconi? “Imbecil-gente”. Oggi, l’icona del Movimento 5 stelle viene ripagato con la stessa moneta. Nemesi dell’antipolitica.

“E se il popolo sbaglia?” Ma chi può dirlo, le élite costituite da “color che sanno”? Oppure l’avanguardia rivoluzionaria di leniniana memoria? Se il popolo è in errore, amen. In una democrazia, la libertà è anche libertà di sbagliare. Colgo in molti commenti un bel po’ di elitismo. Da un lato c’è il populismo che idealizza ed esalta un’idea astratta, alla Rousseau, di popolo: una massa indistinta di buoni, di puri, di oppressi o vessati dal potere, dagli apparati. Dall’altro lato c’è lo snobismo antipopolare, che non è meno ingannevole: il popolo è costituito da analfabeti, rozzi, stupidi. Meno male che ci siamo noi, quelli che hanno studiato, quelli che capiscono tutto. Un modo di pensare, questo, che ha sfondato anche a sinistra. Peccato che non la pensassero così i nostri Padri costituenti, quando, sulla questione più decisiva per la nostra vita politica – Repubblica o Monarchia – diedero la parola a un popolo che, allora, nel 1946, era costituito per lo più da semi-analfabeti. I quali seppero scegliere benissimo. Verrebbe da dire, poi, che i popoli europei si sono fidati anche troppo delle élite politiche, coadiuvate da coorti di “esperti”, le hanno seguite come nottambuli. Non avevamo forse tutti una smisurata fiducia nei nostri politici, nelle loro capacità di previsione, quando negoziavano l’entrata nell’Euro e i parametri e i vincoli e tutto il resto? Eppure sapevamo che era assurdo, andava contro ogni precedente storico, coniare una moneta unica prima che vi fosse un’unità politica, cioè uno Stato federale. Era come costruire una casa partendo dal soffitto anziché dalle fondamenta. Ora che il progetto europeo vacilla, non è forse normale e umano che qualcuno – in questo brulicante e vociante popolo – si senta tradito da chi si trova più in alto di lui e ha avallato tutto questo?

  1. Anch’io credo sia stato un grave errore aver votato per la Brexit. Ma sarebbe un errore infinitamente più grave seguire il consiglio folle di Blair ed altri laburisti, che chiedono di congelare l’esito catastrofico di questo referendum. Vedo già sull’orizzonte il profilo del prossimo demagogo che, schiuma alla bocca e occhi di fuoco, inveisce contro le élite tecnocratiche, alleate dei poteri forti, colpevoli di aver defraudano i cittadini britannici della loro libertà di scelta. L’Unione Europea sopravviverà alla Brexit. Non può sopravvivere a un inganno del genere: sarebbe l’agonia del concetto stesso di democrazia. Non escludo, se passasse questa proposta indecente, la rinascita di un fascismo ancora più insidioso di quello che abbiamo sperimentato. Hitler, non dimentichiamolo, costruì le sue fortune politiche sulle false promesse dei leader democratici di allora, sulle contraddizioni ed ipocrisie delle democrazie del suo tempo.

  2. Evitiamo i cliché, i luoghi comuni: facilitano la conversazione, ma annebbiano il cervello. Evitiamo come la peste il concetto di “populismo”. Faccio autocritica: anch’io ne ho abusato. Anche il termine nazionalismo è inflazionato. Le realtà proletarie, popolari, roccaforti del Labour (Galles, molte aree del Nord Inghilterra ecc.), hanno votato in massa Brexit. Ci siamo chiesti il perché? Avete ascoltato la gente comune, avete dato loro una risposta? Molto facile sentenziare sui proletari inglesi e gallesi ipernazionalisti, quando si sorseggia lo champagne ai Parioli o nella City. Studiamo, leggiamo, documentiamoci. Ottime le analisi sul Guardian, quotidiano della sinistra critica britannica. Il cavallo di battaglia dei Brexiters? La paura dell’immigrazione incontrollata. Vediamo i dati del Migration Observatorydell’Università di Oxford. In un periodo di soli vent’anni, tra il 1993 e il 2014, gli stranieri naturalizzati, con cittadinanza britannica, sono passati da 3,8 milioni a 8,3 milioni. La stragrande maggioranza di questi è concentrata nelle grandi aree urbane, soprattutto a Londra. Nello stesso periodo, gli stranieri residenti stabilmente sono passati da 2 a 5 milioni circa. Nel 2014 il 13% della popolazione inglese era straniero. Non sono dati drammatici, ma sono al di sopra della media europea. Ecco perché la paura, non solo il nazionalismo insulare, ha condizionato il voto. La paura dell’ignoto. La paura di essere invasi dallo straniero. Se l’immigrazione in questo momento non è un pericolo reale, è tuttavia un pericolo potenziale. O almeno così è percepito da una parte della popolazione inglese. Il marinaio ansioso, quando scorge le nubi che annunciano tempesta, non aspetta il vento e la grandine per ammainare le vele. Le percezioni, in politica, sono granitiche come i fatti reali. Ma siccome vengono spesso ignorate, ci si sbatte facilmente il grugno. I politici – Farage, Boris Johnson — che hanno speculato sui timori e sulle ansie della gente sono ignobili, d’accordo. Ma è da folli tapparsi le orecchie quando le comunità locali urlano la loro disperazione. Non possiamo pretendere che tutti accettino che la propria comunità cambi, si trasformi, che interi quartieri, cittadine, paesini perdano un’identità storica ultracentenaria. E tutto nel giro di pochi anni.

  3. Va precisato che i Brexiters non manifestano ostilità solo verso gli immigrati extra-europei: se la prendono soprattutto con i cittadini europei, in particolare quelli polacchi, accorsi in frotte nel Regno Unito. Pare – le mie fonti danno cifre discordanti – che i cittadini dell’Est europeo ammontino a circa un milione e mezzo, di cui la metà sono polacchi (il gruppo straniero più numeroso, dopo gli indiani). E qui sfatiamo un mito negativo sul Regno Unito: i britannici ora pagano il prezzo per essere stati troppo europeisti. Mi spiego: il cardine su cui si regge l’impianto dell’UE è la libera circolazione delle merci e delle persone. Ebbene nel Regno Unito è confluito, nel volgere di un decennio, un numero molto elevato di cittadini europei: si parla di oltre 4 milioni. Forse non sono molto di più di quelli che hanno scelto la Germania e l’Italia. Ma numeri anche di poco superiori hanno avuto un impatto più forte, da terremoto, perché il mondo del lavoro inglese è molto flessibile e dinamico: vali e hai voglia di lavorare? Ebbene il posto di lavoro è tuo, indipendentemente dalle tue origini nazionali. Non a caso circa 500.000 italiani vivono in Gran Bretagna di cui 250.000 a Londra. Molti di loro sono giovani in gamba e qualificati, al di sotto dei 35 anni.

  4. In sintesi: i britannici sono stati antieuropeisti a parole, ed europeisti di fatto. Gli italiani il contrario. Certo, molti italiani hanno nel cuore l’Europa, sentono di farne parte idealmente, ma è un fatto indiscutibile che il nostro sistema lavorativo è molto più impermeabile agli “intrusi” nelle sfere medio-alte. O, per dirla diversamente, noi abbiamo anticorpi, siamo corazzati (il familismo “amorale”, la raccomandazione, l’appartenenza a quella lobby o a quel partito…) Da noi, in sostanza, la concorrenza con il lavoratore rumeno l’avverte solo l’operaio o il manovale; in Gran Bretagna i lavoratori dell’Est Europa sono percepiti come una minaccia da una parte della classe media che, tradizionalmente, è sovra-rappresentata nei servizi e nell’impiego pubblico. Per rendersene conto, basta confrontare la percentuale di europei stranieri che hanno una cattedra nelle università italiane e in quelle britanniche. Già vent’anni fa nei dipartimenti di italianistica in Gran Bretagna c’erano molti ricercatori e professori di ruolo italiani. Nello stesso periodo solo un paio di cittadini britannici erano professori di ruolo nei nostri dipartimenti di anglistica. Gli inglesi, intelligentemente, hanno spalancato le porte agli europei preparati e con titoli: moltissimi gli studiosi greci nei dipartimenti di economia delle loro Università. Discorso analogo vale per la sanità: ho conosciuto vari medici e chirurghi italiani che lavorano negli ospedali inglesi. Quanti medici britannici ci sono negli ospedali italiani? Questi sono solo pochi esempi, che però la dicono lunga sulla differenza fra i vari sistemi di reclutamento nella UE. Ne aggiungo un altro, che riguarda la burocrazia italiana: quando andai in Inghilterra a specializzarmi, nel 1990, la mia Laurea in Lingue quadriennale venne immediatamente riconosciuta dagli inglesi, sia per l’iscrizione a una loro università, sia a fini lavorativi. Bastò una mera fotocopia del mio diploma di Laurea. Il riconoscimento avvenne in dieci minuti circa. Il contrario, ahimè, non è mai avvenuto: il mio Master biennale post lauream in Linguistica applicata (Università di Birmingham) non è stato valutato in più di un concorso pubblico. E sapete perché? Semplice (per un italiano, non per un inglese): dopo la dichiarazione di valore rilasciata dall’autorità consolare, occorre una “equipollenza” formale, per ottenere la quale bisognerebbe individuare un corso di studi equivalente nell’ordinamento universitario italiano. Solo a quel punto si può far domanda di riconoscimento del titolo straniero. Ma poiché non esisteva, e credo non esista tuttora, un titolo equivalente al mio Master, l’unica soluzione era iscriversi a un corso di laurea affine e sostenere gli esami mancanti (una caterva!). Solo così avrei ottenuto l’agognato riconoscimento. Morale della favola: avrei dovuto ricominciare quasi da capo. E’ per questo che dal 1992 ho un Master virtuale dell’Università di Birmingham. Magra consolazione: almeno oggi posso dire che possiedo un titolo accademico di un’Università extra-europea. Tornando al lavoro, la madre di tutti i problemi: i cittadini comunitari possono partecipare ai concorsi pubblici in un qualsiasi Paese dell’UE (sono escluse, ovviamente, alcune tipologie: Magistratura, Ministero degli Esteri ecc.). Ora, possiamo varare tutte le leggi europeiste che vogliamo, ma se le commissioni di esame nei concorsi pubblici favoriscono gli italiani, e per giunta i candidati locali, già conosciuti (è spesso il caso dei concorsi universitari), capirete bene che un punto cruciale dell’europeismo va a farsi friggere. Lo stesso discorso vale per l’inserimento lavorativo nel settore privato: sappiamo che in Inghilterra le assunzioni, e la carriera, sono rigorosamente meritocratiche: curriculum, referenze, colloquio e conseguente contratto di lavoro. Possiamo onestamente dire che succede così anche nelle aziende piccole e grandi di tutti i Paesi dell’UE?

  5. C’è poi un altro elemento, non secondario. Un punto di forza della campagna dei Brexiters è stata la promessa di investire più risorse nel servizio sanitario nazionale. I soldi sarebbero stati recuperati dall’annullamento degli onerosi trasferimenti all’UE. Una proposta demagogica, falsa e bugiarda (parte di quei soldi tornavano indietro, sotto forma di investimenti in Gran Bretagna). E infatti i Brexiters hanno già fatto retromarcia: tutti quei milioni di sterline da investire nel National Health Service non ci sono, e non si materializzeranno per magia. Più che condannare, però, dovremmo riflettere – noi che, forse, avremo lo stesso problema – sull’attaccamento degli inglesi a una conquista di civiltà del Welfare State: la sanità gratuita per tutti. Gli inglesi si sono resi conto che il sistema, anche per via della pressione esercitata da milioni di residenti in più, potrebbe collassare. Che gli inglesi desiderino un sistema sanitario funzionante, non mi pare reazionario, bensì, alla radice, sensato e giusto. Si sono accorti che il socialismo dalle mani bucate non funziona.

  6. Come ci insegna il buddismo, nelle vicende umane non si da’ mai una situazione assolutamente negativa. D’ora in poi ci sarà maggiore chiarezza: chi è nell’UE deve adottare anche la moneta unica. Col senno di poi, fu un errore consentire alla Gran Bretagna di negoziare uno status privilegiato (un piede dentro, uno fuori…). Da ogni male può nascere un bene. E viceversa. E così infatti è stato: dal bene che era, e dovrebbe essere, la UE, sono sorti tanti mali: disoccupazione, migrazioni forzate di masse di giovani, sofferenze, perdita di identità. Trasformiamo dunque questo voto disastroso in una opportunità di cambiamento. La Brexit è come una scossa elettrica: o facciamo l’Europa politica, federale, l’Europa dei popoli liberi, o crolla tutto. L’Europa può, e deve, diventare una comunità di destino, che ci lega indissolubilmente. Una super patria che non schiacci ma valorizzi le identità regionali. Se l’Europa è vista come un coacervo di proibizioni e regolamenti, uno strumento di oppressione burocratica; se è solo un immenso emporio in cui fare business, ovvio che al primo problema uno se ne va. Ogni contratto commerciale ha una clausola di recessione. Nessun matrimonio si regge solo su interessi materiali. Il cemento di un’unione duratura è nei sentimenti, negli ideali. E’ lì la forza – nella cultura comune, nella condivisione di valori – che consente di superare indenni le numerose e impreviste burrasche della vita. Non sprechiamo altro tempo sui vincoli di bilancio e altre astruserie: rilanciamo con forza il Progetto europeo!

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