-di CESARE SALVI-
Il risultato delle elezioni amministrative è in linea con una tendenza ormai diffusa in tutto l’Occidente: il crescente consenso a forze che vengono definite “populiste”.
L’aggettivo è usato con intendimenti critici, ma l’etichetta rischia di nascondere la realtà, occultandola in un giudizio negativo che serve a poco.
Anzitutto esistono diverse varianti di “populismo”, come spiega la letteratura in argomento. Ciò che le accomuna è un nuovo tipo di ideologia, che considera la società come divisa in due gruppi contrapposti: il popolo omogeneo e onesto contro un’élite corrotta e interessata solo a conservare il potere. Ma oltre questo dato comune, le proposte politiche si differenziano, e si collocano in uno spettro che va da destra a sinistra.
Il populismo di destra contrappone al “popolo” determinati gruppi etnici, religiosi, culturali e di conseguenza alimenta la paura per il diverso, l’immigrato soprattutto. La rappresentano Trump, le destre francesi e austriache, i partiti al governo in alcuni paesi dell’Est, da noi la destra di Salvini.
Per il populismo di sinistra (pensiamo a Podemos, ma anche a Sanders) l’avversario sono le oligarchie economiche, la tecnocrazia sovranazionale, le banche e Wall Street.
C’è poi un populismo “inclusivo”, interclassista, come quello dei 5 stelle, che critica soprattutto le classi dirigenti politiche, e si propone come rappresentante della grande maggioranza dei cittadini, e per questo raccoglie voti (dicono le ricerche) a destra come a sinistra.
Ma che cosa spinga il successo elettorale di queste forze, al di là delle differenze, peraltro come è chiaro molto importanti? I fattori comuni sono due: la preoccupazione di larghi settori della popolazione (ceti medi e lavoratori) per il peggioramento della loro condizione economica e sociale e la crescente disoccupazione, e la sfiducia nei confronti della classe politica di governo, considerata incapace di reagire a questo declino, e anzi corresponsabile di esso.
Venendo all’Italia, il voto a Roma e a Torino, nella sua distribuzione sui territori comunali, conferma questa tendenza: sono stati soprattutto i giovani e i ceti popolari, i soggetti colpiti da una crisi che continua a mordere, a decretare la sconfitta del PD; e la narrazione ottimistica di Renzi non è affatto servita, anzi, probabilmente ha determinato un’opposta reazione di rabbia e di protesta.
D’altra parte, continua a crescere il “populismo del rifiuto”: l’astensionismo, che porta all’elezione di sindaci che spesso rappresentano poco più del 20% dei cittadini aventi diritto al voto.
Il PD di Renzi si mostra geneticamente incapace persino di comprendere il problema: Quando si sente parlare della ricerca di volti nuovi, giovani e magari femminili, si dimentica il risultato di Napoli (e, sul versante opposto, quelli di Trieste o Benevento).
Perché non ci si interroga invece sul peso che hanno avuto, soprattutto nell’astensionismo a sinistra, il Jobs act e gli attacchi al sindacato, la “buona scuola” e la delegittimazione degli insegnanti, la (non) gestione delle crisi bancarie, per la quale nessuno ha finora pagato, tranne piccoli risparmiatori spesso imbrogliati?
Trovo incomprensibile che la minoranza del PD concentri la sua attenzione sul doppio incarico segretario-premier, o sulla richiesta di non chiariti ritocchi alla legge elettorale (temi che interessano molto il ceto politico, ma per nulla i cittadini) e non sulla necessità di nuovi indirizzi di politica economica e sociale, come quelli indicati da Corbyn e da Sanders.
È chiaro infatti che se la causa del successo dei populismi, e della parallela crescita dell’astensionismo, sono in tutto l’Occidente quelle prima indicate, é solo dando risposte sia alla crisi sociale (aumento della diseguaglianza e della povertà, tagli delle prestazioni sociali, disoccupazione giovanile elevatissima), sia alla crisi di legittimazione delle istituzioni pubbliche, che la sinistra può provare a riprendere peso e ruolo.
Quanto alla sinistra a sinistra del PD, il risultato, diciamolo chiaramente, è molto al di sotto delle aspettative.
Continua da un decennio ad apparire più un aggregato di politici che cercano di superare la soglia di sbarramento, che la portatrice di un progetto (economico, sociale, democratico) capace di parlare al paese.
Forse ci sono lezioni da apprendere dai 5 stelle, andando naturalmente oltre i limiti e la criticità del loro modello organizzativo: chiarezza e semplicità delle parole d’ordine e del linguaggio, compattezza interna, modalità di partecipazione politica democratiche e innovative (non solo la rete; Livia Turco ha detto dei 5 stelle: l’ho visti dappertutto in campagna elettorale, come ai tempi del Pci).
In realtà, di una più ampia rappresentatività delle istituzioni, di un ricorso ben strutturato agli strumenti di democrazia diretta (anche attraverso la rete), hanno bisogno tutte le forze politiche, ma soprattutto le istituzioni democratiche.
L’esatto opposto, insomma, della legge costituzionale voluta dal governo e dell’Italicum. Anche per questo sarà molto importante il voto referendario di ottobre.
Ottimo Cesare. Spero che venga pubblicato sul blog anche il mio commento in gran parte coincidente.