-di SALVATORE BONADONNA-
E’ possibile, e come, ricostruire la sinistra?
Rispondere a questa domanda non è semplice anche perché nell’universo mediatico il termine sinistra sta ad indicare genericamente una altrettanto generica derivazione delle forze politiche così definite in ragione delle collocazioni storiche nei parlamenti e nelle assemblee elettive. Solo che allora alla destra del Presidente dell’Assemblea sedevano le forze rappresentative del padronato, della rendita, della borghesia e dell’aristocrazia e, alla sua sinistra quelle che rappresentavano il mondo del lavoro, operai, braccianti, contadini e quei pochi intellettuali che si schieravano al loro fianco. Da una parte gli sfruttatori, dall’altra gli sfruttati. Da una parte quelli che sostenevano che solo il loro arricchimento e il loro governo della società poteva garantire la sopravvivenza anche di quelle masse popolari che fornivano le braccia. Dall’altra quelli che, consapevoli che solo il proprio lavoro e la propria fatica produceva la ricchezza di cui si avvantaggiava l’altra parte, rivendicavano diritti e giustizia sociale, uguaglianza e dignità.
La sinistra rivendicava riforme e promuoveva rivoluzioni per l’uguaglianza e la libertà: persino ottenere il diritto al voto e le otto ore di lavoro giornaliere era stato frutto di lotte anche sanguinose.
So che richiamare queste scarne notazioni mi espone al giudizio di passatista, di nostalgico, di antistorico; anche perché, com’è noto, la storia la scrivono i vincitori e la trasmettono come verità naturale ai vinti. Ma la storia, ricordava Marx, è storia di lotta tra le classi. E, con il realismo di chi ha vinto, almeno in questa fase, Warren Buffet, primo miliardario americano, conferma che la lotta di classe esiste e adesso la stanno vincendo loro, i miliardari, il capitalismo globalizzato e la finanza mondiale che ne rappresenta la forza propulsiva.
Nella storia del Novecento i partiti rappresentanti le classi proprietarie, variamente ispirati alle correnti del pensiero liberale, erano identificati come la destra e quelli che facevano riferimento al lavoro, al movimento operaio e al sindacalismo, variamente ispirati alle correnti del pensiero marxista (e poi alla Rivoluzione Sovietica) e socialista, erano indicati come la sinistra. Il pensiero risalente alla dottrina sociale della Chiesa Cattolica, compendiato nella Enciclica Rerum Novarum, diede vita ed alimento a formazioni ed esperienze politiche che, nel solco del capitalismo, propugnavano la collaborazione di classe e la coesione sociale in polemica con l’egoismo illimitato dei padroni e in contrapposizione alle spinte rivoluzionarie del movimento socialista e davano vita a forme di cooperazione, mutualità e solidarietà autonome e giustapposte al capitalismo di mercato, forme analoghe a quelle praticate dai filoni del socialismo umanitario.
La seconda guerra mondiale, frutto del nazionalsocialismo tedesco e del fascismo italiano, vinta dall’alleanza dei paesi liberali con l’URSS con la partecipazione attiva dei movimenti della Resistenza antifascista di cui sono stati parte decisiva le forze della sinistra operaia, produce un compromesso sociale alto che si esprime nelle Costituzioni dei paesi dell’Europa e che ha consentito, pur attraverso drammi e migrazioni e lotte aspre, progresso sociale e civile, un certo livello di equità, il sistema che viene definito di stato sociale. Esattamente quel sistema di costituzionalismo democratico che il documento della Jp Morgan, banca d’affari americana all’origine della crisi finanziaria del 2007, nel maggio 2013, accusa di essere permeato di socialismo e costituire un freno inaccettabile per il mercato e l’integrazione europea e multinazionale. Com’è ormai abbondantemente noto, i governi dei paesi europei stanno provvedendo in obbedienza e quello italiano, a trazione renziana, si distingue per la solerzia. Già l’Unione Europea aveva avviato il processo attraverso cessione di sovranità nazionali a strutture tecnocratiche o, comunque, sottratte alla legittimazione democratica. Anche in questo caso, l’atlantismo italiano di stretta osservanza, su impulso del Presidente Giorgio Napolitano, ha dato vita alla progressiva destrutturazione dello stato sociale del paese fino alla rottamazione in corso ad opera del governo Renzi.
Se non si ha presente questo quadro, e la dinamica che contiene, diventa impossibile comprendere che fine ha fatto la sinistra e capire se, e come, possa ricostruirsi almeno nel nostro Paese. In altri paesi i processi e i percorsi sono stati analoghi e, però, si sviluppano in modo diverso che da noi.
Quindi non si può capire che fine ha fatto la sinistra se non ci si interroga su che fine ha fatto la democrazia e, in questo, la politica come strumento della società di progettare e governare le proprie trasformazioni e il proprio futuro.
Nella lotta tra le classi il capitalismo non ha smesso mai di lottare anche quando ha dovuto accettare compromessi anche onerosi. Si è trasformato, ha cambiato pelle, si è internazionalizzato, ha incorporato le innovazioni tecnologiche nei processi cognitivi e in quelli produttivi e, soprattutto, ha dato vita a forme di dominio politico trasferendo le sedi del potere decisionale dalle istituzioni democratiche degli Stati a strutture tecnocratiche nazionali e sovranazionali cui gli Stati hanno devoluto parti crescenti della propria sovranità in nome di una supposta cooperazione e di una reale delega al comando contro il mondo del lavoro. Le forze della sinistra, sostanzialmente egemonizzate dalla socialdemocrazia tedesca, hanno pensato che questo fosse il percorso giusto per fronteggiare la pressione del movimento operaio di orientamento socialista e comunista.
Hanno agito come apprendisti stregoni che, una volta crollato il sistema sovietico, non sono stati più in grado di far tornare nell’otre gli spiriti liberati; e si trattava degli spiriti del mercato che, com’è noto, non è affatto l’arena della libertà ma il regno del dominio dei forti contro i deboli, degli sfruttatori contro gli sfruttati. E, oggi, infatti, sul piano della politica economica e sociale nulla distingue la socialdemocrazia dalle forze storiche del capitalismo, omologati dal pensiero unico neoliberista. Non è un caso che per destra ormai si intendono solo i movimenti xenofobi e razzisti che operano come detonatori del malessere sociale nel tessuto ridotto a brandelli dal modello e dal potere neoliberista.
In questo consiste il suicidio della sinistra politica e la sconfitta della sinistra sociale. E questo sta producendo e produrrà guasti sempre più terribili nella condizione materiale e sociale di masse popolari enormi e nella stessa loro capacità di coesistenza. E l’Europa sarà ancora il teatro principale di questo disfacimento di civiltà.
Per questo occorre tornare alle radici; dove e quando ha cominciato a perdersi la sinistra?
Del resto è da anni che ci spiegano che la classe operaia non c’è più, che il mercato del lavoro non è più quello dell’era fordista taylorista, che la precarietà è la condizione naturale della modernità e che la misura della crescita e dello stato di una società è rappresentata dalla evoluzione dei mercati finanziari e dagli indici di borsa. Una volta la misura era il tasso di occupazione, il livello dei salari, la prospettiva delle giovani generazioni. Con la personalizzazione dei mercati e la spersonalizzazione del lavoro è avvenuto il capovolgimento: i mercati stanno bene o stanno male, soffrono o s’impennano, giudicano e determinano le scelte della politica e, a queste scelte debbono sottostare le persone in carne ed ossa.
In questo capovolgimento dell’ordine delle cose sta la scomparsa della sinistra: i mercati soggetti di personalità, le persone oggetto delle loro scelte. La politica strumento di gestione pedissequa di questo capovolgimento
Per restare in casa nostra sarà bene rifarsi al tempo delle conquiste del ’68 e dell’autunno caldo quando le lotte operaie e studentesche, i movimenti sociali sui diritti, il pensiero e il movimento femminista, avevano messo all’ordine del giorno un cambiamento radicale del sistema politico sociale e culturale, un vero e proprio modello di sviluppo e di potere alternativo. La controffensiva padronale fu fortissima e durissima e le forze politiche e sociali ne furono investite pesantemente. Il sindacato, che pure aveva avuto il coraggio di aprirsi alle spinte di cambiamento fino a diventare il “sindacato dei consigli”, subisce la pressione delle forze moderate presenti anche nella sinistra politica, nel PSI e nel PCI, e avvia quella politica della “moderazione” salariale in nome delle compatibilità economiche di sistema. Questo comincia a mettere in crisi il rapporto con i lavoratori e ciò, oggettivamente, dà spazio a quelle spinte che poi sfoceranno nella lotta armata che, altrettanto oggettivamente, contribuisce ad accrescere, e quasi legittimare, l’offensiva repressiva del padronato e delle forze politiche che lo sostengono. Il passaggio dal “sindacato dei consigli” al “sindacato dei cittadini” e dalla centralità del lavoro alla centralità dell’impresa costituiscono i due passaggi cruciali che apriranno la strada al modello economico e sociale neoliberista contro quello dell’economia mista che vedeva un ruolo strategico dello Stato nell’economia sul versante del governo della moneta come su quello produttivo.
Il divorzio tra Governo e Banca d’Italia sancito dell’accordo tra Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta, da cui trae origine la crescita vorticosa del debito pubblico, è una tappa decisiva alla quale la sinistra politica non ebbe nulla da obiettare. Il progressivo smantellamento del sistema delle Partecipazioni Statali e la privatizzazione (la cessione a prezzi di liquidazione sarebbe più corretto dire) dei principali asset strategici del paese furono salutati e perseguiti per tutti gli anni ’90 come segnali della modernizzazione del paese di cui si facevano portatori esponenti come Craxi e Prodi. Mani Pulite rappresentò il pretesto per operare le dismissioni invece che il risanamento gestionale delle Partecipazioni Statali e dei settori strategici delle Telecomunicazioni, delle Ferrovie, dell’ENEL. E’ noto che un vertice dell’alta finanza internazionale, assolutamente riservato, cui partecipò anche l’attuale presidente della BCE Mario Draghi, allora direttore generale del Ministero dell’economia, si svolse sul Britannia, il panfilo della Regina Elisabetta, nelle acque al largo di Civitavecchia, per mettere a punto quel piano di dismissioni. Privatizzazioni e liberalizzazioni rappresentarono il vanto dei governi successivi allo scioglimento del PCI e di cui ex comunisti ed ex democristiani furono protagonisti. Guido Carli che aveva tuonato contro i “lacci e lacciuoli” che vincolavano l’impresa, contro la Programmazione Economica tentata dal Centro-Sinistra degli anni ’60, ottiene qui la sua vittoria postuma. Liberalizzazioni avvengono anche sul versante del lavoro con la legge Treu. Istituzionalizzazione, subordinazione del sindacato e condizionamento della sua autonomia rivendicativa e contrattuale si concretizzeranno con le intese del ‘92 e del ’93, sotto il Governo Amato-Ciampi, con la cancellazione della scala mobile e la subordinazione della dinamica salariale all’andamento del sistema economico.
La sinistra, che storicamente era identificata con le forze politiche e sindacali che si battevano per il progresso sociale e civile delle lavoratrici e dei lavoratori, per questa via, si fa lo strumento più idoneo per affermare le priorità del mercato liberista, quindi delle classi possidenti del mondo, sui diritti delle persone costrette a lavorare per sopravvivere.
Quello che esce da questo tritatutto politico non è più riconoscibile come sinistra anche se ancora si definisce ed è definita tale. Alcuni dirigenti sindacali e politici si affannano a sostenere che questo rappresenta il modo giusto per guidare i processi e non subirli e, con questo, ritengono di legittimare il loro avvento al governo, al governo di un potere che sta già in altre mani e sempre di più fuori dal paese, in una Europa a trazione tedesca di cui ci facciamo paladini e, sempre più, sudditi. Blair, succeduto alla Thatcher, aveva definito questa linea la “terza via”, e le forze del socialismo europeo la imboccarono con decisione.
Giù per li rami delle Regioni riformate dal Governo Amato, il meccanismo delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, e delle relative perversioni gestionali, si sviluppa alimentando clientelismo e subalternità ammantati da altisonanti proclami di “concertazione” e contrattazione collaborativa.
Dove sta la sinistra? Dove i suoi principi di giustizia sociale, di eguaglianza e libertà, di primato del sociale e pubblico rispetto all’interesse privato? Dove l’obiettivo della piena e buona occupazione se il mercato del lavoro è disarticolato, il collocamento pubblico smantellato ed affidato a società private anche filiazioni delle Organizzazioni Sindacali o da esse partecipate?
Federico Caffè, che aveva guardato con riprovazione, nella “solitudine del riformista”, alle prime misure di taglio ai salari attraverso la decurtazione della indennità di Contingenza negli anni ’80, avrebbe detto parole di fuoco dinanzi a tanto scempio.
Persino i centri di formazione dei quadri e dei dirigenti politici e sindacali vengono chiusi a metà degli anni ’80 perché non si ritiene più necessaria la alimentazione di un pensiero autonomo e critico rispetto a quello dominante del capitalismo.
E’ il pensiero unico bellezza!
Sprazzi di sinistra si manifestano da parte del sindacato nel ventennio berlusconiano e trovano occasioni di espressione forte contro l’attacco allo Statuto dei Lavoratori e all’articolo 18 e gli ulteriori attacchi al sistema pensionistico. Eppure la CGIL resta sola a promuovere quelle battaglie sociali e resistere.
Ma già allora si capisce che è la opposizione a Berlusconi, di cui intanto si acquisiscono le forme della politica, a guidare le posizioni di quella forza ex comunista che ormai si definisce sinistra riformista e di governo, non certo la convinzione che quella difesa fosse giusta e necessaria. Del resto non è dato cogliere alcuna differenza sostanziale circa le politiche economiche e sociali, già omologate e, comunque, subordinate ai diktat condivisi dell’Unione Europea, della BCE e del Fondo Monetario Internazionale.
Non è un caso se la caduta di Berlusconi dà luogo alla gestione di una sorta di “stato d’eccezione” che, sotto la guida di Napolitano, viene affidata alla triste brigata di Monti nominato senatore a vita prima e, poi, fallito il gioco dello smacchiare il giaguaro, al Letta discepolo di Andreatta, per giungere nelle mani del bullo di Rignano a cui viene concesso di smantellare tutto quanto non era stato consentito a Berlusconi e quanto non erano riusciti a fare Monti e Letta.
Non c’è più lo Statuto dei lavoratori e il mercato del lavoro è liberalizzato e precarizzato a spese del contribuente (gli stessi lavoratori), il sistema previdenziale residuo continua ad essere sotto attacco e spinto alla privatizzazione come il sistema sociale della scuola e della sanità. La Costituzione è stata “deformata”, o “conformata” come chiedeva Jp Morgan e, per la sua approvazione, Renzi promuove un plebiscito.
Tutto questo avviene per volere di forze che vengono ancora definite di sinistra dai giornali e dalle televisioni malgrado il fondatore del PD Veltroni abbia, in più occasioni, dichiarato che aveva tolto dall’acronimo la lettera S proprio perché fondava un partito sul modello americano, non di sinistra.
Le residue forze della sinistra di un tempo, segnatamente Rifondazione Comunista e aree della sinistra sindacale e importanti movimenti sociali, per quanto immerse positivamente nei grandi movimenti mondiali per la Pace e contro il dilagare della globalizzazione neoliberista hanno resistito con tutte le energie disponibili, e relativi errori, sotto l’accusa di conservatorismo, di mancanza di cultura di governo, e ne sono uscite travolte in parte ed in parte cooptate in una ipotesi neo-socialdemocratica tanto proclamata quanto fatua.
Sul piano mondiale avevano colto, nei Forum Sociali Mondiali, le spinte dell’America Latina verso il Socialismo del XXI secolo, anch’esse oggi sotto l’attacco di quelli che il Premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel definisce “golpe blando” operato dal potere corruttivo della finanza globale di marca statunitense invece che dai soliti generali. Avevano dato vita alla straordinaria mobilitazione contro il G8 di Genova, repressa in maniera violenta e sanguinaria dal governo Berlusconi-Fini, nell’indifferenza della sinistra riformista, e, l’anno appresso, organizzato il Forum Sociale Europeo a Firenze.
Su quelle basi era maturata la sfida di partecipare al Governo Prodi che, non a caso, viene investito dall’offensiva europea, dai rinnovati venti di guerra e dalle manovre interne che ne fanno venir meno la maggioranza dopo 20 mesi. In quella esperienza la sinistra politica subisce un logoramento mortale e oggi sopravvive come una sorta di relitto che contiene naufraghi di grandi speranze.
I risultati elettorali delle liste di sinistra, che nella vulgata sono definite come a sinistra del PD, come se il PD fosse una forza di sinistra, confermano che c’è un nucleo che resiste e che sempre più è consapevole che la sinistra che abbiamo conosciuto non rinasce.
Ne può nascere una nuova, in un tempo più o meno lungo, e a questo fine vale la pena di lavorare a livello politico e ancor più a livello sociale e sindacale.
Può nascere. Non c’è chi non veda come l’attuale sistema, ancorché abbia consentito una dilatazione su scala mondiale del modello capitalistico con milioni di nuovi posti di lavoro e livelli di produzione mai visti, ha alimentato un esercito industriale di riserva impressionante per dimensione e qualità e, dunque, ha creato ricchezza sulla base di livelli di sfruttamento paragonabili a quelli dell’inizio della rivoluzione industriale. Salari sempre più bassi, orari di lavoro sempre più lunghi, lavoro precario e non garantito da adeguate coperture sociali fino al lavoro minorile e a forme di vero e proprio neo-schiavismo. Ovviamente ci vengono in mente la Cina, l’India, l’Africa, l’America Latina perché non abbiamo il coraggio e l’onestà intellettuale per ammettere quello che vediamo nelle periferie industriali del nostro continente e degli stessi Stati Uniti. Del resto i profitti che alimentano le vorticose roulette della finanza e le rendite che essa produce segnano le informazioni che i media ci descrivono come i segnali della crescita. Siccità, devastazione ambientale, milioni di affamati, la mortalità infantile e le migrazioni bibliche, nel mondo, e non solo quelle del Mediterraneo che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi per effetto delle guerre che l’Occidente ha innescato, ci vengono presentati come “danni ed effetti collaterali” di un modello che non va messo in discussione. A questi danni si deve fare fronte con i miseri interventi di sostegno degli stati per allontanare da se le ondate migratorie o, ancor meglio, appaltando a regimi dispotici e liberticidi il compito di impedire ai migranti di entrare nei paesi dell’Europa. E, infine, con gli appelli alla carità che ogni giornale o trasmissione televisiva che si rispetti lanciano indicando un numero su cui versare un obolo attraverso il telefono.
Ancor più impressionante la disattenzione ai fenomeni di imbarbarimento che si diffondono nelle città. Questi sono trattati come problemi di ordine pubblico perché leggerli con la lente della devianza sociale prodotta dalla disarticolazione della società, costringerebbe ad interrogarsi sul modello sociale che il neocapitalismo ha instaurato. E prenderne coscienza farebbe orrore al mondo benpensante plasmato dai messaggi televisivi che ci presentano i singoli episodi su cui indirizzare la indignazione e la riprovazione con annesso messaggio di accrescere le forme della repressione e della segregazione. Allontanare da sé la bruttezza, la barbarie, l’ingiustizia, il dolore, mette le società affluenti al riparo da crisi di coscienza. Avere forme di governo sempre più centralizzate ed autoritarie a cui delegare il compito di tutelare la generale indifferenza e garantire che possa continuare il lento ed inesorabile trasferimento di ricchezza e di potere dal basso verso l’alto, dai popoli verso le oligarchie, è considerata la ricetta che serve a dare sicurezza di continuità al sistema.
Del resto la domanda più diffusa che si sente nei luoghi delle città dell’Occidente non è forse quella che dice: “ma qual è l’alternativa”? E già. Perché il capitalismo nella sua fase attuale di liberismo finanziario globalizzato ha costruito una egemonia, ha fatto cultura e la produce e riproduce quotidianamente: questo è l’ordine “naturale” delle cose.
La sinistra è stata, è, e potrà/dovrà tornare esattamente quella forza che mette in discussione, revoca in dubbio la naturalità dell’ordine delle cose presente e lo riconsidera come il prodotto di scelte compiute dall’uomo che si è avvalso di tutte le conquiste della scienza e della tecnologia e ha risolto secondo questo modello il conflitto sociale, i rapporti sociali di produzione. In questa fase ha vinto la destra che ha il potere economico e finanziario e ha avuto la forza di imporre il suo modello oligarchico come modello naturale.
Per questo non dicono più nulla le descrizioni di destra e sinistra fondate sulla distribuzione dei posti nei Parlamenti e nelle Assemblee elettive. E non è un caso che tanti movimenti sociali e politici che si sono manifestati e crescono nei paesi dell’Occidente, e a guardar bene anche in Cina, si sono organizzati e si organizzano come movimenti “antisistema”, indifferenti rispetto alle forze politiche, comunque collocate nei Parlamenti, che hanno gestito e gestiscono questo modello neoliberista. Altrettanto non a caso sono bollati come “antisistema”, quindi come un pericolo per l’ordine delle cose, da tutta quella pletora di funzionari del capitale, si sarebbe detto una volta ma il concetto è di bruciante attualità, che da ogni cattedra o pulpito, da ogni foglio di giornale o schermo televisivo, sono impegnati a spiegarci che questi movimenti è bene tenerli fuori dalla cittadella della società del nostro sistema.
Ed è grave che anche tra intellettuali e politici formatisi all’antica cultura della sinistra novecentesca, quando il discrimine tra le classi era più marcato e visibile, gli operai da una parte i padroni dall’altra, ce ne siano ancora tanti che storcono il naso circa la collocazione di classe di questi movimenti che, spesso esplicitamente, affermano di non essere “né di destra né di sinistra”. Anche a loro fa velo la storica collocazione parlamentare e leggono con quella lente anche le vere e proprie rivolte che in vario modo si manifestano nel mondo capitalista. Pensiamo alle discussioni attorno alla natura di Podemos in Spagna, di Occupy Wall Stret in America o, più vicino a noi, del Movimento 5 Stelle.
Mi pare evidente che, lasciata cadere colpevolmente la discriminante tra capitalismo e socialismo, anche in ragione del crollo del sistema sovietico sotto il peso della sua stessa chiusura burocratica, tra due modelli alternativi di società, il confronto e la lotta si sviluppino tra alto e basso della società, tra chi ha il potere e chi non lo ha, tra le élite e le masse. E mi pare altrettanto naturale che questo scontro si manifesti anche come critica alla politica intesa come “casta” privilegiata colpevole di avere determinato lo stato di diseguaglianze e di ingiustizie. E, aggiungo, che non è un caso che questa critica alla “casta”, animata dal grande giornale della borghesia, sia fatta propria dal Presidente del Consiglio proprio in funzione del suo modello di Costituzione, per smorzare l’attacco e deviarlo rispetto al tema centrale che è quello della critica al sistema sociale ed economico. E evidente che è in campo una manovra strategica, che Gramsci definiva come “sovversivismo delle classi dirigenti”, volta a distrarre i movimenti di lotta ed orientarli verso obiettivi secondari al fine di difendere e consolidare il blocco sociale di classe in difesa del sistema.
E’ significativo il fatto che Corbyn in Inghilterra e Sanders negli Stati Uniti siano proprio sul quel discrimine, ciascuno rapportato alla società in cui agisce, per rappresentare la loro critica al sistema neoliberista, e abbiano un riscontro imprevedibile tra le nuove generazioni messe, appunto, fuori dalla cittadella. E dovrebbe pur dire qualcosa il fatto che le leadership cosiddette di sinistra siano sostenute ed osannate dal mondo imprenditoriale e della finanza proprio perché si fanno artefici dei più violenti e radicali attacchi alle conquiste e alla condizione dei lavoratori.
La sinistra non può essere una etichetta bugiarda per contrabbandare il contrario di ciò che era vocata a rappresentare. Proprio per questo la costruzione della sinistra nell’epoca presente, se, per un verso, non può prescindere dall’assumere quel discrimine tra due modelli di società, non può essere concepita nella riproduzione dei modelli di organizzazione e di rappresentanza che aveva sperimentato nel ‘900.
Non sarà un lavoro facile perché, intanto, si tratta di eliminare tutte le incrostazioni che si sono stratificate circa la percezione e la lettura corretta dei fenomeni sociali e, insieme, restituire il significato proprio alle parole. Serviranno tempi medio lunghi per determinare, attraverso lo studio, l’informazione e la formazione, quella massa critica di forza culturale e di rappresentanza sociale organizzata capace di dare significato al progetto di alternativa di società. Serve costruire un nuovo pensiero critico capace di significare l’autonomia dal e l’alternatività al sistema. E serve ricominciare a studiare seriamente il nuovo mercato e la nuova organizzazione del lavoro nei cicli produttivi e riproduttivi che connotano la società come si è storicamente determinata attraverso le ristrutturazioni del capitalismo in questi anni di centralizzazione finanziaria della struttura di comando e di articolazione e dislocazione dei processi produttivi delle imprese multinazionali su scala mondiale.
Un punto centrale di questa nuova costruzione attiene al recupero di autonomia da parte del sindacato essendo ormai evidente che le pratiche concertative nelle quali è stato coinvolto sempre più organicamente sono state funzionali all’obiettivo di cancellare il conflitto e subordinare la condizione del lavoro al comando dell’impresa. L’impresa, specie nella sua dimensione multinazionale, rivendica ormai il primato rispetto alla politica e, persino, rispetto alla sovranità degli Stati. La cooptazione del ceto politico sindacale nel meccanismo concertativo lo ha legato alla logica di governo e, di conseguenza, lo ha reso sempre più estraneo, quando non opposto, alle esigenze dei lavoratori. Non è un caso che quando l’attacco alla concertazione, e la conseguente offensiva sui diritti al lavoro e nel lavoro, dallo Statuto alla previdenza, viene mosso dal fronte padronale e dal governo il sindacato si chiude in una logica difensiva non condivisa dai lavoratori e che, per di più, lo espone all’accusa di conservatorismo nella difesa di condizioni di privilegio degli occupati stabili. Così resta nella tenaglia dell’attacco padronale sulla contrattazione e dell’azione del governo che usa il mondo del lavoro disoccupato e precario come un maglio per sferrare i colpi più duri alle conquiste storiche del movimento operaio. Il sindacato deve finalmente superare l’illusione maturata nell’era berlusconiana, considerata una disgrazia transitoria da superare, per riprendere il ruolo di partecipante al tavolo della concertazione. E’ costretto a definire il suo nuovo progetto se vuole esistere come soggetto effettivamente rappresentativo del mondo del lavoro. E, per farlo, deve tornare a far vivere le parole che Fernando Santi disse nel suo discorso di commiato dalla CGIL: “In realtà molte cose si possono chiedere al sindacato. Soltanto una non può essere chiesta: che il sindacato rinunci ad essere se stesso, che rinunci alla sua responsabile ma autonoma amministrazione della forza lavoro, che esso deleghi ad altri, partito o governi, la propria naturale funzione senza la quale il sindacato decade e scompare.”
Rompere la tenaglia nella quale il sindacato e rimasto incastrato è condizione vitale per recuperare l’autonomia nella contrattazione e salvaguardare così l’unità della classe lavoratrice e, anzi, ricostruire la propria rappresentanza generale che comprenda l’area del precariato variamente strutturato e i disoccupati. Schierarsi senza tentennamenti nella difesa del welfare pubblico ed universale rompendo l’ambiguità rispetto ai disegni di privatizzazione, anche attraverso accordi contrattuali, che si muovono sui terreni della sanità, della previdenza e persino dei servizi sociali; e, a questo fine, rimuovere tutte quelle realtà nelle quali è cresciuto un consociativismo corporativo e clientelare che è fonte di inefficienza, di sprechi e, talvolta, di malaffare. Assumere come priorità la organizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori precari e del lavoro definito autonomo e, in realtà, integrato in cicli produttivi di beni materiali e dei servizi.
La costruzione della coalizione sociale, per quanto difficile nella frantumazione del mercato del lavoro attuale, è condizione necessaria anche se non sufficiente. E se spetta al sindacato recuperare il suo ruolo e la sua autonomia, pena la decadenza e la scomparsa, serve costruire il soggetto politico capace di elaborare e sostenere la resistenza e l’opposizione al sistema neoliberista in nome del lavoro, dell’uguaglianza e della libertà e, soprattutto, di progettare l’alternativa necessaria e possibile al capitalismo dell’epoca presente.
Non mi soffermo sulla miseria culturale e politica di cui danno testimonianza triste tutte le formazioni, che ancora legittimamente si definiscono di sinistra, sopravvissute come relitti del grande naufragio di cui siamo stati partecipi e non solo testimoni; penso che la loro possibile rilegittimazione risieda in una profonda operazione di verità autocritica anche quando si tratta di testimoniare i termini della propria sconfitta.
Non c’è, infatti, alcun dubbio che alla omologazione nel pensiero unico del modello neoliberista alcune parti si sono sottratte mentre altre hanno pensato di assumerne la direzione. Ma questa incondizionata azione di verità va fatta proprio per marcare definitivamente la discontinuità con le esperienze fatte e acquisire la credibilità necessaria per essere partecipi del nuovo inizio oltre la proclamata determinazione di creare una sinistra unita. Non si tratta, infatti, di produrre coalizioni elettorali capaci di assicurare una presenza, pur preziosa e necessaria, nelle assemblee elettive, ma di mettere in campo un progetto ed una strategia di alternativa.
L’alternativa al sistema dello sfruttamento, della disuguaglianza e della competizione, del dominio della finanza e dell’impresa capitalistica, della concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di pochi, del mercato che certifica la legge del più forte e delle guerre per affermare il controllo su scala mondiale, non può che fondarsi sul recupero dei valori d’uso rispetto ai valori di scambio, sul recupero e la pratica dell’uguaglianza e della cooperazione in alternativa alla guerra, sull’uso non speculativo delle risorse naturali e sul rispetto della natura, sulla partecipazione attiva di tutti i soggetti sociali, per la costruzione di un sistema fatto di persone libere ed uguali.
L’alternativa al dominio dei pochi è il controllo sociale, responsabile e partecipato, di tutti.
Agli albori del capitalismo, il prodotto storico della evoluzione dei rapporti sociali, questa alternativa era stata definita Socialismo e le diverse componenti politiche della sinistra nel movimento operaio lo avevano interpretarlo diversamente e proporsi di realizzarlo con strategie e metodi diversi. Bisogna riconoscere che quelle diverse strategie, e i modelli di società che ne sono scaturiti sono falliti e il loro fallimento ha consentito al capitalismo di perseguire la sua vocazione totalitaria di cui oggi l’umanità e l’insieme del pianeta pagano il prezzo.
Ma non per questo è venuta meno la necessità lucidamente e drammaticamente evocata da Rosa Luxemburg mentre si svolgeva la Grande Guerra: “Socialismo o barbarie”. Oggi questa alternativa si ripropone in dimensione ed urgenza enormemente maggiori. Per questo ricostruire la sinistra è urgente oltre che necessario.