Francia, riapre lo stadio della paura

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-di ANTONIO MAGLIE-

Quando aprì quello stadio venne candidato a trasformarsi in uno dei simboli della nuova “Francia Felix”. La “casa” di una nazionale vincente e, soprattutto, multiculturale essendo composta per una abbondante metà da francesi “d’importazione”. Simbolo materiale di uno sforzo di integrazione, una sorta di ponte ideale tra la “Ville lumiere” e la “ville sans lumiere”, con la prima troppo vicina alla seconda (divise com’erano e come sono da un anello stradale, la Peripherique, perennemente intasato) per non evocare l’dea di due mondi separati, diversi e culturalmente inconciliabili. Quando in una fredda sera di gennaio del 1998 (il 27 per la precisione) venne inaugurato in tribuna c’era il presidente della Repubblica, Jacques Chirac che, sebbene avvolto in una calda coperta, non aveva resistito alla tentazione di approfittare della scena offerta dalla partita amichevole tra la Francia e la Spagna, per santificare il suo trionfi passati (l’ascesa all’Eliseo avvenuta solo tre anni prima) e quelli futuri (la sorte, in realtà, si rivelerà meno generosa del previsto).

Ora Saint Denis più che per quello stadio è ricordata per l’assalto a quello che è stato definito il “fortino” dei terroristi islamici che nella serata dello scorso 13 novembre hanno seminato morte per le strade di Parigi, dal centro sino allo “stade de France” proprio mentre in tribuna d’onore sedeva un altro presidente, Francois Hollande, per assistere a un’altra partita amichevole, questa volta con la Germania. Un assedio durato ore, una vera e propria guerra su un campo di battaglia non più grande di un fazzoletto, tra Rue de la Republique e Rue du Corbillon; cinquemila bossoli lasciati sul terreno, un terrorista ucciso, una terrorista che si fa esplodere, tre che vengono arrestati. In quei giorni si è capito che nulla di tutto quello che era stato immaginato con l’edificazione di quello stadio, con la trasformazione di quella banlieue nel palcoscenico della più grande e seguita manifestazione sportiva (dopo le Olimpiadi) cioè il Mondiale di calcio (per giunta vinto dalla nazionale di casa), era stato concretizzato.

Non l’integrazione perché le banlieues sono rimaste un mondo a parte tanto da trasformarsi, qualche anno dopo la conquista del titolo calcistico da parte della nazionale più multietnica tra quelle scese in campo, in polveriere della rabbia giovanile esplosa dopo l’uccisione di due ragazzini. L’annuncio di quel che sarebbe avvenuto dopo perché già allora, nelle moschee, alcuni si dedicavano alla coltivazione dei semi dell’odio. E quando si è scoperto che a Saint Denis, a settecento metri dallo stadio che aveva esultato senza distinzione di razza e religione al trionfo di Zinedine Zidane, algerino e musulmano, il fondamentalismo aveva costruito radici così profonde da ospitare un vero e proprio “fortino” di terroristi, veramente in pochi si sono stupiti. I segnali c’erano già tutti.

D’altro canto, la scelta del luogo in cui edificare l’impianto che il 12 luglio del 1998 aveva ospitato la sfida conclusiva tra la Francia di Zizou e il Brasile di Ronaldo, non era stata casuale. Da noi i sindaci la chiamano “riqualificazione”. E quello era l’obiettivo anche in Francia: creare le condizioni per lanciare segnali di “inclusione”, per provare a colmare un fossato che si era allargato nell’indifferenza dei politici e di una classe di governo che annegata nella cultura dellaGrandeur faticava a fare i conti con le piccole cose della quotidianità, quelle che consentono a una comunità di essere veramente tale e non la somma approssimativa di anime disperse. In quello stadio avrebbe dovuto giocare anche la più importante squadra cittadina, il Paris Saint Germain che, però, declinò l’invito preferendo rimanere nello storico e più centrale impianto che porta un nome in linea con la Grandeur: Parc des Princes. A Saint Denis, invece, di principi ve ne erano pochi. Non bastò il trionfo di una nazionale che tra le sue fila ospitava calciatori originari della Guadalupa (Thuram, Diomede e Henry), del Ghana (Desailly), della Nuova Caledonia (Karembeu), del Senegal (Viera), dell’Algeria (Zidane), della Guyana Francese (Lama) per rimpicciolire quel fossato. Per una sera, una notte i “francesi d’importazione” invasero le strade del centro, entrando dalla Porte de Clignancourt e sciamando verso l’Etoile e gli Champs-Elisées, forse pensando che quel successo ottenuto grazie al contributo di gente come loro, “figli” delle vecchie “colonie”, avrebbe d’incanto cancellato quel confine ideale tra due universi.

Stasera lo stadio riaprirà i battenti: la Francia affronterà la Romania; comincia il campionato europeo di calcio più blindato di tutti i tempi. Ma i ricordi che Saint Denis evocherà saranno quelli legati alla strage del Bataclan, alle esplosioni che fecero sussultare gli spettatori sulle tribune che in un primo momento le scambiarono per semplici petardi un po’ più rumorosi del normale, alla prima carneficina di Charlie-Hebdo. La Francia sportiva per poter ospitare questa manifestazione gettò sul tavolo tutta la sua potenza politico-calcistica, potendo contare, all’epoca, sulla presenza di un francese (Michel Platini poi travolto da uno scandalo al vertice dell’organizzazione che l’assegna. Quando il 10 luglio del 2010 ci furono le votazioni per decidere chi avrebbe dovuto organizzare il torneo europeo, si presentarono anche l’Italia e la Turchia. Oggi, a distanza di sei anni, l’unico paese che sembra essere non al riparo ma in una posizione un po’ più defilata rispetto ai rischi terroristici, è il nostro e chissà quanti, tra quelli che allora votarono, oggi vorrebbero tanto tornare indietro. Sarà un mese ad alta preoccupazione e tutti confidano che non sia anche ad alta tensione. Ma se nell’antichità le Olimpiadi si fermavano per consentire agli atleti di attraversare indenni i teatri di battaglia, c’è da dubitare che i terroristi coltivino medesima sensibilità. Anzi per loro forse vale l’esatto contrario.

 

 

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