Matteotti, grandezza di un “inutile” eroe

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-di GIANNA GRANATI-

All’inizio del 1924, rivolgendosi ai giovani, Matteotti scrive: “Tutte le grandi cause della civiltà hanno dovuto avere prima le loro vittime, i loro martiri, gli inutili (sottolineato nel testo) eroi che hanno aperto gli occhi e la strada agli altri”

Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti, deputato socialista, è rapito e assassinato da sicari fascisti. Il 30 maggio, alla Camera dei deputati, aveva pronunciato un violento j’accuse contro il regime per come erano state condotte le elezioni, inficiate da brogli e segnate da fatti di sangue.

L’inchiesta sull’orrendo delitto accerta moventi, esecutori e mandanti ma i magistrati che si erano occupati dell’istruttoria a Roma, Mauro Del Giudice e Gugliemo Tancredi, vengono sollevati dall’incarico che passa a Nicodemo Del Vasto, cognato di Roberto Farinacci, segretario nazionale del Partito fascista nonché avvocato difensore di uno degli imputati, Amerigo Dumini. Gli altri imputati sono Francesco Giunta, Cesare Rossi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Augusto Malacria e Filippo Filippelli.

Dumini, Volpi, Viola, Poveromo e Malacria ammettono di aver partecipato al rapimento.

La fase preliminare del procedimento si conclude con l’accoglimento della richiesta del rinvio a giudizio dei cinque esecutori materiali dell’omicidio di Matteotti, escludendo però la premeditazione. La Corte di Cassazione accoglie l’istanza del Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma e rimette il giudizio alla Corte di Assise di Chieti per “gravi motivi di ordine pubblico”. Il processo inizia il 16 marzo 1926 e termina il 24 dello stesso mese con il pronunciamento della sentenza definitiva. I giurati ritengono colpevoli i soli Dumini, Volpi e Poveromo che sono condannati a cinque anni, undici mesi e sei giorni per omicidio preterintenzionale, mentre assolve Viola e Malacria per non aver commesso il fatto. I condannati rimasero poco in carcere perché usufruirono dell’amnistia concessa per i reati politici che prevedeva una riduzione della pena fino a quattro anni per i casi di omicidio. E non bastò perché ebbero dal regime, oltre al condono, anche segni tangibili di riconoscenza a seguito di richieste ricattatorie.

Al processo-farsa di Chieti Nenni dedicò un opuscolo: “L’assassinio di Matteotti e il processo al regime” che inchioda Mussolini alle sue responsabilità. Lo scritto gli valse la condanna a sei mesi che Nenni sconta nel carcere di Milano. Lo conforta, durante la detenzione, ricevere una lunga lettera di Filippo Turati che in quella stessa cella aveva scontato la pena alla quale era stato condannato per i moti della fame del 1898, moti che avevano segnato in modo indelebile la vita di Pietro Nenni.

 

 

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