-di Angelo Gentile-
“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene”. Così si raccontava il principe di Salina nel libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Con realismo condito di pessimismo illustrava i difetti degli italiani, la velocità con la quale, al pari del comandante Schettino, abbandonano la nave che affonda, la propensione, come diceva Ennio Flaiano, a correre in soccorso del vincitore, il sempiterno trasformismo, la scarsa dotazione di religione civile che induce molti dei nostri connazionali a ispirarsi a Guglielmo Giannini e al suo Uomo Qualunque (o, per dirla alla Musil, all’uomo senza qualità), la tendenza a trasformare nel giro di poche ore la gratitudine di ieri nell’ingratitudine di oggi. La lettura dei risultati elettorali ha indotto Matteo Salvini ad affermare dai microfoni di Radio Padania: “Il mio obiettivo è di creare una coalizione senza vecchi arnesi del passato, guardando avanti e sperando che ci sia voglia da parte degli altri. Se non c’è questa voglia, siamo disposti a ragionare in solitudine ma sapendo che i numeri fanno la differenza”. E ancora: “Su Berlusconi sospendiamo il giudizio. Amministriamo bene in tante realtà locali, ma un altro conto è un accordo nazionale, dove le idee devono essere chiare, soprattutto sull’Europa”.
A volte gli avversari, soprattutto se leali e non ottenebrati da pregiudizi dogmatici, riescono ad essere nelle valutazioni più equanimi degli amici o presunti tali. Salvini ha da tempo lanciato un’Opa sulla destra italiana senza rendersi conto che né lui né Giorgia Meloni possono ambire a essere il futuro di questa area che in Italia è sicuramente vasta ma anche molto frammentata e tanto la Lega Nord quanto Fratelli d’Italia rappresentano lo spezzone più estremo, non a caso quello che riesce più agevolmente a coalizzarsi ma anche quello che più difficilmente riesce ad aggregare tutto il consenso potenziale che ora trova una sponda affascinante nel Movimento 5 stelle. Berlusconi è stato una anomalia del sistema politico italiano. Ma se è legittimo che chi lo riteneva tale oggi non appaia particolarmente intristito dal suo declino, ben altro atteggiamento dovrebbero avere chi, grazie a lui, è stato letteralmente sdoganato sul mercato della politica. Anche perché è molto difficile che il vuoto da lui lasciato possa essere colmato da chi più apertamente appare intenzionato ad avventurarsi in quella impresa.
Il fatto che Stefano Parisi abbia ottenuto a Milano un grande successo non rafforza le tesi dei due leader dell’estrema destra ma, semmai, conferma proprio la difficoltà a ricostruire politicamente un’area che aveva trovato il suo equilibrio grazie a Berlusconi. Il candidato sindaco, infatti, ha veramente poco a che spartire con l’immagine della destra che proiettano tanto Salvini quanto Meloni e sottolinea, al contrario, come operazioni di questo tipo abbiano bisogno più di equilibrio e genialità che di urla, insulti e muscoli. Tanto il capo della Lega Nord quanto la leader di Fratelli d’Italia, poi, dovrebbero mostrare nei confronti dell’ex cavaliere maggiore gratitudine. Di tanto in tanto, qualche ripetizione di storia recente non fa male. Dal primo successo belusconiano alle elezioni (1994) sono trascorsi ventidue anni; in questo arco di tempo la parte di Salvini e quella della Meloni sono stati al governo grazie al fondatore di Forza Italia per ben dieci anni (avrebbero potuto essere anche di più se nel 1995 la Lega Nord, cioè il partito oggi guidato da Salvini, non avesse tolto l’appoggio all’esecutivo di centro-destra). Un risultato dovuto da un lato alla potenza economica e mediatica del patron di Mediaset e dall’altro alla sua capacità di presentarsi, quanto meno a parole, come un “moderato” e, in questa veste, in grado di consegnare alla coalizione anche i voti (non pochi) di quegli elettori che dai messaggi di Salvini e dal passato ideologico di Meloni e La Russa sono se non spaventati, almeno preoccupati.
Berlusconi ha costruito un partito e una coalizione a sua immagine e somiglianza ma creandoli ha finito per premiare anche chi maggioranza non sarebbe mai diventato senza la sua famosa “discesa in campo”. Semmai le sue responsabilità sono altre, figlie della sua “anomalia”, prima fra tutte non aver mai costruito una vera forza politica capace di camminare con le sue gambe, aver infarcito i suoi messaggi di populismo senza chiari riferimenti ideali e culturali, non aver edificato quella seria destra repubblicana e costituzionale che a questo Paese è sempre mancata essendo soprattutto interessato a conquistare e gestire il potere. Ciò non toglie che sia stato in quell’area un punto di equilibrio e il suo declino ne ha determinato inevitabilmente l’implosione. Si è sempre detto che in Italia (e non solo) si governi dal centro: principio che vale per il Paese e ancora di più per i partiti. Parisi a Milano ha funzionato perché ha replicato a ventidue anni di distanza il “miracolo” elettorale del 1994: senza di lui i voti leghisti sarebbero stati numerosi ma inutilizzabili. E inutilizzati sono rimasti quelli della Meloni a Roma a conferma che senza l’area più moderata la destra resta robusta ma difficilmente maggioritaria. E, allora, questa voglia di liberarsi del “padre” può essere funzionale alle personali ambizioni elettorali ma non alla replica di quella lunga parentesi di successi che l’ex cavaliere ha garantito per due decenni. A sé stesso, ai suoi interessi e anche a quelli di Bossi, Maroni, Salvini, Meloni, La Russa e Alemanno.