Oggi si vota. Come ha sottolineato il premier, Matteo Renzi, per i sindaci. Ma non esistono voti che hanno un valore solo amministrativo ed altri che hanno una connotazione esclusivamente politica. I due aspetti si sovrappongono: chi è soddisfatto delle scelte del governo nazionale sarà inevitabilmente più propenso a valutare positivamente la proposta “locale” di chi fa riferimento al partito al potere; chi sarà scontento di Palazzo Chigi punterà inevitabilmente (come hanno fatto Grillo, Meloni e Salvini) a trasformare la consultazione in un “referendum” non soltanto su chi ha amministrato la città ma anche su chi amministra il Paese nel suo complesso. Le pessime prove offerte dalle classi dirigenti locali hanno evidentemente contribuito ad allontanare gli italiani dalle urne. I dati reali (non i sondaggi, sempre piuttosto claudicanti nel nostro Paese) lo spiegano con chiarezza. Tre anni fa, alle politiche, un quarto del corpo elettorale decise di non presentarsi alle urne. Ma l’anno dopo quella percentuale salì alle Europee al 42 per cento per schizzare al 56 per cento alle regionali calabresi e al 62 in quelle emiliano-romagnole. E nel 2015 le cose non sono andate molto meglio visto che in Toscana e in Campania il 48 per cento decise di non votare, in Puglia il 49, nelle Marche poco più del 50; brillarono per partecipazione gli umbri limitando l’assenteismo al 44 per cento. È giusto? È legittimo? Sicuramente. È un atteggiamento produttivo? Risolutivo? Dubitiamo. Siamo in una fase di passioni molto più che tiepide. La realtà (soprattutto economica) è deludente; la qualità della politica e dei politici insoddisfacente; i grandi sogni appassiti nel confronto con realizzazioni molto più che mediocri. Ma se c’è un aspetto della vita in cui “l’obiezione di coscienza” si trasforma in sostanziale incoscienza, quell’aspetto è il momento elettorale, l’esercizio del diritto a esprimere il proprio personalissimo parere nel segreto di un’urna. Oggi si tende a confondere la politica con la pratica del potere: il suo aspetto nobile (strumento di trasformazione e di composizione di interessi diversi e contrapposti) è andato disperso in una quotidianità caratterizzata da un alto livello di avventurismo e da un bassissimo livello di pubblica moralità. E, allora, il nostro appello a votare vogliamo lanciarlo attraverso le parole che un leader socialista pronunciò in un congresso che si svolse a Roma quarantotto anni fa, in un’epoca di passioni fortissime e di sogni grandi e ingenui o ingenuamente grandi. Tempi diversi, condizioni diverse. Eppure le inquietudini di allora e quelle di oggi sembrano avere tratti comuni; il rifiuto giovanile dei politici di allora si esprimeva in maniera diversa ma nella sostanza appare simile al rifiuto che viene manifestato oggi; anche il richiamo al socialismo come bisogno non futuribile ma fortemente radicato nel presente è lo stesso richiamo a una società più giusta e socialmente sicura che in maniera informe oggi emerge da un’Italia in cui le tutele del diritto e del welfare sono crollate mentre la distribuzione della ricchezza è diventata sempre più iniqua.
-di RICCARDO LOMBARDI*-
… Non dimentichiamo che la stabilità di governo, la stabilità di amministrazione, oggi significa anche stabilità sociale giacché in una società come quella italiana – che, se non ha ancora raggiunto il pieno dispiegamento del neocapitalismo tuttavia vi si avvicina, marcia cioè verso quel tipo di società americana che Galbraith recentemente definiva non più come “società affluente”, ma come “società confluente”, nella quale sono essenziali vincoli stretti di interdipendenza fra grandi imprese e governo -, stabilizzare il governo, dare priorità alla stabilità di governo, significa necessariamente stabilizzare la società; e a essere elementi stabilizzatori della società i socialisti hanno scarsa vocazione, perché essi sono chiamati socialisti appunto in quanto tendono a rompere l’equilibrio esistente per portare nuovi equilibri, più elevati e più democratici.
Compagni, oggi ci troviamo in una società che rapidamente brucia le tappe: quello che avveniva altre volte nel corso di cento anni avviene oggi in dieci anni, e forse in meno; e già le condizioni che nel 1962-63 resero possibile, e utile, il centro-sinistra (né io mi pento di averlo allora appoggiato e sostenuto) non esistono più. Non sono soltanto il fallimento e la degradazione del centro-sinistra, così brillantemente iniziato nel 1963, che mi portano a questo convincimento, quanto la persuasione che oggi non esistono più le condizioni per una proponibilità, anche in condizioni analoghe, di un centro-sinistra riformatore.
Compagni, noi viviamo in una società nella quale le richieste giustificate, motivate e irrimandabili, anche di riforme sociali (quello che una volta veniva chiamato “riformismo spicciolo”, e non lo era: le pensioni, le case , l’assistenza, le scuole) hanno raggiunto un tale livello di coscienza, nei lavoratori e soprattutto nelle nuove generazioni, che per soddisfarle ci vogliono mezzi e volontà politica incompatibili con l’attuale rapporto di reddito e di potere nella società italiana, il che esige una riforma e un’alterazione profonda e dei rapporti di reddito e dei rapporti di potere fra le classi. L’attuazione di queste riforme esige una lotta combattuta che non può essere dunque un cammino confortevole; è una lotta, quella per le riforme, che non può non essere fatta contro qualcuno…
… Fare le riforme, infatti, significa, trasferire redditi e potere da alcune classi ad altre classi, e dunque ci deve essere qualcuno che ne paghi il prezzo. È certo che una società in movimento, e in movimento impetuoso verso il socialismo, schiaccia molte cose; ma se è una società immobile non schiaccia, ma soffoca tutta la popolazione.
Ora noi assistiamo a questo imponente dispiegarsi della protesta giovanile e della protesta operaia, pur se si tratta di una protesta contraddittoria, come tutte le cose che nascono, che non hanno trovato, non trovano e rischiano di non trovare nemmeno in futuro un’area di sbocco politico. Ma questa gioventù ha riscoperto – per noi che forse eravamo diventati ciechi e miopi – il grado non soltanto di insoddisfazione per questa società. Ma di protesta e di rifiuto di questa società; ha compreso non soltanto l’inaccettabilità e l’ingiustizia della società capitalistica, ma il suo carattere sordido e dispersivo, il suo carattere noioso e autoritario. I giovami nella loro rivolta ci hanno aiutato a riscoprire nelle sue vere dimensioni il problema del passaggio al socialismo, che non è più un problema della società di domani, ma un problema che la nostra, che la vostra generazione può affrontare e risolvere. I giovani non sanno più che farsene di una società come quella che noi abbiamo dato loro; ed hanno ragione. Essi sono in soddisfatti e protestano. Qualcuno si lamenta che essi protestano perfino contro il richiamo alla Resistenza. Guardiamo le cose nella loro vera realtà, compagni. I giovani non vogliono più essere amministrati da uomini che sono venuti da altre lotte e da altro sangue. Essi sono stanchi della tutela della “associazione mondiale degli antichi combattenti”. I combattenti di oggi combattono per altre battaglie, e a queste battaglie noi dobbiamo dare il nostro aiuto e la nostra comprensione.
Il centro-sinistra che ci si può proporre oggi ha un difetto di fondo: e il difetto è che gli manca il legame con i fatti; e questo legame con i fatti non può essere sostituito dal legame con le parole.
* Intervento al trentottesimo congresso socialista che si svolse a Roma dal 23 al 27 ottobre 1968