-di SANDRO ROAZZI-
Il primo maggio 1946 a poco più di un mese dalla nascita della Repubblica, “l’Unità” usciva con un titolo che recitava così “lottiamo uniti contro il fascismo e per la Repubblica”. La guerra era finita, la dittatura era caduta ma il richiamo al periodo fascista era ancora più che mai valido per sostenere il voto repubblicano, al di là delle turbative provocate da nostalgici sostenitori di destra.
Dietro questa scelta di comunicazione probabilmente c’era la storia appena compiuta della lotte operaie e contadine degli ultimi anni della guerra, dal 5 marzo 1943 quando scattarono gli scioperi alla Fiat che si propagarono poi in tutto il triangolo industriale e che rivendicavano aumenti salariali, generi alimentari e condizioni di vita meno drammatiche ma contro, come terminava un volantino dell’epoca “contro i magnati dell’industria, i saccheggiatori tedeschi, i fascisti traditori”. Scioperi, lotte e difese degli impianti che non cessarono più fino alla liberazione.
Fu… Resistenza non armata ma che provocò danni notevoli colpendo in modo inesorabile gli ultimi terribili spasmi del nazifascismo nelle regioni del nord e sancì l’emergere di nuovi gruppi dirigenti sindacali e non solo, mentre altrove si ponevano le basi per la prima esperienza di unità sindacale.
Questa ritrovata capacità di lotta fu certamente una semina importante anche per diffondere nella classe lavoratrice la scelta repubblicana che era considerata dai dirigenti dell’epoca l’unica possibile in continuità con lo sforzo di risollevare l’Italia dalle macerie ed al tempo stesso di consolidare conquiste di libertà e di avanzamento civile e sociale.
Ma la composizione sociale del Paese, sul piano territoriale come su quello culturale e politico era assai variegata come dimostrò l’esito del voto del Referendum. Pesavano tradizioni, arretratezze, timori, come pure richiami di quella parte della Chiesa che pur criticando il Re Vittorio Emanuele III riteneva la monarchia assai più tranquillizzante dell’avventura repubblicana che si colorava di… ”rosso”. Anche se nella lotta clandestina non pochi preti avevano speso il loro coraggio non solo per sostenere la causa della Resistenza al nazismo ma anche per avviare un dialogo preveggente con laici, socialisti e comunisti, come testimonia il periodo del “Laterano” a Roma con molti dei maggiori leader antifascisti, non solo luogo di rifugio extraterritoriale ma anche sede di confronti importanti per la nascita dei primi governi democratici e per stabilire comunque rapporti che avrebbero dato frutti importanti nel definire la nuova Costituzione e nel garantire i futuri equilibri politici.
I lavoratori italiani avevano di fronte a loro lo spettacolo di un Paese in rovina, mentre incombeva su di loro lo spettro della disoccupazione e della fame. Proprio negli anni precedenti il 1946 si erano stipulati accordi fondamentali o sanciti istituti essenziali come quello sulla cassa integrazione (istituita nel novembre 1945): si va dalle intese sui licenziamenti firmati dalla Cgil unitaria per accelerare la ricostruzione, agli accordi salariali e alla nascita della scala mobile che si destreggiavano fra la necessità di evitare un’inflazione galoppante e quella di proteggere i salari dal carovita. Ecco come il libro di Bonifazi e Salvarani “Dalla parte dei lavoratori” descriveva la situazione: “L’inflazione aveva raggiunto il 130% facendo precipitare l’indice dei salari e delle retribuzioni il cui indice medio nel 1945 era inferiore del 27% a quello del 1938…”. Il 23 maggio 1946 a pochi giorni dal voto referendario si stipulò un altro accordo di grande valenza in quanto unificava i trattamenti dei lavoratori dei diversi settori industriali, quale che fosse la zona ove operavano.
Questo era lo scenario che non perseguiva una strategia precisa ma fra disarticolazioni, scelte generali, risposte ad esigenze particolari avanzava nelle diverse realtà del Paese. E non c’erano solo gli avvenimenti contrattuali ma soprattutto nel nord agivano, sopravvivenze del CNLAI, i consigli di gestione i cui compiti erano i più eterogenei ma senza arrivare ad esperienze consolidate di cogestione sugli indirizzi delle aziende. Il Ministro socialista dell’Industria, Rodolfo Morandi, provò a farli riconoscere con un provvedimento legislativo nel 1946 ma senza successo. Non arrivarono a vedere gli anni ’50.
Eppure è difficile non considerare questo fermento, che scuoteva il vecchio ordine e guardava oltre le rovine con speranza ed entusiasmo, ininfluente nel confronto aspro sul dilemma Monarchia o Repubblica. Tutt’altro.
Un confronto che già negli ultimi anni di guerra e della Resistenza aveva però diviso le forze politiche che si apprestavano a sostituire il fascismo.
Perfino a sinistra del Pci togliattiano della svolta di Salerno si era coagulata a Roma una piccola forza, “Bandiera rossa”, a prevalente estrazione operaia dalle caratteristiche controverse (si narra di rapporti con il famoso Gobbo del Quarticciolo) ma decisamente repubblicana anche come “eretico” distinguo dalle altre forze di sinistra. E non si può tacere sul fatto che il loro ardore nell’opporsi a tedeschi e fascisti fu pagato a caro prezzo: alle Fosse Ardeatine il gruppo più numeroso di vittime fu proprio quello di questa organizzazione clandestina.
Sempre a Roma, questa volta in casa cattolica, la bandiera della Repubblica fu fatta propria da figure che in buona parte erano collegate al mondo sindacale e con Grandi costituirono quel gruppo dirigente che partecipò all’esperienza della Cgil unitaria ma al tempo stesso garantì sul piano culturale, politico e sociale un’identità non confessionale ma autenticamente cristiana al mondo del lavoro cui facevano riferimento. La loro adesione all’unità sindacale era sincera ma non v’è dubbio che fra le ragioni di questa convergenza vi era anche quella di non lasciare il monopolio della rappresentanza sindacale alle sole forze della sinistra socialista e comunista. Ma sulla scelta per la Repubblica non vi furono dubbi e lo scontro anche con De Gasperi fu duro. Raccontò una volta Mario Scelba: ”Noi eravamo interessati soprattutto a mantenere l’unità del partito (la Dc), a rinviare questo problema al congresso nazionale. Però i dirigenti della sezione romana , tutti orientati a sinistra, Canaletti Gaudenti, Mastino del Rio, Tosatti, si decisero per la Repubblica, prima del tempo stabilito e violando le norme del partito. Io che ero di tendenza repubblicana, come vicesegretario del partito, intervenni decisamente, sciolsi il comitato romano, che era provvisorio…il problema, per me, era la forza della Democrazia Cristiana; solo con la vittoria della DC, io ritenevo, con De Gasperi (tendenzialmente monarchico), che la libertà sarebbe assicurata, la Costituzione garantita”.
Emergono da queste parole non solo imminenti scelte di campo ma anche i timori che erano presenti sulla tenuta della Dc nei riguardi degli altri competitori partitici che si avvalevano del carisma di grandi figure come Pietro Nenni.
Questa considerazione può spiegare anche il perché di certe polemiche che si registrarono fra sostenitori della Repubblica anche a referendum vinto. Nella sua famosa e insostituibile storia del sindacato, Sergio Turone ne ricorda una: “Commentando l’atteggiamento filomonarchico dei circoli ecclesiastici, in un articolo apparso pochi giorni dopo il referendum, Palmiro Togliatti denunciò la… seminagione di discordie… cui attengono troppi ministri del culto cattolico affermando che questa opera di scissione non sarebbe riuscita ad incrinare l’unità delle forze di lavoro. La corrente sindacale cristiana giudicò… premeditata… questa presa di posizione comunista e reagì con un corsivo destinato al periodico di corrente “Politica sociale”, ma pubblicato la sera medesima su sollecitazione degli stessi sindacalisti cattolici dall’Osservatore romano…”. Non solo, perfino attorno al premio salariale per la vittoria della Repubblica chiesto dalla Cgil unitaria al Governo e che fra l’altro intendeva tendere una mano a quel proletariato meridionale… monarchico, ci furono polemiche nel sindacato fra coloro che ritenevano la richiesta giusta e chi temeva l’impatto inflazionistico. E quando i sindacalisti cristiani nel luglio 1946 proposero un documento nel quale il sindacato si impegnava a dare il suo contributo alla stabilizzazione della moneta le componenti socialiste e comuniste si opposero. Fu la prima divisione sul voto del direttivo del sindacato unitario.
Nel congresso del 1945 la maggioranza della Dc si espresse, come è noto, a favore della Repubblica e la battaglia degli esponenti “repubblicani” confinati in un ruolo minoritario di vigilati speciali fino ad allora risultò vincente anche con l’apporto di giornali come “Politica d’oggi” guidata da uomini del sindacalismo bianco anteguerra come era Giovanni Gronchi. Probabilmente il ruolo di questi cattolici, molti dei quali contigui o presenti ed attivi nel mondo sindacale è stato sottovalutato nel tempo: il successo della scelta a favore della Repubblica nella Dc non si tradusse, secondo diversi storici, in un apporto altrettanto copioso di voti nelle urne ma c’è da chiedersi cosa sarebbe successo se fosse mancata questa spinta generosa ed insistente, anche alla luce del risultato del referendum.
Si può notare altresì che la scelta a favore della Repubblica fu in campo sindacale la riaffermazione di quel passo unitario fatto con il Patto di Roma che già guardava oltre e che avrebbe concluso questa fase decisiva per le sorti del Paese con i principi scolpiti nella Costituzione. In questo senso possiamo dire che il rifiuto della Monarchia per il suo ruolo nel ventennio e nella guerra era sopravanzato dalla aspirazione potente ad un nuovo destino democratico e libero al quale legare milioni di lavoratori anche come cittadini. E, con le divisioni successive e le contraddizioni del caso, si può dire che questo avvenne.