-di ANTONIO MAGLIE-
Quando alle 15,40 del 13 giugno 1946 Umberto II lasciò l’Italia prendendo il volo, nel senso letterale del termine, dall’aeroporto romano di Ciampino, l’Italia capì che, finalmente, una pagina si era chiusa. Una pagina a cui era legato il meglio della storia italiana (il Risorgimento, l’unificazione) ma anche il peggio: due veri e propri attentati alla costituzione che gli stessi Savoia avevano elaborato e concesso cioè lo Statuto Albertino (nel 1948, esattamente cento anni prima dell’entrata in vigore della nuova Carta fondamentale), prima consentendo al governo di imbarcarsi nella Grande Guerra tenendo il Parlamento chiuso e riaprendolo solo a nuove alleanze fatte, poi consegnando il Paese a Mussolini e al fascismo; infine fuggendo e abbandonando Roma in mano a generali felloni (Ambrosio, Roatta) che si guardarono bene dal difenderla (cosa che la città, nel segreto dell’urna dimenticò quando, al momento di decidere tra la monarchia e la Repubblica, si dichiarò, seppur a stretta maggioranza, favorevole alla prima che l’aveva tradita: 740.546 voti contro 711.260) e, di conseguenza, ai tedeschi. Cominciava la Repubblica.
Un “nuovo inizio” per il Paese, un“nuovo inizio” che restituiva entusiasmo a un popolo fiaccato dalla guerra, un carico di speranze che Pietro Nenni, all’epoca ministro per la Costituente, nei suoi diari, il 5 giugno, aveva descritto così: “Una grande giornata (quella del 2 giugno, quando gli italiani si erano recati alle urne, n.d.a.) che mi ripaga di molte amarezze e che può bastare per la vita di un militante. La battaglia per la Repubblica è vinta. Hanno cominciato a telefonarmi alle tre del mattino. Al ministero ed al partito è stato un succedersi di congratulazioni e feste. L’ “Avanti!” è uscito a un’ora in edizione speciale, ha un Grazie Nenni firmato da Silone e da tutta la redazione di tono molto affettuoso”. In un tripudio di sentimenti, il direttore del giornale del Psiup aveva scritto: “Dopo la notte insonne e piena di emozioni in cui era difficile pensare oltre la grande idea che si veniva a poco a poco realizzando dalla calcolatrice ora che con maggiore pacatezza possiamo gridare la nostra gioia, noi compagni dell’Avanti! Sentiamo il bisogno di esprimere questi primi sentimenti al compagno che con la faticosa e sapiente lotta di due anni, coronamento della lotta di tutta una vita, ha saputo portare l’Italia a questo grande momento”.
La Repubblica oggi compie settant’anni, oggettivamente non tutti ben portati. Tenendo fede alle nostre inveterate abitudini, scaricheremo su altri (persone, cose, leggi, istituzioni, partiti, sindacati, vicini di casa) la responsabilità delle vicende deludenti che ci accomunano evitando accuratamente di compiere un serio e approfondito esame personale di coscienza (il nostro straordinario difetto di spirito civico, il sostanziale disprezzo verso il bene comune preso in considerazione solo nel momento in cui può essere usato a fini privati, la tendenza ad aggirare le regole e a farcene di nostre, l’uso che diventa abuso delle posizioni di potere anche microscopiche, il campanilismo spinto che fa rima con egoismo, eccetera, eccetera). Matteo Renzi e il suo governo da questo punto di vista si sono portati già parecchio avanti nel lavoro. Confermando quella descrizione che del premier ha offerto Marco Revelli nel suo libro “Dentro e contro” (Laterza, 2015): “E’ il primo che ha scelto consapevolmente di capitalizzare sulla crisi degli ordinamenti rappresentativi e della forma-partito che ne faceva da base. Per valorizzare il proprio personale ruolo nel quadro di un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico. O, diciamolo senza temere di apparire retrò, anti-democratico. Fondato su una forma estrema di decisionismo, non più neppure legittimata dai contenuti, ma dal metodo.
Decidere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza decidere, perché comunque quello che conterà al fine del consenso non sarà un fatto concreto ma piuttosto il “racconto di un fare”. Sarà proprio questo “racconto” che quest’anno ci farà festeggiare il settantesimo anniversario del primo grande referendum istituzionale, quello che esaltava Nenni (ma non solo lui anche Togliatti, Calamandrei, Lombardi, Pertini, La Malfa, Parri e tanti, tanti altri), con un nuovo referendum, questa volta costituzionale. Saremo chiamati, probabilmente il prossimo16 ottobre a stabilire se il progetto di revisione della nostra Carta fondamentale, quello messo a punto grazie (?) alle cure del ministro Maria Elena Boschi, è saggio e opportuno, se nella sua qualità finale sia migliore o peggiore del lavoro originale svolto dall’Assemblea Costituente in circa un anno e mezzo.
Non tutto è andato come le donne e gli uomini di allora speravano. Basterebbe riprendere tra le mani un piccolo libro edito da Laterza, l’intervista di Ugo La Malfa (che in quella Assemblea entrò insieme a Ferruccio Parri sotto le insegne della Concentrazione Democratica Repubblica, uno dei tanti rivoli prodotti dall’implosione del Partito d’Azione) ad Alberto Ronchey per rendersene conto: “Rivivo la mia vita come guardando un film. La giovinezza difficile in un’isola deserta. L’evasione verso il Nord, Ca’ Foscari, l’antifascismo e il fascismo a Venezia. L’incontro a Roma con Giovanni Amendola…il trasferimento a Milano e casa Mattioli. L’amicizia e la frequentazione continua di Ferruccio Parri… La costituzione del Partito d’Azione, l’uscita clandestina del primo nu-mero dell’”Italia Libera” a Milano. Il Governo Parri e la scissione del Partito d’Azione. La milizia nel Partito repubblicano. I governi De Gasperi e le visite al “Mondo”, il ricordo di Mario Pannunzio, la battaglia per il centro-sinistra e le delusioni. La crisi, i comunisti e il compromesso storico. Alla fine una grande amarezza. Ora osservo che non c’è quell’Italia che avevamo in mente”. Era il 1977, il “caso Moro” non aveva ancora steso quel velo nero di lutti e segreti che aprirà nel Paese (nel suo futuro) una ferita profondissima, quando La Malfa, animato dal suo consueto pessimismo della ragione, raccontando sé stesso finiva, in realtà, per descrivere le illusioni (molte) e le delusioni (forse anche di più) di un Paese.
Eppure la migliore eredità che quella generazione ci ha lasciato è proprio la Repubblica e la sua Carta, la stessa che l’attivissimo Renzi impegnato nel suo “racconto di un fare” ha deciso di rimaneggiare a colpi di voti di maggioranza (Verdini come Terracini o anche Fanfani: vengono i brividi), riscrivendola in buona parte e, per giunta, in maniera decisamente meno chiara di quanto non sia l’originale, smentendo nei fatti l’invito alla qualità stilistica che ai colleghi rivolgeva il giurista Calamandrei ricordando l’esempio del capitano Ugo Foscolo chiamato dalla Repubblica Cisalpina a mettere a punto il codice penale militare. Nacque in un’altra Italia. Ancora piena di macerie, meno popolata (circa quarantaquattro milioni di abitanti contro i poco più di sessanta attuali). Più povera ma anche più capace di guardare al futuro persino credendoci. Il “nuovismo” renziano che si nutre di rottamazione sembra incapace di descrivere un futuro che vada oltre le ventiquattro-quarantotto ore, nella convinzione radicata, come dice Revelli, che poi si potranno prendere (o si potrà dire che si stanno prendendo) altre decisioni che allungheranno il racconto del fare. Una nuova versione dell’esercizio stancante e ripetitivo di Penelope: tessere all’infinito senza nemmeno il bisogno e la conseguente fatica di disfare di notte.
Per quanto l’Italia costruita agli occhi di La Malfa non appariva (anche fondatamente) all’altezza delle speranze, non si può, comunque, negare che quegli uomini avevano una “visione” che trasformarono in una “missione”. Sentivano una responsabilità verso chi c’era, verso chi ci sarebbe stato e, soprattutto, verso chi non c’era più perché aveva immolato la propria vita a una idea di libertà. Quello che stavano costruendo, lo avevano conquistato; erano i reduci di una lunga, pericolosa battaglia, avviata sotto il fascismo e continuata sotto le bombe E anche quando le urne del 2 giugno diedero un responso inequivocabile che nostalgici risentiti provarono a delegittimare con la denuncia di “brogli”, si ritrovarono a dover combattere per evitare al Paese nuovo sangue. Perché la monarchia, che pure aveva “offeso” l’Italia, non aveva alcuna voglia di prendere atto del suo fallimento e, soprattutto, di assumersene per intero le pesanti responsabilità. Nonostante fosse stata abbandonata anche dai suoi più fervidi estimatori. Gente come il filosofo Benedetto Croce, che il 28 gennaio del 1944, aprendo i lavori del primo congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale al teatro Piccinni di Bari, si era espresso con parole chiarissime pervase di amarezza personale. E chiedendo la totale “estirpazione del fascismo”, aggiungeva che quell’obiettivo non lo si sarebbe raggiunto sino a quando non “si toglie il superstite rappresentante del fascismo in Italia che voi tutti sapete, quale, sventuratamente sia. Dico sventuratamente perché per me e forse per altri di voi questa caduta di fiducia nella persona di un sovrano della dinastia che fece propria la causa del risorgimento italiano e ci avevano governato nei primi sessant’anni dell’unità nazionale, è una sventura purtroppo irreparabile”.
Fu quel bisogno di voltare pagina che il 2 giugno 1946 portò alle urne l’89,1 per cento degli aventi diritti al voto, cioè 24.947.187 elettori su un totale di 28.005.449. Per la prima volta votarono anche le donne, ovviamente maggiorenni (lo si diventava a ventuno anni; in “zona Cesarini” venne loro riconosciuto anche l’elettorato passivo, a venticinque anni e ventuno di loro entrarono nell’Assemblea Costituente). Solo in tre province non si votò: Bolzano, la Venezia Giulia e Zara. Vinse la Repubblica con il consenso di 12.717.923 italiani (54,3 per cento); “fedeli” alla monarchia rimasero 10.719.284 connazionali (45,7 per cento). Solo 1.498.639 elettori preferirono non esprimersi o non riuscirono a esprimersi come le regole imponevano infilando nell’urna una scheda che poi non venne convalidata. Al Nord la Repubblica stravinse con il 66,2 per cento; al Sud, invece, la monarchia scoprì un capiente serbatoio di voti (63,8). La Repubblica trovò le sue roccaforti a Milano (1.152.832 contro 681.900), a Trento (192.123 contro 33.903), a Firenze (487.039 contro 193.414), a Pisa (456.005 contro 194.299), a Siena (338.039 contro 119.779), a Perugia (336.641), ad Ancona (499.566). La monarchia apparve estremamente radicata a Bari (511.596 contro 320.405), a Lecce (449.253 contro 147.376) e a Catania (708.874 contro 329.874). Ma soprattutto a Napoli (903.651 contro 241.973) dove la rabbia degli sconfitti esplose alla proclamazione dei risultati quando i monarchici cercarono di strappare una bandiera tricolore esposta davanti alla sede del Pci di via Medina: da un autoblindo della polizia partirono raffiche di mitra che lasciarono sul selciato nove morti e centocinquanta feriti.
Un mese prima del referendum, Vittorio Emanuele III aveva abdicato a favore del figlio Umberto II che, dopo l’apertura delle urne, provò a resistere. Lo racconta Pietro Nenni nei suoi diari, sempre alla data del 5 giugno: “Alle undici c’è stata una riunione di Gabinetto. De Gasperi ha riferito sulle intenzioni del sovrano che accetta il responso del referendum ma afferma di non poter lasciare il paese se non dopo l’annuncio ufficiale dei risultati da parte della Cassazione”. E fu di parola tanto è vero che la sua uscita di scena, quella frettolosa partenza da Ciampino, arrivò alla fine di un vero e proprio braccio di ferro con il governo. L’esecutivo, infatti, dopo la proclamazione dei risultati, il 10 giugno, si riunì la notte del 12 e sulla base del terzo comma dell’articolo 2 del decreto luogotenenziale del 16 marzo 1946 (“Nella ipotesi del primo comma, dal giorno della proclamazione dei risultati del referendum e fino all’elezione del capo provvisorio dello stato, le relative funzioni saranno esercitate dal presidente del consiglio in carica il giorno delle elezioni”: l’ipotesi del primo comma era la vittoria della Repubblica) attribuì ad Alcide De Gasperi i poteri che sino a quel momento aveva esercitato Umberto II il quale reagì con un veemente proclama: “Questa notte, in spregio alle leggi, al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con un atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire una violenza…lascio il suolo del mio paese nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori”.
La replica di De Gasperi e del governo non fu meno aspra: “Un documento penoso, impostato su basi false ed artificiose… Un periodo che fu senza dignità si conclude con una pagina indegna. Il governo e il buon senso degli italiani provvederanno a riparare questo gesto disgregatore rinsaldando la loro concordia per l’avvenire democratico della Patria”. La Repubblica, insomma, non fu un regalo, ma una conquista frutto di una dura battaglia. Non a caso, presagendo quelli che sarebbero stati i movimenti di Umberto II, Palmiro Togliatti, leader del Pci, sull’edizione de “l’Unità” del 2 giugno, scrisse: “La fazione monarchica lavora per respingere l’Italia verso la disunione, verso la scissione, verso la discordia… Bisogna quindi votare per la Repubblica e contro la monarchia se si vuole l’unità della nazione… il trionfo della Repubblica è garanzia di progresso pacifico per tutti. Il voto per la monarchia è voto per la disunione, per la discordia, per la rovina d’Italia”. Trentasette anni dopo, mentre in Italia si allargava l’area favorevole al rientro di Umberto e si proponeva la cancellazione della XIII disposizione transitoria e finale che ne impediva il rientro, Riccardo Lombardi, che nel governo De Gasperi ricopriva il ruolo di ministro dei trasporti, prese in Parlamento la parola per opporsi a quella iniziativa per una questione istituzionale di principio: l’ex re non aveva mai riconosciuto ufficialmente la legittimità della Repubblica, anzi con i suoi atti l’aveva contestata ed era stato proprio quel suo comportamento a giustificare l’inserimento della norma nella carta fondamentale (riproponiamo per intero l’intervento alla Camera del leader socialista, straordinario esempio di nobiltà della politica).
De Gasperi, in realtà, cumulò i poteri per meno di una ventina di giorni perché il 28 giugno 1946 con 396 voti a favore (su 501 complessivi) l’Assemblea Costituente provvide a eleggere Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato. Il 2 giugno il popolo italiano riscoprì la politica, la partecipazione, qualcosa che per ben ventiquattro anni era stato negato, dal fascismo e dalla guerra. Maturò anche una idea nuova di stato, quello “spirito della Repubblica” (uno stato unitario, democratico, laico e sociale) spesso evocato da Nenni. E oggi a tanti anni di distanza, appare ancora straordinaria la capacità di quegli uomini di compiere scelte decisive, in pochissimo tempo e sotto la pressione delle emergenze del dopoguerra. Buona parte delle decisioni rispondono a principi logici. Pietro Nenni era il ministro della Costituente e quando si trattò di decidere in quale maniera gli italiani avrebbero dovuto scegliere i 556 membri dell’Assemblea, non ebbe esitazioni a schierarsi a favore del sistema elettorale proporzionale. E in un intervento alla commissione che stava elaborando i documenti da consegnare alla Costituente, spiegò: “Tutto è incerto nella vita nazionale; è incerto il nostro pane, è incerto il nostro lavoro, sono incerte le nostre frontiere, è incerta la nostra pace. Qualcosa io penso non è incerto: ed è la volontà di costruire uno stato democratico capace di vincere tutte le difficoltà e di fronte al quale, se tutto sarà difficile, niente sarà veramente impossibile… tocca a noi suscitare il sentimento che il nemico peggiore della democrazia è l’indifferenza allorché si tratta di decidere la forma e la struttura dello Stato”. Ancora più esplicitamente: “Si può discutere se la proporzionale sia un buon sistema in tempi normali, ma mi pare indiscutibile quando si tratta di Costituente”.
L’obiettivo era allargare l’area della partecipazione. Oggi il referendum che il governo sollecita sul processo di revisione viene utilizzato come una forma di legittimazione personale da parte di un presidente del Consiglio che si è direttamente trasferito dal municipio fiorentino a Palazzo Chigi oppure nell’occasione, da parte delle opposizioni, di fare campagna elettorale pensando più alle prossime consultazioni politiche, al prossimo governo, che alle regole del gioco comuni che se non per settant’anni almeno dovranno reggere per i prossimi trenta, quaranta. Persino la partecipazione al voto (cioè il rischio di un massiccio astensionismo) finisce per apparire un dettaglio irrilevante. I sondaggi oggi parlano di una affluenza che dovrebbe collocarsi al di sotto del cinquanta per cento e i favorevoli alle nuove norme costituzionali sembrano essere la maggioranza (ma il fronte del “no” sta ampliando i propri confini). Gli elettori verranno chiamati a esprimersi sul tema specifico dei provvedimenti di revisione costituzionale. Ma in realtà la valutazione di quel rimaneggiamento (cioè del modo in cui modifica la “forma Stato”) va compiuta anche mettendola in relazione con la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) che della Costituzione è più di una premessa, è il “primo capitolo” che determina tutti gli altri. Sarebbe molto bello se oggi l’Italia riuscisse a ritrovare un po’ di quell’entusiastico slancio che settant’anni fa convinse i nostri nonni e i nostri padri a investire sul futuro di una Nazione, uscendo dal recinto degli egoistici interessi di bottega per provare, per una volta, a ragionare come una vera collettività destinata a sopravvivere insieme e non a perire polverizzandosi.