Tra banche e mancata vigilanza si perde il risparmio

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-di MARIO LETTIERI* e PAOLO RAIMONDI**-

Dal primo gennaio è in vigore il sistema del “bail in”. D’ora in poi i costi del salvataggio delle banche in crisi saranno pagati, in sequenza, dagli azionisti, dagli obbligazionisti subordinati e dai risparmiatori con più di 100.000 euro sul proprio conto.

Dopo il fallimento della Lehman Brothers del 2008 centinaia di miliardi di dollari e di euro sono stati usati per i salvataggi delle banche con il metodo del cosiddetto bail out, cioè utilizzando soldi e risorse pubbliche e quindi di tutti i cittadini.

In verità gli interventi fatti dalle autorità italiane sono stati più contenuti, intorno a 6-7 miliardi di euro.

Gli Stati Uniti, e pochi altri Paesi, stanno giustamente discutendo dei rischi sistemici rappresentatiti dalle grandi banche ‘too big to fail” e di come ridurne le dimensioni. Invece una campagna a livello europeo, portata avanti anche dalla Bce, è iniziata contro le banche regionali e territoriali. In Italia si dice che le Banche Popolari e quelle di Credito Cooperativo sarebbero troppe, troppo piccole ed esposte ad alti rischi.

E’ davvero sorprendente che in Europa e in Italia ci si dia da fare per “offrire” le banche territoriali in pasto alla grande finanza. Nel mondo bancario americano, invece, si riconosce che le dimensioni enormi delle banche globali sono il vero problema della stabilità finanziaria e che sono state la causa delle passate crisi sistemiche.

Il ruolo delle banche territoriali

La realtà è un’altra. Non solo nel il nostro Paese, ma nell’intera Europa, sono soprattutto le banche territoriali a sostenere la crescita e a fornire ossigeno al sistema produttivo che, come è noto, in Italia è rappresentato per il 95% dalle Pmi.

Da alcuni anni la Bce, con operazioni di Quantitative easing, ha messo a disposizione migliaia di miliardi di euro a tassi di interesse vicini allo zero nella speranza che servano a sostenere la ripresa. Finora però le grandi banche hanno incassato, ma non hanno aperto i rubinetti del credito alle pmi.

Nel nostro Paese tra il 2011 e il 2013 le banche legate al territorio hanno aumentato del 15,4% i prestiti alle imprese e alle famiglie, mentre le grandi banche, società per azioni, li hanno diminuiti del 4,9%.

Nel corso del 2014 le 70 banche popolari e le 381 bcc – che occupano 120.000 dipendenti – hanno insieme dato credito alle pmi per quasi 240 miliardi di euro con un aumento di ben 35 miliardi. Alle imprese esportatrici sono andati 50 miliardi. Nel periodo della crisi tra il 2008 e il 2014 i finanziamenti alle pmi esportatrici sono aumentati del 28%. Esse hanno, quindi, svolto efficacemente un ruolo anticiclico favorendo la ripresa economica dei territori in cui operano.

Sofferenze bancarie

Basta guardare con attenzione i dati relativi alle sofferenze bancarie per comprendere il ruolo portante delle banche minori anche in rapporto al rischio. Sappiamo che le sofferenze bancarie italiane, i crediti inesigibili, sono oltre 200 miliardi lordi. Probabilmente se ne possono recuperare circa 80. Si rammenti che nel 2008 essi erano 42,8 miliardi. Oggi, purtroppo, tutti i titoli deteriorati (le sofferenze più i crediti di imprese in oggettiva difficoltà), ammontano a oltre 350 miliardi di euro, pari al 17,7% di tutti i prestiti concessi dal sistema bancario italiano.

Il Fmi ritiene che tale tasso sia peggiorato velocemente, tanto che peggio del nostro Paese vi sono soltanto l’Irlanda, Cipro e la Grecia.

Dal giugno 2010 sono triplicate quelle delle imprese societarie, cresciute fino a 122 miliardi, pari al 72% del totale. In particolare sono sofferenze per prestiti superiori ai 5 miliardi, che dal 2009 sono cresciute del 450%. Ben due terzi sono concentrati nei bilanci dei primi 5 gruppi bancari.

La Banca d’Italia è chiamata in causa per cercare delle soluzioni. Noi riteniamo che, prima di qualsiasi proposta, essa dovrebbe spiegare perché in questi anni non ha esercitato controlli puntali né adottato i necessari interventi correttivi.

La Bce e le banche territoriali europee

E’ da parecchio tempo che le banche regionali e quelle di credito cooperativo sono al centro della discussione. Di una particolare attenzione lo sono anche da parte della Banca centrale europea che le vorrebbe sottoposte alla sua supervisione e riformate secondo un’ottica di maggiore aggregazione.

Tecnicamente le istituzioni bancarie di piccole e medie dimensioni sono chiamate ‘less significant institutions’. Entità ‘meno significative’ rispetto a quelle di ‘importanza sistemica’, che per questo sono spesso considerate ‘too big to fail’.

Nell’intera area euro vi sono circa 3300 gruppi bancari, di cui 129 di dimensioni notevoli e perciò già sottoposte ai controlli della Bce.

Le circa 3200 piccole e medie banche restanti rappresentano il 18% di tutte le attività del sistema bancario europeo. Sono quasi tutte concentrate in tre Paesi, la Germania, l’Italia e l’Austria. Le suddette piccole banche hanno però bilanci pari a circa l’80% della somma del Pil della Germania e dell’Austria, rispettivamente di circa 2.900 miliardi di euro e 330 miliardi di euro.

Esse rappresentano la più importante ‘catena di trasmissione’ del credito produttivo verso le imprese di piccola e media dimensione che, non solo secondo noi, sono la spina dorsale e l’intera ossatura dell’economia. In Germania, per esempio, le banche ‘meno significative’ finanziano il 70% dell’economia.

Secondo uno studio della Bundesbank, in Germania nel 2008 vi erano oltre 1200 istituti e 13.600 sportelli, regolati da principi mutualistici e di interesse sociale, al servizio di 30 milioni di clienti.

Il loro tasso di capitale, il cosiddetto Tier 1, è mediamente del 15,2%, straordinariamente superiore al minimo richiesto per le tutte le banche della zona euro che è del 6%. E’quindi una eccellente garanzia per poter far fronte ad eventuali situazioni difficili. Secondo le stime, le ‘piccole’, soprattutto in Germania, sono piene di liquidità e in cerca di investimenti e di rendimenti più alti. Non manca loro il mercato. Manca, invece, la stabilità delle imprese e delle famiglie a causa della recessione economica.

Non essendo loro permesso di speculare né tantomeno di operare con derivati o con altre operazioni finanziarie ad alto rischio, esse soffrono per la prolungata politica dei bassi tassi di interesse sui prestiti concessi.

Adesso la Bce e il Single Supervisory Mechanism per il controllo bancario hanno deciso di intervenire sulle banche ‘less significant’ con l’intenzione di sottoporle a una supervisione più stringente sia europea che nazionale. Ne vogliono rivedere il modello di business, la governance e le strategie. Ciò di fatto potrebbe comportare un processo di fusioni, di possibili cambiamenti del loro status giuridico e di conseguenza determinare la possibilità di essere partecipate o addirittura acquisite dalle banche di rilevanza sistemica.

In altre parole le istituzioni monetarie europee, comprese quelle italiane, intendono far fronte, a loro modo, a quella che esse definiscono “la sfida al tradizionale modello di business delle banche di piccola e media dimensione”. Nonostante esse riconoscano che le banche minori sono “solvibili, liquide, con un basso tasso di crediti inesigibili e con riserve considerevoli”. Naturalmente ci sono eccezioni. Oltre al fatto che le banche regionali hanno davvero il polso delle situazioni economiche e imprenditoriali locali e spesso hanno una vera conoscenza diretta dei propri clienti e del loro profilo di rischio.

Lo stesso non si può dire delle grandi banche, che, oltre ad essere principalmente coinvolte in operazioni di cosiddetta “alta finanza”, hanno spesso una scarsa conoscenza della propria clientela.

Si dovrebbe perciò chiedere perché le istituzioni europee privilegino le banche con grandi numeri e pochi legami con i settori portanti dell’economia reale. Non si comprende perché si voglia intervenire sulle reti di banche locali e regionali che notoriamente affiancano le imprese nelle produzioni, nelle modernizzazioni e nell’espansione verso nuovi mercati, anche i più lontani.

La riforma attuale

Il sistema bancario dovrebbe essere l’ancella primaria dello sviluppo delle attività industriali e imprenditoriali. Se così è, la riforma delle banche popolari e di quelle di credito cooperativo parte, purtroppo, da una premessa sbagliata. Mira a soddisfare le esigenze della grande finanza invece di privilegiare le strutture del credito direttamente legate al territorio e alla sua crescita economica.

Le Banche Popolari

La loro riforma, fatta con l’ennesimo decreto e senza alcun coinvolgimento dell’Assopopolari, prevede che le 10-11 banche popolari con attivi superiori agli 8 miliardi di euro dovranno essere trasformate in società per azioni. Si ricordi che ora, essendo organismi di tipo cooperativo, i loro organi di gestione sono eletti con il voto capitario. Ogni socio può avere soltanto un voto.

Il cambiamento strutturale proposto dal governo è stato motivato dal fatto che il voto capitario violerebbe il principio di democrazia, penalizzando quei fondi che partecipano con ingenti capitali. Si afferma che, aprendosi al mercato globale, esse potrebbero attrarre investimenti nazionali ed internazionali rendendole così più grandi e più competitive.

In questo modo, però, le banche popolari diventeranno oggetto di scalate finanziarie e di attacchi speculativi che ne snatureranno la funzione originaria che è quella di sostenere lo sviluppo del territorio, delle pmi e delle famiglie. Molto probabilmente potrebbero diventare pedine locali delle grandi banche ‘too big to fail’. E’ una scelta non condivisibile, non giustificata neanche dalla scandalosa situazione della Popolare di Vicenza.

Riforma Bcc

Le banche di credito cooperativo sono invitate a loro volta ad accorparsi, su base volontaria si fa per dire. Dovrebbero cioè formare una holding, un gruppo bancario cooperativo con capofila una banca organizzata in società per azioni e un patrimonio di almeno 1 miliardo di euro. La holding avrebbe potere di controllo e di coordinamento sulle attività delle singole banche partecipanti.

La prospettiva vera, anche se non apertamente espressa, sarebbe quella di avere una singola holding che raggruppi tutte le Bcc con un patrimonio di 20 miliardi di euro. Inizialmente la maggioranza del capitale della holding dovrebbe essere detenuta dalle Bcc, mentre una quota di minoranza potrebbe essere messa sul mercato.

Le Bcc che si rifiutassero avrebbero solo due alternative: la prima, percorribile al massimo da un dozzina di banche, prevede di dover dimostrare di avere riserve per almeno 200 milioni di euro e versare su queste ultime un’imposta straordinaria del 20%; la seconda è quella di perdere lo status di Bcc e di trasformasi in spa. L’obbligo previsto dalla riforma governativa ci sembra un’inaccettabile forzatura.

Se la priorità dei governi, compreso quello italiano, è – o dovrebbe essere – la ripresa economica e l’occupazione, perché non valorizzare ulteriormente il meccanismo virtuoso delle banche di credito locale? A loro si può chiedere più informazione, imporre maggiori controlli, ma il loro modello complessivamente ci sembra ben funzionante. Il falso argomento delle loro dimensioni contenute non è convincente. Non si tratta di esaltare il “piccolo è bello” ma di salvare e sostenere ciò che ha funzionato e continua ancora a funzionare.

Il caso della Banca Etruria e delle poche altre banche locali è l’eccezione rispetto ad una rete che oggettivamente si deve ritenere efficace e positiva per l’economia locale e nazionale.

L’imperativo, pertanto, almeno in Italia, dovrebbe essere quello di colpire severamente i responsabili della bancarotta delle citate banche, disastrate da gestioni scellerate.

Articolo 47 della Costituzione e risparmio

Fa impressione vedere sugli schermi tv tanti risparmiatori, spesso pensionati, denunciare, a volte con rabbia e a volte con disperazione, l’azzeramento dei risparmi di una vita di lavoro da parte delle banche dissestate da gestioni a dir poco inefficienti e criminali. C’è da chiedersi se il risparmio nel nostro Paese abbia ancora un ruolo positivo e sia da considerarsi una virtù, un valore, una scelta di grande valenza sociale ed economica.

Dal dopoguerra in poi intere generazioni sono cresciute nella convinzione che il risparmio è fondamentale per la promozione di nuovi investimenti, di nuova occupazione e di nuova produzione di ricchezza.

La ratio è che il risparmio depositato in banca è o dovrebbe essere la base per concedere i crediti alle imprese per espandere le attività produttive e rendere più solido il tessuto economico nazionale.

Questa è la ragione che indusse i Padri Costituenti, nell’articolo 47 della Costituzione Italiana, a sancire che:” La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”.

Secondo noi è una indicazione chiara, ancora valida, che non è superata dal recepimento delle nuove direttive dell’Ue sul salvataggio delle banche in crisi. Lo ha sottolineato anche il presidente dell’ABI, Antonio Patuelli, durante il convegno dedicato alla 91.ima Giornata Mondiale del Risparmio tenutasi lo scorso ottobre a Roma.

Purtroppo il sistema bancario, forse preso dai vortici di una finanza sempre meno legata al credito produttivo e sempre più fine a se stessa, sembra poco interessato al risparmio dei cittadini che spesso non sono adeguatamente ‘curati’ o peggio, a volte, defraudati.

Ciò è anche l’effetto dei vari Quantitative easing iniziati dalla Federal Reserve americana e successivamente decisi anche dalla Banca centrale europea. Negli anni dopo la grande crisi finanziaria i tassi di interesse sono stati ridotti allo zero per cento mentre nuova liquidità per migliaia di miliardi di dollari e di euro ha inondato il sistema. Tali politiche avrebbero dovuto far crescere i consumi e gli investimenti. Così non è stato, almeno in Europa. Gli automatismi non funzionano in economia.

Di conseguenza oggi il risparmio è sempre più considerato come un freno alla ripresa in quanto non si trasforma in consumo e in nuova domanda. Di fatto le grandi banche sono piene di liquidità, spesso addirittura ‘parcheggiata’ presso la stessa Bce. Per cui ci sembra che il sistema bancario nel suo insieme non sia sempre alla ricerca del risparmio di tipo tradizionale, ma piuttosto di partecipazioni in operazioni finanziarie più rischiose.

Naturalmente sono i governi e i parlamenti a dover rendere stringenti e semplici le norme che regolano le attività bancarie e finanziarie, nonché le sanzioni da applicare in caso di accertati comportamenti truffaldini.

Negli Usa gli amministratori e i manager pagano pesantemente con anni e anni di carcere per le loro malefatte. In Italia, purtroppo, sono lacunose e lente anche le ispezioni della Banca d’Italia o la vigilanza della Consob. In Europa e in Italia evidentemente si è meno severi.

*Già sottosegretario all’Economia **economista

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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