In un libro la lezione di Di Vittorio

GIORGIO BENVENUTO

La vita di Giuseppe Di Vittorio ha i caratteri del romanzo, come molte delle vite che hanno caratterizzato la storia del movimento del lavoratori tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, vite di uomini piegati dalla fatica, assillati dall’idea di un mondo migliore in cui i diritti degli umili non fossero calpestati, decisi a uscire dall’ignoranza di una società che li condannava a quello stato attraverso una scuola basata sul censo, con la sola forza di volontà. Straordinari autodidatti che, come ebbe modo di ripetere in molti suoi interventi Pietro Nenni, avevano avuto una sola grande scuola: la strada e l’esigenza di guadagnarsi il pane sin dalla più tenera età. La Puglia era un luogo in cui il confine tra le classi era netto.

Anni dopo lo avrebbe raccontato nelle sue canzoni uno straordinario interprete di quel mondo, Matteo Salvatore, figlio di un compagno di cella a Lucera di Giuseppe Di Vittorio, con il quale quello che sarebbe poi diventato il segretario generale della Cgil scrisse un brano, ovviamente dal tenore politico. Era il mondo delle piazze che prima dell’alba, nei giorni della trebbiatura si popolavano di bambini, reclutati per pochi centesimi dai caporali, i “soprastanti”, sfruttati nei campi sino all’annichilimento. Ieri, lunedì a Perugia questo mondo è riecheggiato nei saloni del consiglio regionale per la presentazione di un libro dal titolo che spiega ampiamente il contenuto: “Giuseppe Di Vittorio, una storia di vita essenziale, attuale necessaria”. Autori Giorgio Benvenuto, presidente delle Fondazioni Nenni e Buozzi, ex segretario generale della Uil e della Flm, e Claudio Marotti. A rileggere quelle pagine di storia e a interpretarle alla luce del presente e del futuro i segretari umbri di Uil, Cisl e Cgil, Claudio Bendini, Ulderigo Sbarra e Vincenzo Sgalla, il capogruppo socialista alla Regione Umbria, Silvano Rometti e il direttore del Nuovo Corriere Nazionale, Giuseppe Castellini

Il libro è una biografia dai caratteri particolari. Aperto dalla prefazione di Susanna Camusso, offre una doppia chiave di lettura di Giuseppe Di Vittorio: tutta politica, quella di Claudio Marotti; tutta umana, quella di Giorgio Benvenuto. E da una sorta di sovrapposizione dei due piani, emerge la personalità complessa di un uomo la cui vita continua a raccontare ancora oggi ciò che siamo stati e ciò che vorremmo o dovremmo essere perché, come sottolinea Susanna Camusso, è stato “un grande dirigente sindacale ma anche il simbolo della fame come tanti braccianti pugliesi, della volontà di riscatto sociale per affermare la propria dignità di uomini”. L’Italia di oggi non è più quella del Di Vittorio giovanissimo né quella del dopoguerra. Ma la crisi è passata su di noi aprendo ferite simili a quelle di un conflitto: intorno a noi non ci sono macerie ma, in molti casi, diritti strappati, leggi mandate al macero, diseguaglianze sempre più acute. E se Di Vittorio doveva costruire dal niente, oggi tocca ricostruire ripartendo proprio dal messaggio del sindacalista di Cerignola.

Tra le tesi illustrate da Marotti forse quella che maggiormente colpisce riguarda la formazione ideologica di Di Vittorio, folgorato non tanto (o non solo) dal marxismo, ma soprattutto imbevuto delle idealità che nel primo decennio del Novecento avevano portato il sindacalismo rivoluzionario ad avere un ruolo di primo piano sulla scena di un paese che si avviava verso la grande strage della Prima Guerra Mondiale e non a caso quel sindacalismo trovò proprio nel Sud, in Puglia un seguito straordinario. Quel retaggio, a parere di Marotti non lo abbandonerà mai. Il racconto di Benvenuto, invece, parte dai ricordi, dal primo incontro sulla piazza polverosa di un paese pugliese, tra mantelli e scialli neri sdruciti. E sembra quasi essere una cerimonia di iniziazione per un ragazzino la cui zia, proprietaria terriera ma di simpatie comuniste e socialiste, considera quel signore che parla con voce tonante un “grande uomo”. Forse è lì che, in larga misura inconsciamente, nasce la fascinazione per il sindacato, per una società vista dalla parte opposta. Forse è lì che nasce il leader dell’Autunno Caldo e del “sindacato dei cittadini”, in quella piazza ancora rappresentativa di un’Italia in cui non tutti erano cittadini essendo l’umanità divisa nettamente tra i Signori e quasi tutti gli altri. E in mezzo, come diceva, Silone, prima di tutti gli altri c’erano le proprietà dei signori e un ampio spazio vuoto.

-di GIORGIO BENVENUTO*-

Ricordo Giuseppe Di Vittorio così come l’ho conosciuto nelle alterne vicende prima della mia fanciullezza e poi nella mia esperienza sindacale e politica.

Il primo ricordo risale alla metà degli anni ’40, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Ero molto piccolo. La guerra aveva costretto la mia famiglia ad una grande peregrinazione in Italia. Mio padre, Giuseppe, era un ufficiale di Marina. All’inizio della guerra (sono nato nel 1937 a Gaeta) eravamo a Pola. Nell’estate del 1943 eravamo venuti nel mese di agosto a Pescara, per essere vicini ai nonni che abitavano a Chieti.

L’armistizio dell’Italia con gli alleati l’8 settembre sorprese mio padre, reduce da una improvvisa e grave polmonite, a Chieti. Si nascose. Entrò in contatto con altri ufficiali e militari. Per un mese rimase in clandestinità. Riuscì a passare il fronte. Era la linea Gustav che da Cassino e Vasto divideva l’Italia in due.

Mio padre raggiunse avventurosamente Bari e si mise a disposizione delle autorità alleate. Dopo pochi mesi venne trasferito a Messina per contribuire alla riorganizzazione della Forze Armate Italiane. Noi rimanemmo a Chieti nel territorio controllato dai fascisti e dai tedeschi. Sapevamo che mio padre era vivo ma non riuscivamo a comunicare con lui. Vivemmo nove mesi pieni di angoscia e di paura, fino alla Liberazione di Chieti, nel giugno del 1944. Ho un ricordo incancellabile della ritirata delle truppe tedesche e dell’ingresso a Chieti degli alleati con alla testa i bersaglieri.

Fummo così in grado di riprendere i contatti con mio padre a Messina. Non c’era nell’immediato la possibilità di raggiungerlo. Non esisteva ancora un sistema di trasporti sicuro ed affidabile. L’Italia era un cumulo di rovine.

Terminata la guerra nell’aprile del 1945 mia madre cercò in tutti i modi di realizzare il ricongiungimento. Fu una grande, tormentata, faticosa odissea. Finalmente partimmo. Viaggiammo su un treno merci che trasportava sale. Era diretto in Puglia. Facemmo poca strada. Dovemmo fare tappa a Serracapriola, in provincia di Foggia ove una mia zia, Gertrude, aveva delle proprietà terriere. Rimanemmo lì per alcuni mesi. Sostenni l’esame per essere ammesso alla quarta elementare, per regolarizzare la mia frequenza scolastica. Non avevo, infatti, potuto studiare con regolarità a causa degli eventi bellici. Ricordo che mia zia era molto conosciuta e rispettata in quel paese. Era la vedova di Antonio Gatta, il medico condotto del paese, molto amato dai suoi concittadini prevalentemente occupati nell’agricoltura. Quando feci l’esame di ammissione diretta alla quarta elementare ero preparato. Avevo studiato molto. L’esame fu però singolare. Mi venne fatta una sola domanda: “Sei il nipote del dottor Gatta?” Lo ammisi. Il maestro disse: “Complimenti, sei promosso”. È una vicenda che non dimenticherò mai. È stata per me una lezione di vita.

Mia zia, pur essendo una proprietaria terriera, era politicamente vicina al Pci e al Psi. Aveva uno splendido rapporto con i suoi contadini e in tutti i modi cercava di aiutare le loro famiglie. Un giorno volle portarmi ad una riunione per sentire, come diceva lei, un grande uomo. Partimmo con il calesse. Arrivammo in un paese vicino a Serracapriola, credo San Severo. Nella piazza centrale c’erano tanti contadini, tanti “cafoni” con i loro mantelli neri. Sdruciti. Consunti. Si distinguevano tra la folla alcuni cartelli con scritto in modo elementare “pane, lavoro, pace”. Alcuni contadini erano scalzi. I visi erano sofferenti, dolenti, invecchiati. Guardavo le loro schiene con le spalle massicce deformate dalla fatica, i colli nodosi, le mani incallite: capivo che portavano avanti la propria vita piegati dal lavoro precoce, dalle fatiche, dalle privazioni, dai sacrifici. C’erano anche le donne con i loro scialli neri e i vestiti lunghi.

C’era su un palco arrangiato un uomo robusto che parlava. La sua voce era calda, viva, tonante, forte. Si esprimeva con semplicità ed efficacia. La sua oratoria era impetuosa, diretta, convincente. Le sue parole erano dotate di una potente carica magnetica.

Rimasi affascinato. Mi colpì quella piazza nella quale le bandiere rosse spezzavano l’uniformità del nero degli mantelli e, garrendo al vento, esprimevano grande forza fisica.

Mia zia mi disse che quell’oratore era Giuseppe Di Vittorio, un contadino che era evaso dal mondo dell’ignoranza, che si batteva per il riscatto dei lavoratori.

Giorgio Benvenuto Claudio Marotti: “Giuseppe Di Vittorio. Una stora di vita essenziale, attuale, necessaria”; prefazione di Susanna Camusso, Morlacchi editore, 2016, pagg. 236, euro 15,00. Brano tratti dal capitolo: “Una storia di vita”

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