Vent’anni dopo: in ricordo di Luciano

 

image.jpeg

di ANTONIO MAGLIE-

“Al mio ultimo congresso da segretario della Cgil, avevo detto a Carniti che se n’era andato dalla Cisl l’anno prima: guarda che noi siamo gente diversa da chi ha lavorato per tanti anni in altri posti, nei partiti per esempio. La nostra differenza ha aspetti non cancellabili. Questo non impedisce che possiamo risultare utili anche altrove, ma altrove non saremo mai gli stessi che siamo stati prima. Come faccio allora a non sentirmi spaesato”. Si raccontava così Luciano Lama a Giampaolo Pansa: quel suo essere a metà strada, leader virtuale di un vero partito post-comunista ed ex capo reale di un grande sindacato che aveva attraversato le stagioni più esaltanti e drammatiche della recente storia d’Italia. Quel libro apparso ventinove anni fa (“Intervista sul mio partito”, edito da Laterza) contiene il testamento morale di uno tra i più grandi dirigenti sindacali. “E’ stato il migliore”, ha detto Giorgio Benvenuto. Una valutazione condivisa anche da Pierre Carniti che pure con Lama spesso ha intrattenuto rapporti difficili, non di rado addirittura conflittuali. Vent’anni fa il carismatico leader sindacale moriva. E oggi si avverte quasi un imbarazzo a ricordarlo. Difficile comprenderne i motivi. Forse la risposta la si trova sempre in quel libro in cui con orgoglio rivendica le sue radici politiche riformiste sottolineando che lui tale era stato anche nei momenti in cui in quel vecchio Pci la parola riformismo era associata a una brutta malattia e ci si nascondeva dietro la definizione più politicamente sopportabile di “riformatori”.

image.jpeg Oggi che tutti sono riformisti anche chi non crede alla riforme o spaccia per tali delle vere e proprie controriforme (prodotti a cui siamo più avvezzi almeno a partire dal Concilio di Trento), la sua memoria sembra essersi perduta nella nebbia. E non è bello né rispettoso nei confronti di un uomo che a quella coerenza ha sacrificato probabilmente un pezzo della sua carriera post-sindacale. Poteva essere per il Pci, in un momento in cui i Muri non erano ancora crollati ma presentavano visibilissime crepe che ne annunciavano la distruzione, uno splendido segretario-traghettatore verso una nuova forma di partito lontano dagli antichi dogmatismi, profondamente imbevuto dei valori del mondo del lavoro ma allo stesso tempo distante dagli eccessi ideologici. Invece, la radicata visione riformistica e la scarsa dimestichezza con i giochi di Palazzo (che allora erano ancora le Botteghe Oscure) non gli consentì di giungere a un approdo quasi naturale. Gli preferirono Achille Occhetto e lui se ne fece una ragione: “Io venivo dalla Cgil, non conoscevo il partito, specialmente la macchina del partito”. Altri la conoscevano meglio di lui. Gli diedero una stanza e un ruolo decorativo: responsabile dell’ufficio per il programma. Nessuno, nemmeno lui, ha mai ben capito di cosa si trattasse e di che cosa si dovesse occupare.
Il suo riformismo si legava alla tradizione del sindacalismo italiano, alla tradizione della Cgil. Era nel partito come Di Vittorio ma evitando l’appiattimento e cercando di anteporre alle ragioni della politica quelle dell’organizzazione che guidava che con la politica poteva avere anche momenti conflittuali. La lunga storia di contrasti con Enrico Berlinguer ha prodotto fiumi di inchiostro. Non si sono mai amati: troppo diversi, anche caratterialmente; il segretario del partito chiuso e arroccato su posizioni (come quelle della Terza Via) che gli impedivano di fare l’ultimo, definitivo passo verso una interpretazione della sinistra realmente e definitivamente occidentale; l’altro, il leader della Cgil, convinto che quel passo si potesse e si dovesse fare. Non si sono quasi mai tirati la volata vicendevolmente anche quando sembravano volerlo dare a vedere. Ad esempio, con la “svolta dell’Eur”, illustrata ufficialmente da Luigi Macario nel palazzo dei congressi romano ma anticipata da Lama in una intervista a “la Repubblica”. Sembravano giocare di sponda; in realtà da tempo non si parlavano e, come ha raccontato Luciano Barca nei suoi diari, quella lunga chiacchierata con Eugenio Scalfari venne vissuta dal segretario comunista come un colpo basso perché mentre il Pci lavorava per superare la fase della “non sfiducia” ed entrare organicamente nella maggioranza, il leader sindacale offriva, a parere di Botteghe Oscure, “ad un governo che non esiste tre anni di tregua nelle rivendicazioni sindacali”.

image.jpeg
Non riuscirono a comprendersi e le vicende di quegli anni li allontanarono sempre di più finendo per contrapporli apertamente. Come quando in una riunione nella sede della Federazione Unitaria, Berlinguer, ormai all’opposizione, con Cossiga alla guida di un governo che aveva concordato con Cgil, Cisl e Uil il fondo di solidarietà per far ripartire gli investimenti al Sud alimentato con una trattenuta in busta paga dello 0,50, apostrofò duramente Lama davanti a Carniti e Benvenuto. O ancora come la sera in cui raggiunse con il ministro Vincenzo Scotti il prima accordo (era il 1983) per raffreddare la contingenza: per la tensione, scoppiò in lacrime sapendo che quella sua scelta non avrebbe trovato accoglienza calorosa a Botteghe Oscure. E poi arrivò il governo Craxi, il primo presieduto da un socialista, verso il quale Lama avrebbe preferito da parte del Pci maggiore prudenza. E, ancora, il decreto di San Valentino, quando venne obbligato non solo a non chiudere un’intesa che avrebbe voluto chiudere, ma poi anche a firmare nel corso di una Festa dell’Unità, accompagnato dal codazzo degli uomini dell’Ufficio Stampa del Bottegone, a favore del referendum, in un atto di pubblica abiura.

Ha pagato la sua coerenza, Lama. Ma anche la fedeltà a un partito di cui spesso non condivideva le scelte. Per lui era impossibile tradire il sindacato ma, allo stesso tempo, la sua forte identità non gli consentiva di rinunciare al Pci. Ha tenuto insieme le cose, con una certa sofferenza, anche accettando tragiche umiliazioni come quella famosa “cacciata” dall’università di Roma, quando in una fredda giornata di febbraio del 1977 la piazza intorno alla statua della Minerva si trasformò in un campo di battaglia: venne spedito al massacro e lui lo accettò da militante allo stesso tempo inquieto e fedele. Eppure, vent’anni dopo, potrebbe essere anche il momento giusto per provare a recuperare la sua eredità che è pragmatica non dogmatica, che è fatta di scelte non di grandi e fumose costruzioni ideologiche. Quel cesenate di Gambettola, estroverso e dalla straordinaria oratoria potrebbe validamente ispirarci per dare elementi di concretezza a una idea di sinistra allo stesso tempo avvertita e inafferrabile.

antoniomaglie

Rispondi