-di ANTONIO MAGLIE-
Diciamolo con franchezza e senza troppi giri di parole: alle aziende il lavoro piace ma solo a prezzo di saldo. Non è un caso che mentre da un lato calano vertiginosamente le assunzioni a tempo indeterminato (sulla base dei contratti a tutele crescenti, sia chiaro), dall’altro aumenta ancor più vertiginosamente il ricorso agli ormai famigerati voucher (31,5 milioni venduti nel primo trimestre 2016, aumento del 45,6 sul 2015 che, a sua volta, aveva fatto segnare un incremento del 75,4 sul 2014). Alla verifica del “secondo anno” la terapia per curare i malanni italiani a colpi di decontribuzioni e tagli dell’Irap. ha mostrato tutti i suoi limiti, anzi pure qualcuno di più di quelli preventivati. Se volevamo la conferma che non è con le leggi sul lavoro o con gli “sconti” fiscali che si crea occupazione, l’abbiamo avuta. Bisognava affrontare la questione dalla testa (cioè una politica economica che spingesse gli investimenti che, invece, boccheggiano) e non dalla “coda” (gli “aiutini” agli imprenditori che non sempre nella storia della Repubblica li hanno utilizzati nella maniera migliore). Certo, nel breve, sino a quando il “taglio” contributivo è stato totale, le cose hanno funzionato, seppur a un prezzo elevatissimo (6,1 miliardi spesi nel 2015 per produrre centomila posti di lavoro in più a fronte degli ottocentomila persi nel corso di questa crisi, un tasso di disoccupazione che scende di qualche decimale ma resta abbondantemente sopra il dieci per cento). Ma ora il bluff è stato svelato.
E non si tratta solo di numeri ma di filosofie che hanno ispirato gli interventi messi a punto dal governo italiano, non a caso sollecitati dalle istituzioni europee e caldeggiati da tutti quegli organismi finanziari che hanno supportato massicciamente le ricette liberiste salvo scoprire adesso che la domanda in Europa fatica a ripartire, che limone (cioè il lavoro) è stato troppo spremuto e che adesso bisogna in qualche maniera provare a restituirgli qualche goccia di succo. Operazione piuttosto complessa, più o meno come quella che prevede la reintroduzione del dentifricio nel tubetto. Anche perché nel frattempo a queste condizioni decisamente favorevoli il mondo della finanza e delle imprese si è abituato ottenendo pure notevoli vantaggi, nonostante la crisi. Olof Palme diceva che la pecora del capitalismo andava tosata non ammazzata; i teorici del liberismo hanno adottato quella metafora a loro vantaggio e sono andati oltre non limitandosi a tosare la pecora del lavoro ma avviandola anche verso il macello.
La leggi che sono state adottate in materia non liberavano le mani degli imprenditori, come si diceva un tempo, dai lacci e laccioli imposti dalla burocrazia statale, non creavano le condizioni per spingere verso l’alto i tassi di occupazione; semplicemente, nella logica della globalizzazione e della delocalizzazione, servivano per svalutare l’unica cosa ancora svalutabile (ad esempio, in Europa dopo l’avvento dell’euro): il lavoro. Ci siamo come soldatini allineati ai diktat di Bruxelles e adesso abbiamo la conferma che l’obiettivo in realtà non era quello di creare occupazione ma solo omogeneità di trattamento (anzi di maltrattamento) e impoverimento. Gli ultimi dati dell’Inps sono impietosi: il 33 per cento dei contratti a tempo indeterminato in meno nel primo trimestre 2016 rispetto allo stesso periodo del 2015; diminuite le trasformazioni delle situazioni precarie in stabili (31,4); il saldo tra assunti e licenziati a tempo indeterminato tagliato di un cospicuo 77 per cento, dato talmente significativo che a livello di contratti stabili siamo andati addirittura peggio che nel 2014 e allora gli incentivi non esistevano ancora.
I conti si faranno alla fine (il prossimo anno) ma la domanda diventa inevitabilmente pressante: era questa la soluzione? Il governo nel triennio 2015-2017 per favorire la decontribuzione ha stanziato 11,8 miliardi. Ma il costo finale dell’operazione, calcolando anche l’Irap, sarà molto più elevato. Il calcolo non è semplice perché dipende dalla durata dei contratti, ma si va da un massimo di 22,6 miliardi al lordo (17 al netto) a un “minimo” di 18 miliardi al lordo (13,8 al netto). E, soprattutto, alla fine del triennio, quanti lavoratori rimarranno al loro posto? Quale impatto avrà avuto questo investimento sul rilancio “stabile” del sistema produttivo italiano? Al momento l’unico elemento certo è dato dal calo del costo del lavoro che nel primo trimestre 2015, come ha certificato Eurostat, è sceso dello 0,8 per cento a fronte di un aumento dell’1,3 nella zona euro e dell’1,9 nell’Unione a 28. Sicuramente gli sgravi hanno stimolato la creatività dei furbi (sessantamila aziende, secondo l’Inps) che hanno colto l’occasione per incamerare indebitamente 600 milioni di sgravi. Forse è venuto il momento per Renzi di accompagnarsi un po’ meno con Sergio Marchionne che ha una visione della vita e del benessere molto personale, e di provare a lanciare sui problemi del Paese uno sguardo più ecumenico. Dopo la caccia al gufo, sarebbe più utile aprire la caccia all’idea veramente geniale andando un po’ oltre le teorie dei troppi “professori” che frequentano Palazzo Chigi e che vengono tutti dalla medesima scuola. La stessa che da anni ci culla con le note della Vie en rose mentre in troppi continuano a sentire solo i suoni cupi della marcia funebre.