Dopo Manchester, fermiamo la psicosi

manchester-6751-di ANTONIO MAGLIE-

Ora che la vicenda di Manchester con la sospensione della partita tra lo United e il Bornemouth è stata archiviata (con un certo disappunto dello storico club che non solo è stato costretto a rimborsare i biglietti ma farà anche entrare gratis i tifosi domani in occasione del recupero) tra le “bufale” di stagione, sorge inevitabile una domanda: fermo restando che una bomba fasulla è sempre meglio di una vera, quanto è confortante per tutti noi il fatto che una semplice “amnesia” (un falso ordigno abbandonato in un bagno da una società che si occupa della sicurezza nel corso di una recente esercitazione) si sia trasformata in un allarme planetario? La prudenza non è mai troppa ma qui si è andati evidentemente un po’ (o molto) oltre tanto è vero che il sindaco della città britannica, vera e propria patria della “rivoluzione industriale”, Tony Lloyd ha chiesto un’ inchiesta per sapere “come è successo, perché e chi è il responsabile”. Al di là dell’esito positivo della vicenda, a meno di un mese dal calcio d’avvio del prossimo campionato europeo di calcio, quel che è accaduto a Manchester solleva non pochi interrogativi relativamente al modo in cui la sicurezza viene gestita, tanto dal punto di vista della repressione, quanto da quello della prevenzione, quanto da quello della discrezione, strumento essenziale per evitare che le prudenze si trasformino in allarmi infondati, gli allarmi infondati in fobie e le fobie in isterismi collettivi.
E’ sempre stato detto da coloro chiamati a gestire l’ordine pubblico, che il mutamento delle abitudini sarebbe il regalo più grande che la società occidentale potrebbe riservare a quei terroristi dai tratti in larga misura indefiniti ma che, come hanno dimostrato gli attentati francesi e belgi, vivono tra di noi, non sono di “importazione”, parlano la nostra stessa lingua e, semmai, hanno frequentato le stesse scuole dei nostri figli. Siamo stati invitati tutti all’attenzione, alla prudenza, al controllo, a non dare credito eccessivo agli “imprenditori della paura” che guidano partiti politici che non perseguono l’obiettivo della sicurezza (anzi, i loro modelli culturali ci conducono direttamente verso uno scontro di civiltà e di religione tanto pericoloso quanto infondato visto che le bombe islamiche hanno ammazzato soprattutto musulmani) ma la costruzione di uno stato d’ansia finalizzato al perseguimento di utili elettorali lavorando sulle troppe menti deboli in circolazione.
Ma se le regole valgono per noi, comuni mortali, a maggior ragione dovrebbero valere per chi ce le illustra da cattedre, riteniamo, autorevoli. Poi, però, accade Manchester. E qualche mese fa, subito dopo il Bataclan, una partita della nazionale tedesca, ad Hannover, era stata annullata per il medesimo motivo. La guerra al terrorismo non ci obbliga soltanto a catturare chi trasforma le nostre strade in mattatoi, ma anche a gestire la paura. La partita sospesa domenica, la trasformazione di una “bufala” in un allarme planetario in quale misura scatenerà tendenze emulative nei tanti mitomani che attraversano le strade delle nostre città? Chi scrive ha lavorato in un edificio che per motivi che è inutile illustrare era stato adottato prima dal terrorismo brigatista e poi da quello jihadista come un obiettivo. Lo sapevamo noi e lo sapevano i mitomani che quasi ogni mese, con puntualità svizzera annunciavano con una telefonata l’imminente esplosione di una bomba. Per i frequentatori di quel palazzo l’annuncio aveva assunto quasi il carattere della campanella che a scuola dà inizio alla ricreazione: si scendeva per strada, si chiacchierava, si fumava una sigaretta, ci si stravaccava a un tavolino del bar e poi si rientrava, tutti insieme appassionatamente.
L’abitudine all’allarme aveva di fatto stemperato l’ansia: quello scendere e salire si era trasformato in una sorta di allenamento psicologico. Ma chi si recherà negli stadi dell’Europeo non sarà analogamente allenato e ancor meno lo saranno le famiglie a casa. Lo stesso giorno in cui ad Hannover venne rinviata la partita della nazionale tedesca, l’Italia a Bologna affrontava la Romania. Furono lanciati gli stessi allarmi ma la risposta dei responsabili dell’ordine pubblico fu diversa. Valutarono e controllarono con discrezione. La gara si giocò e nessuno venne caricato di un fardello di paura aggiuntivo. La domanda, allora, è semplice: hanno fatto bene coloro che a Manchester hanno rinviato una partita (poco male, in fondo) e precipitato nell’insicurezza psicologica migliaia di cittadini (e questo è decisamente più grave) o hanno fatto bene coloro che a Bologna, lo scorso 17 marzo, silenziosamente garantirono la sicurezza, fecero giocare la partita ed evitarono l’inopportuno dilagare della psicosi?
D’altro canto, tutti noi dobbiamo essere consapevoli di un fatto: lo sport, il calcio, non è un mondo a parte, corre gli stessi rischi che tutti noi corriamo andando al lavoro, prendendo una metropolitana o anche partecipando a uno spettacolo teatrale. Gli stadi rispetto alle paure di questi tempi complessi non godono di extraterritorialità. Al contrario. Spesso ci dicono che nell’antichità le i giochi olimpici fermavano le guerre. Non è assolutamente vero: si fermavano i combattimenti per far passare gli atleti che si recavano a Olimpia, poi si ricominciava. Lo sport è un grande business globale, pertanto una straordinaria cassa di risonanza. Il calcio solo in Europa produce un fatturato intorno ai venti miliardi di euro; le ultime Olimpiadi di Londra hanno messo in moto un giro d’affari di dodici miliardi di euro. Spesso in questi ultimi cinquant’anni lo sport è stato utilizzato come un grande palcoscenico, dalla politica, dai movimenti giovanili, dai terroristi. Nel 1968 le Olimpiadi di Città del Messico vennero precedute da una strage: trecento morti, manifestanti massacrati dalla polizia nella piazza delle Tre Culture, giovani soprattutto che avevano sfilato per contestare il potere e che non avevano certo scelto a caso il momento per farlo.
Quattro anni dopo un commando palestinese di Settembre Nero irruppe negli alloggi israeliani durante le Olimpiadi di Monaco di Baviera uccidendo immediatamente due atleti e sequestrandone altri nove: finì con una carneficina, causata da un improvvido blitz (i nove sequestrati uccisi insieme a quattro esponenti del commando e a un poliziotto tedesco). Nel bel mezzo delle Olimpiadi di Atlanta nel 1996, un signore, Eric Rudolph, appassionato di armi, esponente di un cosiddetto “esercito di Dio”, omofobo, anti-abortista e razzista, esponente di quella “supremazia bianca” che ha pensato di compiere anche un attentato contro Obama, lasciò nel bel mezzo del Centennial Park, cuore della manifestazione sportiva, una borsa con una rudimentale bomba: due morti e centoundici feriti. Ma quel palcoscenico è stato utilizzato anche dai governi. Gli Usa nel 1980 decisero di boicottare le Olimpiadi di Mosca non avendo i sovietici ritirato le truppe dall’Afghanistan (le avevano spedite da quelle parti a gennaio). I russi si “vendicarono” quattro anni dopo boicottando i Giochi di Los Angeles.
E’ evidente, allora, che in tanti saranno richiamati dalle luci della ribalta di un evento che sarà inevitabilmente sotto gli occhi del mondo (e non può non esserlo visto che gran parte del baraccone si regge sui diritti televisivi, sempre più costosi). E allora bisogna togliere l’acqua ai pesci, sia a quelli che le bombe le mettono per davvero sia a quelli che sfruttano quella paura per finalità oscure o per malsano egocentrismo. A Manchester tutto sarebbe stato frutto del caso. A maggior ragione bisogna fare attenzione senza fare allarmismo.

antoniomaglie

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