-di SANDRO ROAZZI-
Primo maggio è festa del lavoro, ma non per tutti. O meglio c’è chi vorrebbe festeggiarla ma non può sentirla come propria perché un lavoro non lo ha. Inutile risalire alle origini della Festa sul finire dell’ottocento. Allora fu l’occasione per chiedere la riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore, oggi invece la richiesta per molti, soprattutto molto giovani, non può che essere quella di crearle le ore di lavoro.
Il primo maggio ha scandito sconfitte e affermazioni del movimento dei lavoratori. Ha assunto forme di protesta contro le dittature, ha sancito la conclusione positiva di tante battaglie, ha marcato lotte fondamentali anche sul piano civile. Ed una volta l’anno le diverse generazioni di lavoratori, pur se fra divisioni ideologiche e sindacali, trovavano in quella data ed in quella festa un momento di coesione vera dalla quale ripartire.
Oggi la frattura che divide coloro che da lavoratori avvertono il valore del primo maggio e coloro che ne sono esclusi è più marcata e si riflette anche sulle caratteristiche della vita delle forze sociali.
Facendo un rapido passo indietro non possiamo non ricordare che la spinta più forte e convinta alle conquiste dell’autunno caldo sindacale del 1969 fu data proprio dai giovani lavoratori, specie coloro che dal sud erano saliti nelle grandi città industriali del nord, con la loro passione, il loro entusiasmo, la loro voglia di vedersi riconosciuto un posto da protagonisti nelle vicende sociali del Paese, la richiesta potente di maggiori diritti che provocò anche l’affermazione di un ruolo sempre più importante dei sindacati al cui interno si determinava non a caso anche un rinnovamento di tipo generazionale.
Oggi invece l’avvicinamento dei giovani al sindacato appare assai più difficoltoso. Una prima ragione la possiamo trovare nelle cifre. Nell’Eurozona la disoccupazione giovanile – fra i 15 e i 24 anni – si attesta poco sotto il 20%, in Italia siamo al 36,7%, in lieve calo ma assai distanti dalla media europea. Peggio di noi solo Grecia, Spagna e Croazia. Non va molto meglio per coloro che riescono a laurearsi: nell’Europa dei 28 Paesi l’occupazione tocca il 76%, in Italia ci si ferma al 45%, un abisso.
Alto è anche il numero di quei giovani che non studiano e non lavorano e che sfiorano i due milioni di unità Un costo economico e sociale, oltre che umano, davvero pesante. Si pensi che un calcolo compiuto nell’area dell’euro indica il costo di questo esercito senza speranza, i cosiddetti neet, in ben 153 miliardi fra redditi non percepiti, contributi non versati, tasse non riscosse, sussidi erogati.
Ecco allora che non ha torto chi parla di un rischio di “perdere” intere generazioni proprio mentre, ma è una aggravante, il mondo del lavoro cambia profondamente ed è difficile capire cosa sarà fra qualche decennio e chi ingloberà o escluderà con la marcia inesorabile delle nuove tecnologie e delle conseguenze della globalizzazione.
Per molti di questi giovani che si accostano al mercato del lavoro senza poterne oltrepassare la soglia in Italia la speranza diventa allora quella di andare all’estero. Una recente ricerca ci comunica che 6 su 10 giovani sono pronti a fare questo salto. E non sono solo giovani meridionali ma anche persone nate nel centro nord.
In tempi di bassa crescita il restare ai margini del lavoro vuol dire inoltre temere di vivere una condizione di precarietà per tutta la vita, con redditi che non permettono di fare progetti e che nascondono pessime sorprese sul piano previdenziale.
Come poter immaginare allora che questi giovani possano essere invogliati ad esperienze associative, a credere nel valore della solidarietà che appare essere invece prerogativa dei soli lavoratori occupati, a essere sensibili alla memoria storica di un movimento dei lavoratori che per loro in termini di radici non significa purtroppo nulla?
Eppure i giovani, in un Paese che è fra i più anziani al mondo, non solo sono una emergenza – brutta espressione – ma dovrebbero essere la risorsa su cui investire in ogni modo.
Certo non è facile farlo quando scuola e mondo del lavoro restano scollegati in modo quasi insanabile, malgrado qualche timido progresso; quando il collocamento copre a malapena il 3% del rapporto fra domanda ed offerta di lavoro; quando misure per favorire l’ingresso al lavoro come un apprendistato più semplice, ma non come dovrebbe essere, lasciano questo strumento ai margini, assai poco utilizzato, quando in Germania è la porta di accesso più usata per entrare in azienda. Non a caso in quella nazione la disoccupazione giovanile è solo al 7%.
Quando si parla di disoccupazione giovanile poi si tirano in ballo ragioni le più svariate: dal debito pubblico, all’imperversare del lavoro nero, all’ombra malefica delle mafie che diventano datori di lavoro là dove l’occupazione non c’è o perché offrono status e soldi da preferire a condizioni di miseria e di emarginazione. In questo senso si avverte la mancanza di una tensione politica e culturale di cui hanno potuto godere le generazioni più mature di quella giovanile. E la disaffezione delle prime verso il degrado politico e sociale non può non riflettersi anche in quella che invece sarebbe portata a seguire idealità e speranze.
In Italia con il Jobs Act e soprattutto gli sgravi contributivi si è cercato di cominciare a porre rimedio. E qualche risultato si è ottenuto. Ma appena l’entità degli sgravi è diminuita e contemporaneamente è salita l’incertezza sul futuro economico, i successi sul fronte occupazionale hanno subito una evidente frenata.
Ma il valore del primo maggio è offuscato anche dal fatto che negli ultimi tempi – vedi il nodo della previdenza – si è messo più l’accento sulla contrapposizione fra generazioni che invece sull’opportunità di fare condividere loro prospettive comuni. Scelta non facile ma che si riconduce nel considerare “risorsa” sia la condizione giovanile che quella anziana.
Eppure l’impegno dei giovani, la carica ideale di molti di essi, la generosità mostrata nel volontariato, c’è e funziona. Il fatalismo non ha ancora vinto la partita. Il pericolo però di veder sempre meno la forza collettiva dei giovani mettersi al servizio di obiettivi e progetti di crescita complessiva della società c’è e non è affatto da sottovalutare.
Nelle feste del primo maggio del secolo scorso i lavoratori più anziani si aspettavano dai comizi anche una sorta di resoconto puntuale di quanto era stato fatto e di quanto c’era ancora da fare. Un bilancio delle battaglie e un rinnovato impegno delle proposte per le quali battersi che cementava la volontà di essere al tempo stesso lavoratori e cittadini. E’ chiaro che questo metodo, che aveva anche un grande valore in termini di unità , non è applicabile a chi non può fare alcun consuntivo e non ha diritti da difendere e da conquistare. Ciò non toglie che sarebbe assai importante recuperare quella tradizione e trovare il modo di coinvolgere le generazioni più giovani. Lasciarle ai margini non solo finirà per acuire le difficoltà di soggetti come le forze sindacali, ma finirà anche per indebolire quel senso di appartenenza, basato su valori di libertà e di partecipazione, a un cammino comune per migliorare il paese, senza il quale si potrebbero correre rischi anche in termini di democrazia, oltre che vedere aumentare le diseguaglianze e le ingiustizie. Restituire la festa del primo maggio ai tanti giovani che non hanno lavoro acquista dunque un valore più alto di quello, già fondamentale, di aprire loro le porte ad un lavoro che dia opportunità di realizzazione personale e un ruolo nella società.
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