Genova, il lavoro, la democrazia cinquantasei anni dopo

 

                     -di ANTONIO TEDESCO-                

“Sono passati sedici aprili, la Repubblica vive nel cosiddetto miracolo economico, nell’età dell’utilitaria e della televisione. Ma c’è ancora il fascismo? C’è. Ha ritrovato il suo viso di cinquant’anni fa, prima delle delle camicie nere, il viso della conservazione che sul mercato politico offre ancora a buon prezzo gruppetti provocatori perché il poco fascismo visibile mascheri meglio il molto fascismo invisibile”. Termina con questo epilogo pessimistico il docufilm di Miccichè e Del Fra “All’armi siam fascisti” del 1961, voluto fortemente da Pietro Nenni (che creò ad hoc l’Universale Film, casa di produzione cinematografica del PSI), per arginare un ritorno di fiamma, soprattutto nelle nuove generazioni, di sentimenti neofascisti.

Ma che cosa era successo in Italia agli inizi degli anni 60′? Che cosa stava capitando agli italiani, totalmente assorbiti dal miracolo economico, dallo sviluppo urbanistico sfrenato delle città e dal sogno del benessere?

Il 1960 è un anno segnato dalla caduta del governo Segni che apre una fase di grande incertezza e instabilità politica. Sul fronte sinistra I vertici della DC proseguono il dialogo con il Psi per una possibile coalizione di centro-sinistra. Mentre il Paese cambiava e più urgenti si facevano i problemi lasciti irrisolti dalla gestione immobilistica del centrismo, le forze politiche di governo non erano in grado di scegliere una soluzione politica coerente. Nel marzo 1960 il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi assegna a Tambroni l’incarico di formare un governo. Questi, esponente della sinistra democristiana e già ministro degli Interni, avrebbe dovuto guidare un governo di transizione verso una maggioranza di centrosinistra.

Tuttavia, il discorso con il quale, il 6 aprile del 1960, Tambroni si presenta alle Camere per chiedere la fiducia, è tutt’altro che ispirato alle indicazioni di Gronchi e della segreteria DC: non compare infatti alcun riferimento all’apertura ai socialisti, viene espresso un indirizzo politico ispirato al binomio “legge e ordine”, e non viene fatto cenno del carattere transitorio del governo: “Tambroni si è avventurato in un programma di dieci anni, cioè nella più superficiale delle costruzioni. Rischia di avere I soli voti fascisti. Pressappoco un suicidio (Pietro Nenni)”.

“L’ambizioso Tambroni”, titola in prima pagina l’Espresso. Ma chi era veramente Fernando Tambroni?

Deputato marchigiano, protagonista secondario della sinistra della DC, Fernando Tambroni Armaroli, già centurione fascista della Milizia contraerea di Ancona, è un  fedelissimo del Presidente Gronchi e soprattutto ministro degli Interni ininterrottamente dal luglio 1955.  Nei mesi della crisi Tambroni si muove con spregiudicatezza, è ambizioso ed è fissato per l’ordine pubblico.

Il suo Governo, dopo le alcune iniziali difficoltà si trasforma subito in un inedito esperimento di esecutivo sostenuto dai voti del Movimento Sociale, provocando lo sdegno della sinistra della DC, del PCI e del PSI: “Tambroni se l’è cavata con tre voti di maggioranza (trecento sì, duecentonovantatré). Ma è rimasto solo con i ventiquattro voti fascisti. Se fosse possibile governare il Paese con i fascisti, sarebbe davvero la fine di tutto (Pietro Nenni)”. La circostanza causa l’abbandono dei ministri appartenenti alla sinistra della DC Bo, Pastore e Sullo.

 L’immagine che era riuscito a comunicare alla stampa e ai suoi compagni di Partito di un Tambroni uomo di sinistra, costretto quasi suo malgrado a svolgere un ruolo diverso, si scioglie in breve tempo.

Se il suo intervento al congresso DC di Firenze nel 1959 è indubbiamente favorevole all’apertura a sinistra, la sua azione ha tratti completamente diversi: tratti, va aggiunto, maggiormente in sintonia con l’azione concreta svolta da lui come ministro dell’Interno nei quattro anni precedenti.

 L’azione del governo è nettamente indirizzata verso due direzioni: il ribasso di alcuni generi di prima necessità (segno esplicito della ricerca demagogica del governo di trovare favori popolari) e il continuo, ossessivo, paventare dei rischi di una imminente congiura comunista condito con l’ingiustificata dichiarazione su una presunta debolezza del governo.

L’ostilità alle forze armate è vista come sintomo di assenza di sentimenti nazionali e come manifestazione di forza tentata dai partiti di sinistra che hanno approfittato di un periodo di carenza dei poteri dello Stato. Non paghi, il ministro dell’Interno Spataro evoca indefinite violenze di elementi di sinistra per invitare prefetti e questori a prendere ogni adeguata misura. Ne seguono interventi repressivi ed intimidatori che aumentano ulteriormente la tensione.

Il Governo Tambroni non è per l’incontro con le classi lavoratrici e di questo se ne accorgono subito i partiti di sinistra e i sindacati. Ad esultare è solo la borsa, organismo assai sensibile per questo genere di cose che reagisce molto positivamente alla nascita del Governo.

Il Governo che doveva essere “amministrativo” e di transizione si trova subito condizionato dai missini, ai quali aveva promesso molto Tambroni, convinti di essere vicini ad una rivincita.

La febbre politica si sposta rapidamente dal piccolo mondo politico parlamentare alle piazze. Tutto si complica, il clima si accende. I missini forti della loro determinante presenza in parlamento, rispolverano la vecchia spavalderia e decidono di tenere, il 2,3,4 luglio del 1960, il loro Congresso a Genova, Medaglia d’oro della Resistenza. La prima comunicazione che il Congresso missino si sarebbe tenuto a Genova, viene data dal Secolo XIX, quotidiano della borghesia genovese, verso la metà del mese di maggio. Una notizia di due righe in fondo al pastone romano che all’inizio passa quasi inosservata. Ma dopo qualche giorno matura nel Paese il senso della beffa.

Una grande provocazione che venne percepita come un affronto di chi non si è limitato a scegliere una sede qualsiasi, ma ha consapevolmente agito per colpire alcuni simboli principali della lotta partigiana. I missini scelgono il teatro Margherita per svolgere i lavori del congresso, ubicato a pochi metri dal Ponte Monumentale di Via XX settembre, sul quale si leggono i nomi dei 1863 genovesi uccisi dai nazifascisti, nonché l’atto di resa delle forze tedesche nelle mani del CLN ligure (unico caso in Europa cui i tedeschi si arresero ai partigiani) e la motivazione della medaglia d’oro conferita alla città di Genova. Le trame missine, provocano l’immediata reazione delle forze antifasciste del Paese che si uniscono per bloccare il Congresso. La reazione all’affronto è il prodromo di una straordinaria mobilitazione in tutto il Paese per dare una spallata al Governo Tambroni. Dura la reazione di Pietro Nenni: “Bisogna credere che ministri, prefetti, questori, siano degli imbecilli se hanno creduto che nelle circostanze presenti Genova potesse subire in silenzio la provocazione dei fascisti che si atteggiano a partito di Governo”. 

Genova non è solo città con una forte impronta antifascista ma è anche terra di lavoratori portuali, “i camalli” con una forte coscienza di classe. È noto come l’economia genovese ruoti intorno a due assi fondamentali: il porto e le aziende di Stato. Due assi che s’incontrano e vengono condizionati dall’indirizzo di politica interna ed estera che guida il Paese.

 All’inizio degli anni Sessanta a Genova sia la situazione politica che quella sociale sono molto tese, anche a causa della recente chiusura di diverse industrie, tra cui l’azienda meccanica Ansaldo-San Giorgio. Nonostante si fosse nel pieno di quello che è stato definito il “boom economico”, le lotte sindacali contro le chiusure e le riduzioni di personale in generale si protraevano in città da circa un decennio. Città laboriosa, con un grande potenziale industriale, capitale dell’armamento nazionale, capace di rilanciarsi, subito dopo la Liberazione, grazie alla saggezza degli amministratori socialisti, un po’ trascurata dal Governo che ha applicato un becero ridimensionamento del potenziale industriale.

È una città, Genova, che non riesce ad esprimere un Sindaco e una maggioranza a causa del voto frammentato (33% DC, 26% il PCI e 22%il PSI) ed è retta dal Commissario straordinario Nicio Giuliani. Il mese di giugno a Genova e in tutta la Liguria si susseguono numerose riunioni, mobilitazioni, comizi. Il 6 giugno, su iniziativa della federazione del PSI, i rappresentanti locali dei partiti comunista, radicale, socialdemocratico, socialista e repubblicano, affiggono ovunque un manifesto in cui, denunciano il congresso missino come una grave provocazione. Il 13 giugno alla richiesta di non fare svolgere il congresso si aggiunge in maniera ufficiale la Camera del lavoro.

 Il 15 giugno, come ogni anno, si rinnova a Genova il ricordo delle migliaia di lavoratori della San Giorgio, dell’Ansaldo, della SIAC e delle altre fabbriche delle delegazioni del ponente deportati in Germania. Sulle ferite aperte delle famiglie viene dunque a cadere il sale della provocazione fascista. Migliaia di lavoratori si uniscono a sindacalisti e partigiani riempiendo le piazze di Genova e provocati in qualche occasione da sparuti gruppi di missini che provocano alcuni duri scontri.  Intanto arrivano da tutti l’Italia l’adesione e la solidarietà di associazioni partigiane, amministrazioni comunali (tra cui l’amministrazione democristiana di Torino).

A rendere ancora più incandescente la situazione intervenne la notizia riportata dal quotidiano Il Giorno della partecipazione ai lavori del congresso di Carlo Emanuele Basile, sottosegretario all’Esercito e prefetto della città ai tempi della Repubblica Sociale Italiana Basile era conosciuto a Genova per gli editti del marzo 1944 contro lo sciopero bianco e le proteste indette dagli operai, a cui succedette nel mese di giugno la deportazione di alcune centinaia di lavoratori nei campi di lavoro della Germania nazista.

Il 28 giugno viene indetta una manifestazione di protesta, con un grande e duro comizio di Sandro Pertini a Piazza della Vittoria, davanti a 30.000 lavoratori. Pertini infiammo la folla con un vibrante discorso e per questo sarà ricordato nella memoria popolare con ‘u Brichettu, cioè il fiammifero.  Il giorno seguente la Camera del Lavoro cittadina indice lo sciopero generale nella provincia genovese per la giornata del 30, dalle 14 alle 20, a cui si sarebbe aggiunto un lungo corteo per le strade della città. Immediata è l’adesione dell’ANPI. Oltre ai partiti, ai lavoratori e ai sindacati durante il mese di giugno anche l’università si attiva con un appello, firmato da intellettuali di vario orientamento politico, contro lo svolgimento del congresso.  Genova è una città blindata, come cinta d’assedio. La polizia installa I reticolati nella zona di Portoria, filo spinato che attira l’attenzione degli increduli anziani genovesi.

In un clima incandescente si giunge al 30 giugno.  A Genova il 30 giugno del 1960 è una giornata di sole, e si sa, quando a Genova  fa caldo si muore.  La manifestazione, si svolgere in un clima surreale, la tensione si taglia con un coltello. Il corteo, con migliaia di lavoratori, politici, partigiani, Sindaci e gonfaloni parte il primo pomeriggio da Piazza dell’Annunziata. Si arriva a Piazza della Vittoria senza particolari problemi. Dopo il comizio del segretario della Camera del Lavoro i manifestanti risalgono verso piazza De Ferrari, fermandosi lungo la strada sia davanti al teatro Margherita, completamente blindato dai carabinieri, sia davanti al Sacrario dei Caduti, dove vengono cantati degli inni della Resistenza. I manifestanti giungono così in piazza de Ferrari, dove molti si fermano nei dintorni della fontana centrale: qui sono presenti alcuni mezzi motorizzati della polizia, oltre ad agenti a piedi, e la situazioni inizia a peggiorare. Alle provocazioni dei manifestanti, che intonano canti partigiani e slogan contro le forze dell’ordine, queste provano a disperdere la folla con un idrante, per poi iniziare alcune cariche. La repressione della polizia è feroce. I manifestanti, molti dei quali giovani muscolosi, si procurano attrezzi da lavoro, spranghe di ferro e alcuni pali di legno dai vicini cantieri edili con cui colpiscono le camionette mentre le forze dell’ordine iniziano a sparare. Nella piazza c’è molto fumo e alcune camionette sono incendiate.  Gli scontri si spostano anche nei vicini “caruggi”, gli stretti vicoli tipici del centro storico genovese, dove la popolazione residente “bombarda” con vasi e pietre lasciati cadere dalle finestre gli esponenti delle forze dell’ordine che inseguono i manifestanti. Manifestazioni e scioperi di protesta contro il governo Tambroni si svolgeranno nello stesso giorno anche a Roma, Torino, Milano, Livorno e Ferrara.  Il clima è incandescente a Genova e in tutto il Paese. Inaspettatamente però i missini rinunciano al Congresso, per ragioni “morali, politiche ed organizzative”. I lavoratori, gli antifascisti di Genova hanno vinto. La polizia del Governo Tambroni userà ancora il pugno duro per qualche giorno, ma la credibilità di quel governo oramai è ai minimi termini e alla fine di luglio Tambroni si dimette aprendo la strada a quella straordinaria esperienza riformista che fu il “centro-sinistra”, con il PSI di Nenni protagonista di grandi riforme (l’innalzamento dell’obbligo scolastico, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, etc.). Cinquantasei anni dopo, i sindacati e i lavoratori celebreranno nella Genova che ricorda anche questa battaglia di democrazia, la Festa del Lavoro.

Fonti

Pagine di Diario di Pietro Nenni “Tempi di guerra fredda” 1944-1957, SugarCo, 1981.

“L’insurrezione legale”, a cura di Edmondo Montali, Ediesse, Roma, 2010

Giuseppe Tamburrano, “Storia e cronaca del centro-sinistra”, Rizzoli, Milano, 1990.

Francesco Gandolfi, “A Genova non si passa”, SETI, edizioni Avanti, Roma, 1960.

Anton Gaetano Parodi, “Le giornate di Genova”, Editori Riuniti, Roma, 2010.

 

Antonio Tedesco

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