-di ANTONIO MAGLIE-
“Nelle lotte elettorali di tutti i tempi e di tutti i luoghi è sempre avvenuto e sempre avverrà che gli elementi peggiori pensino di sopraffare gli avversari con la violenza e la corruzione”. L’analisi, un po’ rassegnata, pur essendo stata elaborata da Gaetano Salvemini centosei anni fa, appare di grandissima attualità, applicabile alle mai lenite sofferenze di un Paese, l’Italia, che deve fare i conti contemporaneamente con la presenza di ben quattro organizzazioni criminali sul proprio territorio, strutturate e ramificate ben oltre i luoghi di origine, e la tendenza a un uso personale e spregiudicato della politica che risale alla notte dei tempi. Quelle parole furono vergate dall’intellettuale pugliese nel 1910 e sono contenute nel saggio “il ministro della mala vita”. Salvemini puntava il dito contro Giovanni Giolitti e sui modi decisamente poco commendevoli con i quali perpetuava il suo dominio sulla vita pubblica italiana di quei tempi: “Nessuno è stato mai così brutale, così cinico, così spregiudicato come lui nel fondare la propria potenza politica sull’asservimento, sul pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d’Italia; nessuno ha fatto un uso più sistematico e più sfacciato nelle elezioni del Mezzogiorno di ogni sorta di violenze e reati”.
Quella di Salvemini non era, però, una denuncia sterile o episodica, legata a un fatto contingente come le elezioni del 7 marzo 1909 (una settimana dopo sul’Avanti! scrisse un fondo in cui esponeva le stesse critiche che avrebbe ripetuto un anno dopo in maniera più articolata), era la sostanza di una battaglia politica: quella per il suffragio universale perché, come avrebbe scritto in un libriccino dal titolo “Perché vogliamo il suffragio universale”, “i ricchi e i deputati da loro eletti, e il governo che è formato dai deputati, non vogliono dare il diritto di voto a tutti perché sanno che così molte ingiustizie a danno dei lavoratori non potrebbero più commetterle” (1911). Il suffragio universale oggi esiste (si parla di un abbassamento della soglia anagrafica a sedici anni d’età) ma le cose continuano ad andare nella maniera indicata nella prima citazione e non in quella prefigurata nella seconda, con la conseguenza che quel diritto di voto per il quale Salvemini e i socialisti lottarono all’inizio del secolo scorso, oggi da molti viene vissuto come un fastidio da evitare disertando le urne.
La vicenda di Stefano Graziano (l’inchiesta sui collegamenti e il presunto scambio di favori tra il Pd e il clan dei casalesi a Santa Maria Capua a Vetere) ripropone in maniera ancora più drammatica la questione sollevata da Salvemini relativamente ai metodi giolittiani di conservazione del potere. Con una differenza non di poco conto. Nell’Italia dell’inizio del secolo scorso, era la politica che con la violenza e la corruzione asserviva la società tanto da indurre l’intellettuale pugliese a pensare che sarebbe stato sufficiente l’allargamento del bacino elettorale (e quindi del controllo popolare) a combattere e limitare certi fenomeni; nell’Italia contemporanea, caratterizzata dalla freddezza partecipativa, dall’indifferenza e dall’assenteismo, è stata costruita una alleanza tra poteri visibili e invisibili, legali e illegali che gestiscono affari, clientele, assunzioni, prebende, favori. Allo spudorato uso del potere da parte di uno solo, sembra essersi sostituito un intreccio di poteri ancora più capillare e letale.
Graziano ha opportunamente presentato le dimissioni dichiarandosi estraneo alle accuse che gli vengono rivolte: buona regola sarebbe considerarlo innocente sino a sentenza passata in giudicato. Ovviamente non sarà così, perché sul caso si è già scatenata la solita polemica politica che si preoccupa non di capire ma di conquistare qualche utile alle prossime elezioni amministrative. Eppure il caso dovrebbe obbligarci a valutazioni più meditate che riguardano in generale le forme della politica, il modo in cui avviene la selezione della classe dirigente, gli strumenti attraverso i quali si sviluppa la partecipazione, la capacità generale di controllo degli eletti da parte degli elettori, la sostanza della delega e, soprattutto, la “qualità” della proposta.
Lo slogan che ha lanciato il Movimento 5 stelle nel firmamento elettorale è stato: “L’onestà tornerà di moda”. C’è da augurarselo ma c’è anche da dubitare che la cosa possa avvenire con la semplice perorazione mediatica. L’onestà non è un programma politico: è qualcosa di più e di diverso. E’ la condizione per esercitare una funzione pubblica. Non ha un colore perché dovrebbe averli tutti. Non dovrebbe associarsi a condizioni di monopolio perché dovrebbe essere trasversale. Chi oggi si erge a unico titolare di quel “bene” domani potrebbe subire un brusco risveglio perché se le “nuove forme della politica” non si sostanziano in qualcosa di più robusto (una profonda revisione culturale del modo di intendere il potere e la sua gestione), la semplice dichiarazione di intenti potrà facilmente essere travolta da un processo di inquinamento della scena pubblica che nessuno è riuscito a fermare, nemmeno i giudici con buona pace di Piercamillo Davigo.
L’onestà manca perché la politica è debole. E la politica è debole perché è priva di idealità. E la mancanza di idealità è la conseguenza dello scarso radicamento sociale prima ancora che territoriale. Il radicamento sociale, a sua volta, non può fare a meno delle “classi di riferimento”. E la selezione delle “classi di riferimento” avviene sulla base di una “visione”, di una “idea di società”, di un codice di azione e comportamento collettivo finalizzato al raggiungimento di determinati obiettivi e alla costruzione di ben definiti equilibri. Se tutto questo manca, prevale la logica dello “scambio”, esattamente quella che emerge da questa ultima inchiesta; l’antica logica italiana familista che è di fatto alla base della concezione mafiosa, della “famiglia” come luogo in cui si premiano gli adepti e si puniscono i non adepti, i nemici. La grande colpa del Pd consiste nel fatto di aver ceduto alle lusinghe del “partito leggero”, del “partito del capo”, del partito tutto tweet ma niente anima, di aver felicemente accettato la “liquidità” forse non rendendosi conto che quella di Bauman è prima che una analisi, una denuncia. Il partito senza popolo non regge perché quel vuoto viene inevitabilmente riempito dalle clientele e, soprattutto, dai costruttori di clientele. La “trasversalità” elettorale, oggi tanto di moda, può essere un imbroglio e può favorire proprio quella “cultura del voto di scambio” che ha accentuato il processo di degenerazione della politica.