Per l’occupazione servono investimenti

-di ANTONIO MAGLIE-

In questi giorni di grande dibattito su pensioni, giovani e occupazione, un aspetto fondamentale della questione è stato dimenticato, cioè l’ingrediente essenziale nella produzione di nuovi posti di lavoro: gli investimenti. Pensare che l’occupazione possa crescere grazie a riti propiziatori, alla riduzione di qualche contributo o alla semplice “staffetta generazionale” è utopia allo stato puro. Va benissimo parlare di flessibilità, considerate le rigidità introdotte dalla legge Fornero, ma deve essere un aiuto per migliorare la vita di tutti, giovani e anziani, non per peggiorare l’esistenza dei secondi nella certezza che non subirà particolari cambiamenti quella dei primi. Da questo punto di vista circolano soluzioni tanto fantasiose da indurre ad aver paura della fantasia degli esperti, in particolare gli economisti (diceva qualcuno: dovrebbero analizzare il presente e predire il futuro, in realtà predicono il presente e analizzano il futuro). A “Ballarò” l’altra sera l’ex presidente dell’Istat ed ex ministro, Enrico Giovannini, rivendicava la paternità di una di queste idee: il prestito contributivo. Una roba che se passasse si trasformerebbe in un doppio colpo al reddito dei futuri pensionati.

In sostanza nei due-tre anni che separano dal raggiungimento del traguardo, le banche pagherebbero un pezzo di pensione che poi comincerebbe ad essere liquidata dall’Inps che, però, tratterrebbe in forma rateale il “prestito” garantito dagli istituti di credito. Per effetto della flessibilità, insomma, si perderebbe sulla cifra in assoluto e poi su quella che si dovrebbe percepire per via dei ratei bancari. Un vero capolavoro. Prefigurato, per giunta, in una fase in cui non è che le banche godano della fiducia incondizionata dei cittadini alla luce dei disastri prodotti nell’ultimo abbondante decennio. Flessibilità, dunque, ma a patto che abbia un costo accettabile e non si trasformi nello strumento per impoverire ulteriormente chi sa già in partenza che andando in pensione dovrà abbassare il proprio tenore di vita. Poi sarebbe anche opportuno che il presidente dell’Inps cominciasse a tenere sotto controllo il suo ego ipertrofico. Perché la spinta verso le luci della ribalta, spesso induce Tito Boeri ad affermazioni che dovrebbero avere, a livello politico, conseguenze immediate.

Un esempio? Pochi giorni fa si è abbandonato a questa dichiarazione: “Abbiamo trovato tantissimi ostacoli, soprattutto per l’invio delle buste arancioni, lo voglio dire con sincerità, c’è stata paura nella classe politica, paura che dare queste informazioni la possa penalizzare sul piano elettorale”. E’ evidente che si tratta di una denuncia grave che chiama in ballo per primo il governo in carica e il presidente del consiglio che ha voluto il professore bocconiano al vertice dell’Inps. Proprio perché grave, quell’atto d’accusa potrebbe avere solo due conseguenze, ovviamente alternative: se fosse fondato, il capo del governo dovrebbe andare a casa perché per interessi di bottega ha impedito la diffusione di notizie di pubblico interesse; se è infondato, allora dovrebbe essere il presidente del consiglio a “cacciare” su due piedi l’imprudente presidente dell’Inps. Come si dice: tertium non datur.

Da questo dibattito (che, come ha detto Susanna Camusso, genera solo allarmi in un contesto sociale bisognoso, al contrario, di essere gestito con una certa delicatezza) emerge un dato a dir poco sconveniente: in questo paese due sole categorie di cittadini devono farsi carico del bene comune, i lavoratori dipendenti e i pensionati. Tutti gli altri sono assolti da qualsiasi obbligo, come se non avessero alcuna responsabilità per la situazione che si è venuta a creare. Da anni, anzi da decenni, i governi, giocando di sponda con gli imprenditori, aumentano l’età pensionabile ufficiale. Peccato, poi, che nelle aziende i manager, non appena i lavoratori arrivano intorno ai cinquantacinque anni, comincino a scalpitare per metterli alla porta. A quella età, come è ampiamente noto, non trovi più un nuovo posto di lavoro. La pensione è stata così trasformata in un ammortizzatore sociale dagli stessi che ora sbraitano e a ore alterne proclamano l’insostenibilità del sistema (che ci sia un interesse a smantellarlo?).

E’ la deriva che porta (ha già portato?) a uno scontro generazionale sfruttando la semplicità, anzi il semplicismo dei messaggi: gli anziani non mollano l’osso e i giovani vengono affamati. La realtà, ovviamente, non è questa. In Italia l’occupazione non cresce per un motivo semplicissimo: da tempo gli imprenditori hanno smesso di investire, da molto prima delle due crisi (dei mutui subprime e dei debiti sovrani) che ci hanno colpito. Nel decennio che ha preceduto il fallimento di Lehman Brothers, le aziende italiane, di tutte le dimensioni ma in special modo le grandi e grandissime, hanno incamerato utili decisamente più cospicui degli aumenti del Pil nazionale (che non sono entusiasmanti da molto tempo). Hanno fatto molta finanza, moltiplicato i pani e i pesci ma hanno evitato di irrobustire il sistema producendo le condizioni che ci hanno portato a una disoccupazione ben oltre l’11 per cento. Siamo fermi ma certo non per caso o per colpa di quel destino cinico e baro che agli inizi degli anni Cinquanta, di fronte a un risultato elettorale deludente, evocava Giuseppe Saragat. La staffetta generazionale aiuta ma non basta perché non è la terapia definitiva e risolutiva. Un governo che avesse voluto realmente cimentarsi col problema, non avrebbe inseguito l’unica strada delle agevolazioni contributive che si sono trasformate in un sussidio a pioggia, così a pioggia che ora l’erba stenta a crescere perché il terreno non è più irrigato come lo scorso anno.

 Un governo che avesse voluto affrontare il problema pensando non agli immediati benefici elettorali ma alle prospettive economiche a medio termine (nelle urne, però, fruttano poco), prima che agli sconti contribuitivi, si sarebbe dedicato allo studio dei modi per stimolare e agevolare gli investimenti e, probabilmente, avrebbe inserito in questo piano anche quegli sconti subordinandoli a un impegno robusto e duraturo delle aziende sul fronte della crescita del sistema produttivo e, quindi, dell’occupazione. Ma così non è stato. Ed ecco allora che un po’ tutti, da Padoan alla new entry Nannicini, da Boeri a Poletti, si affannano con gli attrezzi del piccolo chimico per cercare la formula miracolosa che faccia spuntare nel deserto i posti di lavoro. Agendo, ovviamente, sempre sugli stessi soggetti, quelli che di fatto reggono questo paese: lavoratori dipendenti, pensionati e i loro figli e nipoti.  Come cantava De Gregori: “Viva l’Italia metà dovere e metà fortuna”.

antoniomaglie

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