-di ANTONIO MAGLIE-
Trentacinque anni fa il 68 per cento degli italiani respinse la proposta referendaria sostenuta dal Movimento della Vita che puntava a cancellare la legge sulla regolamentazione del diritto d’aborto approvata tre anni prima con il contributo decisivo di personalità cattoliche come Raniero La Valle, che nel 1974 si erano già schierate contro l’abrogazione del divorzio. Ma quella cancellazione impedita attraverso le urne è stata nei fatti realizzata attraverso l’obiezione di coscienza e adesso il Consiglio Europeo “condanna” l’Italia sottolineando che fa poco o nulla per applicare il provvedimento, cioè per consentire alle donne di fruire di un diritto che lo Stato dovrebbe garantire ma che si guarda bene dal farlo. Anzi. Lo scorso 15 gennaio, all’interno di un decreto legislativo messo a punto dal ministro della giustizia, Andrea Orlando che provvedeva alla depenalizzazione di alcuni reati, la multa da irrogare alle donne che abortivano al di fuori delle prescrizioni della legge 194 del 1978 veniva aumentata sino a duecento volte: da cinquanta a cinque, diecimila euro. Insomma, da un lato si accetta che l’alta percentuale di medici e paramedici obiettori (il 67 per cento al Nord, l’80,5 per cento al Sud) garantisca il sabotaggio del provvedimento, dall’altro si penalizzano le donne che semmai vengono obbligate a seguire altre strade, seppur in violazione della legge, per ottenere un diritto che altri negano loro con la protezione della legge. Un vero, grandissimo paradosso.
Un paradosso che meritoriamente la Cgil guidata da Susanna Camusso ha riportato all’attenzione generale con un ricorso presentato tre anni fa e che ora è stato accolto dal Consiglio d’Europa. Il sindacato aveva sottolineato come l’articolo 9 della legge di fatto finisse per violare la carta sociale europea poiché non prevede, per il funzionamento delle strutture pubbliche, gli interventi necessari per garantire nelle corsie la presenza di personale non obiettore. Tesi fatta propria dal Consiglio che ha sottolineato come chi non obietta finisce per essere sottoposto “a diversi svantaggi lavorativi”; che nell’attuale situazione “le donne che cercano accesso ai servizi di aborto continuano ad avere di fronte una sostanziale difficoltà nell’ottenere l’accesso a tali servizi nella pratica, nonostante quanto previsto dalla legge”; che “in alcuni casi considerata l’urgenza della procedura richiesta, le donne che vogliono un aborto possono essere forzate ad andare in altre strutture (private, n.d.r.) in Italia o all’estero, o a mettere fine alla loro gravidanza senza il sostegno o il controllo delle competenti autorità sanitarie, oppure possono essere dissuase dall’accesso ai servizi di aborto a cui hanno invece diritto”.
L’ultima sottolineatura, pone un interrogativo che si collega direttamente ai dubbi che accompagnarono l’approvazione della legge che, come è noto, nacque sulla base di una faticosa mediazione con la Dc (che evidentemente non bastò ai settori più oltranzisti che si coagularono intorno al Movimento per la Vita, cioè a Comunione e Liberazione). La domanda è semplice: siamo proprio sicuri che tutte le “obiezioni” siano sincere? Oggettivamente, già il 67 per cento al Nord è un dato molto elevato, ma l’80,5 per cento al Sud assume caratteri talmente oceanici da indurre a qualche cattivo pensiero. Per carità, nessuno mette in dubbio la buona fede di medici e paramedici, ma certo è che se si mettono a confronto questi dati (sono contenuti nel ricorso della Cgil) estremamente clamorosi con quelli relativi alle presenze alle messe domenicali (molto più scarni e deludenti) i dubbi vengono perché è forte l’impressione che i “cattolici da corsia” non affollino, poi, in misura corrispondente, i sagrati delle chiese. Può l’interesse, anche economico, consigliare certe scelte? Sia chiaro, tutti i medici sono degni di stima ma un ministero della Salute che si segnalasse per imparzialità di comportamenti, qualche forma di controllo l’attiverebbe perché se esiste il diritto all’obiezione, esiste, ancor di più, il diritto a usufruire di determinati servizi perché, come dice il Consiglio d’Europa, sanciti dalla legge. E forse un governo più attento alle questione dei diritti di libertà, che già non è stato proprio coerentissimo sul fronte delle unioni civili, dovrebbe porsi il problema di risolvere un aspetto critico di quella legge che risale al momento della sua promulgazione, avvenuta il 18 maggio del 1978 con 160 voti a favore e 148 contro.
Perché la questione della coesistenza del diritto all’aborto con il sostanzialmente contrario diritto all’obiezione di chi avrebbe dovuto garantire garantire il primo, era evidente anche al legislatore di allora. Si sapeva che la questione sarebbe esplosa, prima o poi. Ma quelli erano anni difficili, in cui l’Italia era ancora semicoperta sotto una cappa di bacchettonismo e la Dc era elettoralmente fortissima. Con grande fatica era stata strappata la legge sul divorzio. Il movimento femminista con la sua vivacità, riuscì a porre con forza al centro del dibattito politico la questione dell’aborto anche perché in quel paese i “cucchiai d’oro” facevano grandi affari nei loro sottoscala, semmai schierandosi, alla luce del sole, dalla parte degli “anti”, con una pratica decisamente disinibita.
Il primo a porre in Parlamento il problema fu lo stesso parlamentare socialista che aveva combattuto la battaglia del divorzio: Loris Fortuna. Era il 1973 quando in parlamento approdò la prima proposta legislativa. Passarono altri due anni e folgorati sulla via del femminismo rimasero comunisti, socialdemocratici, repubblicani, persino (al ribasso) democristiani: tutti presentarono disegni di legge. Ma ci vollero altri tre anni, il grande attivismo dei Gozzini e dei La Valle (gli indipendenti di sinistra) e la fortissima pressione dei radicali guidati da Marco Pannella e Adele Faccio per giungere all’agognato traguardo. L’aborto era pratica diffusissima, che nei fatti univa donne cattoliche e non cattoliche, giovani femministe e signore anziane che avevano vissuto sulla propria pelle la paura, i rischi e l’umiliazione di un intervento spesso realizzato in condizioni igieniche precarie, da persone (le “mammane”) certo non dotate di particolari conoscenze scientifiche e, quindi, aduse a pratiche molto rozze e spregiudicate.
I cattolici oltranzisti e la Chiesa (era papa Giovanni Paolo II che se la legò al dito) furono spiazzati dalla risposta dell’elettorato italiano. Il Movimento per la Vita venne travolto da una valanga di no: ventuno milioni e mezzo, il 68 per cento di coloro che erano andati alle urne (quasi l’ottanta per cento degli aventi diritto). Per una di quelle strane coincidenze che racconta la cronaca, la decisione del Consiglio d’Europa è arrivata solo tre giorni dopo l’Esortazione di Papa Francesco sui temi relativi alla famiglia, ai figli e alla procreazione. Ancora una volta dal Vaticano è arrivato “l’invito” ai medici cattolici a battere la strada dell’obiezione. Se a questo punto anche lo Stato battesse un colpo non sarebbe male. Ma dubitiamo che lo farà. Almeno attraverso l’attuale governo, timidissimo sui temi dei diritti civili.