La politica maleducata

-di ANTONIO MAGLIE-                                           

            Negli anni migliori di questa Repubblica (quelli immediatamente successivi alla conclusione della guerra) i partiti, senza particolari distinzioni, svolsero un ruolo pedagogico fondamentale. Un Paese che era uscito a brandelli dalla macelleria bellica, che in vent’anni di dittatura aveva imparato a obbedire (semmai mugugnando), a tacere (a volte solo per necessità legate alla sopravvivenza) e a combattere (male armato e normalmente sconfitto) si ritrovò a dover fare i conti con la politica senza avere dimestichezza con gli strumenti che danno concretezza a quell’antico bisogno umano. I partiti, le sezioni divennero luoghi in cui si diffondeva cultura, in cui ci si alfabetizzava, in cui ci si allenava a partecipare acquisendo una pratica sino a quel momento sconosciuta perché non richiesta, anzi vietata, da chi deteneva il potere. Oggi di pedagogico nei comportamenti dei leader e dei sotto-leader dei partiti (che non sono più quelli di una volta, annichiliti da tangentopoli e da una rivoluzione tecnologica che ha reso accessorio il piacere della partecipazione diluendolo e identificandolo esclusivamente nella stanca e periodica ritualità del voto) non vi è traccia. Anzi, domina l’assoluta mancanza di galateo istituzionale che può anche essere considerata una semplice questione di buona educazione ma che in realtà è il segno di un degrado profondo che finisce per trasformarsi a una azione pedagogica al contrario nel senso non di allenare alla partecipazione ma all’indifferenza, al rifiuto e all’assenteismo (i dati, in tal senso, sono significativi). Un degrado pericolosissimo perché alla fine di questo processo evolutivo (o forse sarebbe meglio definirlo involutivo) può esserci un pericoloso avvitamento della democrazia.

            Matteo Renzi, ad esempio, sembra coltivare un’ idea molto personale di partecipazione. E il suo atteggiamento, tutto sommato non sarebbe granché disdicevole se venisse da un semplice segretario di partito; venendo però dal premier, finisce per qualificarsi come una clamorosa mancanza di rispetto per principi, prima ancora che costituzionali, culturali. Nella loro forma costituzionale, per quanto soggetta a revisione, vanno comunque rispettati, soprattutto da chi è al vertice nella scala gerarchica dello Stato. Il premier, infatti, da un lato invita a non presentarsi alle urne domenica prossima “istigando” così i cittadini a non esercitare il più importante dei loro diritti, il voto; dall’altro si presenta come il promotore di un referendum Costituzionale che non tocca a lui promuovere perché la Carta non lo inserisce nell’elenco dei soggetti che possono chiederlo. La violazione del “galateo” (non delle norme perché l’astensione in questo tipo di consultazione è ammessa e diventa opzione politica) è così evidente che è dovuto intervenire il presidente della Consulta, Paolo Grossi, per sottolineare, a proposito dell’appuntamento di domenica sulle “trivelle”, che “il voto è personale ed eguale, libero e segreto” e che il suo “esercizio è dovere civico”, concludendo, ovviamente, che “ognuno è libero di esprimere il proprio convincimento”.

            E’ capitato altre volte che gli elettori siano stati invitati ad “andare al mare” ma questa è la prima volta che l’invito arriva da una persona piazzata al vertice delle Istituzioni detenendo uno dei tre poteri (l’esecutivo) in cui si articola la forma democratica e repubblicana. In questi casi, il riferimento automatico è a Bettino Craxi che, da “semplice” segretario del Psi, chiese agli italiani di disertare il 9 giugno del 1991 le urne del referendum sulla “preferenza unica”. La diserzione non ci fu e la Prima Repubblica crollò anche per quel voto. Eppure, da presidente del Consiglio, Craxi riuscì a respingere le sirene (Marco Pannella) che nel 1985 gli consigliavano di chiedere agli elettori di non presentarsi ai seggi per confermare o cancellare il famoso decreto di San Valentino, quello che tagliò tre punti di scala mobile.

            Ma se Renzi adatta a suo piacimento il concetto di partecipazione che si accompagna all’istituto referendario, dall’altro ci sono le opposizioni che hanno ormai trasformato il Parlamento in una sorta di ring, manifestando un profondo disprezzo verso l’Istituzione che in un sistema democratico più di tutte le altre dovrebbe essere protetta. In questo caso ha ragione Renzi: chi si sottrae al confronto in aula ha sempre torto, non nel merito delle cose che vengono dette e proposte, ma nel metodo che di fatto finisce per trasformare le aule parlamentari solo in un orpello inutile e costoso, dando cosi ragione a chi traffica con le suggestioni della “democradura” alla Erdogan, alla Putin o alla Orbàn. Presentarsi in una decina nell’aula di Montecitorio è un insulto non tanto al premier, che può strafregarsene, ma agli elettori; un insulto non al presidente di turno dell’assemblea, ma all’Istituzione nel suo complesso; uno sberleffo, una pernacchia degna di Totò e Sordi solo che loro in questo esercizio si producevano nei film non alla Camera dei deputati. Uscire dall’aula accusando il governo di comportamenti autoritari diventa un’offesa alla realtà e al buon senso (quando la dittatura stava nascendo per davvero, ci fu l’Aventino e non portò lontano). E noi cittadini, perché mai dovremmo pagarvi se poi con motivazioni a dir poco strumentali, vi sottraete al vostro lavoro che è quello di discutere leggi e riforme, confrontarvi e votare? Perché al dibattito sulla revisione costituzionale non è stato anteposto quello sulla mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni in seguito allo scandalo del petrolio lucano? Suvvia, siamo seri. E proprio il bisogno di serietà dovrebbe indurre Luigi di Maio a non illustrare tesi strampalate come quella di un governo non legittimato perché in attesa di un voto di sfiducia o di fiducia. Di Maio sa bene che non è così, come lo sanno tutte le persone di buon senso: la legittimazione a governare verrà meno quando il Parlamento con il voto dirà a Renzi di tornare nella sua casa in Toscana. Ma al momento è pienamente legittimo, una condizione che né lui né Brunetta possono contestare.

            E poi che senso può avere e, soprattutto, che benefici può dare, il trascinamento nell’arena della polemica sanguinosa, della più importante istituzione di garanzia, la presidenza della Repubblica? Matteo Salvini che alla dialettica ha sostituito il turpiloquio sistematico, pur di non ammettere chiaramente di aver preso una mastodontica “topica” rispetto alle parole pronunciate al Vinitaly da Mattarella, martella da giorni il Quirinale. Ma se il confronto si trasforma in una guerra di tutti contro tutti, nell’idea che tutto è ammesso a cominciare dall’insulto, dall’umiliazione dell’avversario, che nulla e nessuno va rispettato, che le istituzioni (al di là delle persone che le rappresentano nella fase contingente) sono semplici optional che possono essere ridotte a brandelli per un personale ed effimero beneficio elettorale, che fine fa la tenuta del Paese? Cosa resterà nelle mani dei vincitori? Macerie culturali, intellettuali, politiche. E, soprattutto, la diffusa consapevolezza che possiamo fare a meno gli uni degli altri e tutti insieme di quella casa comune chiamata Italia; l’illusione di bastare a sé stessi in un eccesso di individualismo che si trasforma in vero e proprio cannibalismo, in un vortice distruttivo e autodistruttivo senza fine e futuro.

antoniomaglie

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